Un thriller spedito in concorso a Cannes e poi uscito in Cina in sedicimila copie con i visti del governo in evidenza, anche se scolpisce un ritratto urticante del paese di XiJiujing. Il film coreografa la ferocia, la rapacità, la mercificazione, le mostruose diseguaglianze di un paese che ha unito l’impetuosa crescita economica al controllo sempre più capillare dei cittadini. E tutto con una grande crudeltà precisione e humor. Regista Diao Yinan già Orso d’Oro a Berlino nel 2014 con Fuochi d’artificio in pieno giorno.
Tratto dall’omonima pièce teatrale, il film racconta di una figlia alle prese con un bizzarro e divertente padre affetto da demenza senile. Esordio alla regia del drammaturgo francese Florian Zeller il quale rovescia la prospettiva vista in opere simili trascinando il pubblico dentro la mente fallace del protagonista anziché osservare le conseguenze e il deterioramento dall’esterno. Un dramma da camera emotivamente intenso, con un grande Anthony Hopkins. Film vincitore di 2 premi Oscar.
Quanto potrà mai durare la democrazia in questo paese?” Al massimo un paio d’anni e si torna indietro. È questo quello che pensano ancora le alte sfere all’indomani della fine di una delle più terribili dittature del dopoguerra, quella argentina. Ne è certo anche Arquimedes Puccio, tranquillo e abitudinario padre di famiglia, che riesuma senza scrupoli l’agghiacciante pratica del sequestro per applicarla ai giovani ricchi del suo vicinato, per conto terzi e per guadagno personale.
Trent’anni dopo il clamoroso arresto del clan Puccio, Trapero racconta questa storia stringendo l’obiettivo su Alejandro, il figlio rugbista di Arquimedes, diviso tra l’obbedienza cieca al patriarca e il dissonante rumore di fondo della coscienza e di un’età naturalmente rivolta al futuro. E chi meglio di Pablo Trapero, verrebbe da pensare, dopo che il regista ha raccontato i peggiori abissi del suo paese riuscendo nell’arte acrobatica di affondare nel dramma senza mai impastarlo di retorica. Tutta via questo è un altro film. Non solo non c’è il Trapero più intenso, ma nemmeno il maestro del montaggio, qui gestito in pieno stile hollywoodiano, alla maniera di un “Blow” e affini. Non fosse per la crudeltà dei fatti narrati, e tirando l’affermazione con l’elastico, si potrebbe quasi parlare di commedia per Il Clan, relativamente al trascorso stilistico del regista, sia chiaro. Dall’uso scanzonato della musica (“Just a Gigolo – I ain’t got nobody” sottolinea il bisogno di Puccio di avere i figli dalla sua parte, non potendo fidarsi di nessun altro allo stesso modo) al gusto dell’ingenuità nel racconto della scalata sportiva di Alex, del romance con Monica (Stefania Koessl) e del loro sogno svedese, ci sono tutte la caratteristiche di un film di sicuro appeal, ma decisamente più allineato col gusto medio di questo genere di biopic, persino televisivo, che sulla personalità autoriale che il regista ha mostrato fino ad ora.
Guillermo Francella, che non a caso è un volto notissimo della televisione argentina con un curriculum principalmente leggero, quando non di comico puro, qui subisce un’ulteriore trasformazione dopo l’uso che di lui ha fatto Campanella (Il segreto dei suoi occhi) e passa radicalmente di là dalla barricata, da vittima a carnefice, conservando però quell’aria da amico della porta accanto e quell’affettuosa empatia che qui servono il gioco.
L’immediatezza magistrale della regia di Trapero e l’amara ironia che attraversano il film senza interruzioni, garantiscono un risultato comunque impeccabile, specie perché il ritratto che viene fatto di padre e figlio non sfocia mai nella fascinazione per il male. Il successo di pubblico in Argentina, dove il caso ebbe un fortissimo impatto sull’opinione pubblica, è stato, come prevedibile, immediatamente molto grande.
Zev Guttman, ebreo affetto da demenza senile, è ricoverato in una clinica privata con Max, con cui ha condiviso un passato tragico e l’orrore di Auschwitz. Max, costretto sulla sedia a rotelle, chiede a Zev di vendicarli e di vendicare le rispettive famiglie cercando il loro aguzzino, arrivato settant’anni prima in America e riparato sotto falso nome. Confuso dalla senilità ma determinato dal dolore, Zev riemerge dallo smarrimento leggendo la lettera di Max, che pianifica il suo viaggio illustrandone i passaggi. Quattro le identità da verificare, uno il colpo in canna per chiudere una volta per tutte col passato. Tra America e Canada, Zev troverà il suo ‘nazista’ e con lui una sconvolgente epifania.
C’è stato un tempo (lontano) in cui il nome di Atom Egoyan risuonava come la promessa di un cinema ‘deragliante’. Un cinema di resistenza e devianza contro i dettami della società nord-americana e contro quelli dell’industria cinematografica hollywoodiana. Negli ultimi anni invece l’autore canadese, indeciso tra Hollywood e indipendenza, ha faticato a trovare il suo posto, a rintracciare il suo sguardo precursore e la cerebralità glaciale sotto cui coltivava l’emozione e faceva di quell’emozione un vero e proprio campo di tensione. Tuttavia Remember riemerge a sorpresa la sua identità canadese e le sue ambizioni artistiche, infilando, dopo quello di Felicia, un altro viaggio straordinario. Quello di un sopravvissuto alla Shoah che soffre di demenza senile, che vorrebbe vendicare il suo passato, che intraprende il viaggio e dimentica regolarmente perché lo ha intrapreso. Remember ribadisce gli elementi tipici del cinema di Egoyan, a partire dalla sua attenzione per la struttura (a puzzle o a labirinto). Una struttura che produce un’abile premessa smentita poi dall’epilogo, lasciando lo spettatore solo col suo desiderio di coerenza. Perché una parola e un’immagine interrompono improvvisamente il processo di costruzione di senso, invalidando il lavoro compiuto e innescando un movimento di rivalutazione della vicenda che annuncia qualcosa fino a quel momento impensabile. Impossibile dire meglio e di più senza togliere allo spettatore il piacere frustrante (e frustrato) di una manifestazione inattesa.
Alla maniera di Black Comedy, dove un piano sequenza smascherava il mito di una famiglia perfetta, costringendo il protagonista e lo spettatore a riconsiderare le tracce del passato alla luce di quella rivelazione, Remember sconfessa la propria edificazione narrativa con un arresto secco, un passaggio di segno brutale che introduce un nuovo ordine e configura una nuova inquietante emergenza. La violenza dell’atto di ricomposizione ‘uccide’ il protagonista di Christopher Plummer e basisce lo spettatore empatico con la ricerca di vendetta. Un regolamento di conti con la Storia e con una storia di ‘privazione’, che il vapore della doccia, la sirena di una diga, il ringhio di un pastore tedesco, le grida rabbiose di un poliziotto ubriaco, ‘rigenerano’, giustificano e suggeriscono, perché in relazione di vicinanza con l’esperienza concentrazionaria.
L’indagine estenuante e l’impossibilità di Zev di concedere il proprio perdono al giovane SS, si rovescia di colpo e con un colpo di pistola in un movimento che colpisce duro personaggio e spettatore, precipitando il film in un territorio instabile su cui non è davvero più possibile ricostruire, neppure dolorosamente. In questo scarto ritroviamo la poetica di Egoyan, il suo cinema incentrato quasi sempre su una catastrofe assente, di cui ripercorriamo i brani e di cui conosciamo soltanto lo choc di ritorno. Il trauma su cui i suoi personaggi cercano di riprendere il controllo attraverso una ricerca improntata frequentemente sulle foto o sui video. Remember, thriller senile sulla Memoria e sulla mostruosità banale del totalitarismo, che ha privato l’uomo della percezione di sé e di tutte le categorie intellettive soggettive, quelle che permettono di discernere e di scegliere con coscienza tra il bene e il male, ritrova l’autore e la strategia dello scarto del suo cinema, lo stravolgimento della percezione e il narcisismo con cui riconciliamo la frattura tra desiderio e identificazione.
Chris Wilton è un tennista che ha rinunciato alla sua carriera e ora fa il maestro di tennis a Londra in un club di alto livello. Qui conosce il ricco Tom Hewett e sua sorella Chloe che si innamora subito di lui e del suo apparente interesse per la cultura. Il ricco padre dei due lo inserisce nella sua attività finanziaria e il matrimonio tra Chris e Chloe si avvicina. Ma Chris, che ha conosciuto la fidanzata di Tom (l’aspirante attrice americana Nola) e ne è rimasto irrimediabilmente attratto, quando la reincontra libera dal legame con il quasi cognato inizia con lei una relazione basata sulla passione. Il matrimonio avviene e Chloe desidera a tutti costi la maternità. A rimanere incinta è invece Nola che vuole che Chris lasci la moglie. Incapace di resistere alla pressione Chris escogita una via di fuga.
Non è bene raccontare altro del più articolato e fluido dei film recenti di Allen. Liberato ormai dal contratto spielberghiano e probabilmente costretto dalla difficoltà di trovare finanziamenti per i suoi film negli Usa, Woody compie un doppio salto mortale rispetto alla sua ormai più che consolidata tradizione narrativa. Lascia Manhattan per l’Upper Class londinese e (udite, udite) non ha nessun personaggio di origine ebraica nella sua sceneggiatura. Torna invece con forza sul tema dell’omicidio affrontato in modo magistrale ai tempi di Crimini e misfatti, ma soprattutto affronta con genialità anche visiva la questione della assoluta casualità del vivere umano. La sequenza che apre il film (e una sorpresa che non va svelata collocata molto più avanti) offrono, in modo estremamente simbolico e concreto al contempo, un’occasione di riflessione in materia. Woody Allen, come l’Araba Fenice, risorge ancora una volta dalle ceneri che detrattori troppo frettolosi gli avevano di recente e irrevocabilmente attribuito.
Koistinen, guardiano notturno di un importante centro commerciale, conduce una vita solitaria. Non ha mai avuto una compagna e quindi il giorno in cui una bionda avvenente lo avvicina e sembra interessata a lui se ne innamora. La donna è però solo un’esca per consentire una rapina a una gioielleria di cui Koistinen sarà involontario complice.
Kaurismaki torna a fare l’unico cinema che sa fare. Il suo è uno sguardo costantemente alla ricerca di solitudini che cercano di colmare il vuoto della vita non sapendo mai bene da che parte cominciare. Lo fa con quello stile rarefatto che ne connota lo stile e con un’attenzione al cinema del passato che trasuda da ogni fotogramma. Alcune sue inquadrature in dettaglio (ci si perdoni il paragone azzardato) potrebbero provenire direttamente da un film di Chaplin tanto sono precise e cariche al contempo di segni emotivi.
Ancora una volta poi il regista finlandese si conferma (anche se non vi riveleremo nulla per rispetto nei vostri confronti) l’unico regista al mondo capace di realizzare happy end tristi. La storia finisce bene ma è un ‘bene’ profondamente condizionato da un profondo malessere esistenziale di cui la cosiddetta civiltà occidentale sembra non volersi accorgere.
Kaurismaki periodicamente ce ne ricorda magistralmente l’esistenza.
Tom ha amato Guillaume di un amore grande che adesso vorrebbe condividere con i suoi cari. Lasciata Montréal alla volta della campagna canadese, Tom raggiunge la fattoria della famiglia di Guillaume per partecipare l’indomani al suo funerale. Molto presto si rende conto che Agathe, madre di Guillaume, ignora l’omosessualità del figlio. Informato dei fatti è invece Francis, fratello maggiore e omofobico del defunto, che costringe Tom a mentire sulla sua natura e sulla natura della sua relazione con Guillaume. Imprevedibile e violento, Francis esercita su Tom sgomento e attrazione. Indeciso se andare o restare, Tom chiede aiuto a Sara, una collega spacciata per la fidanzata di Guillaume. I film di Xavier Dolan, enfant prodige del cinema canadese, hanno la bellezza estenuata della bocca dopo un bacio, di un rossetto sbavato oltre la linea di contorno, che dice così bene della crudeltà dell’amore, della vita e della difficoltà di viverla. Al suo quarto lungometraggio, Xavier Dolan è già fenomeno da seguire. Provocatorio e tagliente, come le foglie di mais d’estate che ‘spezzano’ i polsi di Tom in fuga da Francis, Dolan realizza un dramma esistenziale che deraglia nello psychological thriller, contempla elementi horror ed è a suo modo un mélo patologico, la drammatizzazione di una patologia (l’omofobia) che prende la forma filmica del melodramma.
Ivan Locke guida nella notte verso Londra. È un costruttore di edifici, ma questa notte si consuma la demolizione della sua vita. All’alba avrebbe dovuto presiedere alla più ingente colata di cemento di cui si sia mai dovuto occupare. Gli americani e i suoi capi hanno incaricato lui, perché per nove anni è stato un lavoratore impeccabile, il migliore: solido come il cemento, appunto. Ma la telefonata di una donna di nome Bethan riscrive l’esistenza di Locke. Prima di quella telefonata, e del viaggio che ha deciso di intraprendere di conseguenza, aveva un lavoro, una moglie, una casa. Ora, nulla sarà più come prima. L’attesa opera seconda di Steven Knight non solo soddisfa ma supera piacevolmente le aspettative. Sceneggiatore talentuoso, per Frears e Cronenberg, con Locke eccelle nell’esercizio di scrittura, ideando un percorso di quasi novanta minuti nel quale il tempo della storia e il tempo del racconto coincidono e non c’è altro luogo al di fuori dell’abitacolo della Bmw in movimento e nessun altro personaggio oltre a quello del titolo, impegnato in un dialogo telefonico pressoché ininterrotto con gli altri nomi del copione: Bethan, dall’ospedale di Londra, la moglie Katrina e i due figli da casa, Garreth, il capo furioso, e Donal, l’operaio polacco al quale Ivan Locke ha affidato la delicata gestione di ogni preparativo in sua assenza. A riscattare, però, Locke da una natura puramente letteraria (viene alla mente un altro portentoso viaggio in macchina su carta, “Wyoming”, firmato da Barry Gifford) è la performance di Tom Hardy, per la prima volta spogliato delle maschere che l’hanno imposto all’attenzione internazionale e messo alla prova nei panni di un uomo medio, dall’aspetto medio, nell’attimo della sua esistenza che fa la differenza.
Ivan Locke ha lavorato sodo per costruirsi la sua vita. Stanotte quella vita gli crollerà addosso. Alla vigilia della sfida più grande di tutta la sua carriera, Ivan riceve una telefonata che scatenerà una serie di eventi dagli effetti catastrofici per la sua famiglia, la sua carriera e la sua anima.
L’attesa opera seconda di Steven Knight supera piacevolmente le aspettative. Talentuoso sceneggiatore, con “Locke” eccelle nell’esercizio della scrittura ideando un percorso di 90 minuti in cui il tempo della storia e del racconto coincidono. Un esempio di come una superba sceneggiatura e un bravo attore possano bastare a fare un grande film. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2013.