Metropolis

In programmazione: 27/04/2017

Descrizione

Metropolis, la megalopoli del futuro, è divisa in due parti. Nella città di sopra vivono i ricchi che godono di tutti gli agi. In quella inferiore gli operai, sfruttati come schiavi. Maria, che si occupa dei bambini di questi ultimi, li conduce un giorno a vedere un giardino della città di sopra. Qui incontra per la prima volta Freder, figlio del padrone assoluto di Metropolis, Frederer. Turbato dalla sua bellezza il giovane la va a cercare e scopre la dura vita degli operai. Maria mette tutte le sue forze nel tentativo di realizzare una mediazione tra quelle che definisce “le braccia e il cervello” ma lo scienziato Rotwang la rapisce e dona le sue sembianze a un robot che istigherà gli operai alla ribellione.
Capolavoro del cinema in assoluto e di quello di fantascienza in particolare Metropolis va collocato nella complessità socio-culturale del periodo in cui venne realizzato. La sceneggiatura è di Thea von Harbou, moglie di Lang, e già questo costituisce un elemento di riflessione perché la scrittrice pochi anni dopo avrebbe aderito al Partito nazista mentre il regista, ebreo per parte di madre, lasciò la Germania per raggiungere gli Stati Uniti. Sta in questo ibrido d’origine una delle possibili cause del fatto che Metropolis venisse, ad esempio, pesantemente criticato da un regista come Buñuel e apprezzato invece da Hitler, che vedeva nello sviluppo della trama e, in particolare nel finale, un sostanziale sostegno alla sua ideologia.
Al di là delle diverse letture coeve, il film costituisce una pietra miliare non tanto per la vicenda narrata, che ha molti debiti con il teatro (in particolare con quello di Ernst Toller e di Erwin Piscator) e non manca di elementi retorici, quanto per la visionarietà dal punto di vista scenografico. Lang si avvalse della collaborazione di ben tre scenografi (Kettelhut, Hunte e Vollbrecht) ed è grazie alla continua riflessione sull’immagine che la città avrebbe dovuto avere che il film superò qualsiasi aspettativa. Come doveva presentarsi una metropoli in cui dominavano l’oppressione e lo sfruttamento? Quanto il riferimento biblico (e brugheliano) alla Torre di Babele doveva divenire significativo? Come far percepire il trionfo delle macchine come un Moloch assetato di sacrifici umani? Sono tutte domande a cui la visionarietà di Lang e dei suoi collaboratori offre una risposta con un’opera che subì innumerevoli mutilazioni nel corso degli anni ma che ora gode di un restauro filologicamente accuratissimo.


Il cittadino illustre

In programmazione: 20/04/2017

Descrizione

Daniel Mantovani, premio Nobel per la letteratura, l’ha profetizzato nel suo antiretorico discorso svedese: la massima onoreficenza farà di lui un monumento, spedendolo anzitempo al museo. Da cinque anni, infatti, non scrive niente di nuovo, e sono più gli inviti che rifiuta di quelli che accetta. Quando però arriva via lettera una richiesta da Salas, minuscolo paese argentino, decide di andare. A Salas, Daniel Mantovani è nato e cresciuto, e da là è fuggito, senza mai tornare, quarant’anni or sono, costruendo la sua identità sul rifiuto di quel luogo e della sua mentalità. Una volta in Argentina, lo scrittore è oggetto di un’accoglienza trionfale, ma col passare dei giorni le cose peggiorano, le sue opinioni non piacciono, si solleva un malumore sempre più generalizzato,un’aria nientemeno che di violenza.
El ciudadano ilustre si apre sulla reazione polemica del protagonista nel contesto ufficialissimo della consegna del premio Nobel e strappa subito un sorriso, facendo pensare alla boutade, ad una sequenza d’apertura scritta per essere efficace e spiazzante in modo ironico. Non è così. Non è una boutade. Il resto del film conferma non solo l’ottimo livello della scrittura e dell’umorismo messo in campo, ma soprattutto una generale intelligenza del film, emotiva e intellettuale, che è la sua migliore eredità.
Duprat e Cohen, coppia creativa, costruiscono una loro “strategia del ragno” su un tema politicamente scomodo e indelicato quale il divario culturale tra il personaggio di Mantovani e i tanti compaesani dai quali ha preso a suo tempo le distanze, e lo fanno con lo strumento della commedia, anche esilarante, ma che non diventa mai presa in giro. Non lo diventa perché quella fotografata, con una misura chirurgica, davvero ammirabile, non è un’esagerazione, bensì un ritratto veritiero. Il camion dei pompieri, la reginetta di bellezza, il concorso di pittura, l’esaltazione della grigliata, il filmato in powerpoint, così come la trasmissione radiofonica, ci fanno morire dal ridere ma nessuno di noi potrebbe negare che sono cose che accadono, e nemmeno gonfiate (l’unica estremizzazione, a fini drammaturgici, è quella del Nobel). Ugualmente, nel ritratto del protagonista, non c’è alcun ridimensionamento di servizio: quel che i registi gli fanno dire, l’accento posto sulla distinzione tra autobiografia e finzione, è materia seria e plausibile, senza sconti. Perché quello è il punto, e loro hanno trovato la giusta misura.
Può dispiacere, questo sì, che l’estetica del film sia così povera, il filtro cinematografico, anche nel senso un po’ spetttacolare del termine, totalmente inesistente. Chiaramente è una scelta ragionata, un contributo formale all’argomento, ma per certi versi è anche un peccato: lo si vorrebbe tutto “bello”, questo piccolo film, come la sua idea.


Neruda

In programmazione: 13/04/2017

Descrizione

Cile, 1948. Il governo di Gabriel Gonzalez Videla, eletto grazie ai voti della sinistra, sceglie di abbracciare la politica statunitense e di condannare il comunismo alla clandestinità. Pablo Neruda, poeta, senatore e massima personalità artistica del Paese, avversa decisamente questa decisione, fino a diventare il ricercato numero 1. In accordo con il partito comunista, Neruda sceglie l’esilio anziché il carcere, ma per riuscire a fuggire deve fare i conti con Oscar Peluchonneau, l’ispettore di polizia che Videla sguinzaglia contro di lui.
Ogni possibile timore sull’approccio di Pablo Larrain alla materia scottante che riguarda il suo celebre omonimo, il poeta e “Senatore” Neruda, risulta totalmente privo di fondamento. Il crudo e nozionistico realismo del biopic è un approccio che non viene mai preso in considerazione, a dispetto del laconico titolo che si limita al cognome del protagonista. La prima e folgorante sequenza è già indicativa. Con un interessante gioco di angolazioni dell’inquadratura e di sfruttamento degli spazi del profilmico il regista illustra la capacità oratoria di Neruda e il misto di invidia e risentimento verso di lui che monta presso i suoi nemici. Anima e voce dello spirito identitario cileno, Pablo Neruda è come se accompagnasse con la sua poesia di ribellione e di intenso amore per la vita le vicende tragiche – future per lui ma passate per Larrain e chi guarda il film – di un popolo glorioso e insieme macchiato dall’infamia. Molto della grandezza di Neruda risiede nella consapevolezza della riflessione ex post e nell’interazione che avviene con questa. Ripensando la filmografia del regista cileno, Neruda diviene spirito guida della precedente trilogia: il migliore rappresentante di quel peculiare modo di intendere la vita che è proprio della gente andina. E anche su questa sua natura di privilegiato, di primus inter pares anche tra i rivoluzionari, la scintillante sceneggiatura di Guillermo Calderón scaglia dardi avvelenati, pregni del senso di amarezza (anche qui ex post) che vive chi ha inseguito il sogno di un mondo migliore e ha assistito alle macerie del pallido surrogato di quel sogno. Nessuno o quasi nella sinistra si interrogava nel 1948 sulla veridicità del verbo staliniano. Nessuno può fare a meno di farlo nel 2016.
Perché prima ancora che artista Neruda è comunista, in linea con la dottrina marxista del primato della politica. E Calderón tende a non farlo mai dimenticare, riempiendo lo script di innumerevoli citazioni del vocabolo “comunista”, quasi a ribadire come il pronunciarlo sia divenuto quasi una bestemmia, a seguito dell’americanizzazione del linguaggio universale che ha contraddistinto gli ultimi decenni.
?Larrain si conferma cantore ineguagliabile della storia del suo Paese e delle sue molteplici contraddizioni, capace in ogni occasione di adottare un registro differente (cruda provocazione in Tony Manero, l’astrazione del marketing dalla tragedia in No – I giorni dell’arcobaleno). Per Neruda sceglie l’estetica del cinema noir classico americano – fino a ricorrere alla rear projection nelle sequenze in automobile – e la cala in un contesto quasi onirico, leggero e veloce come i versi del poeta, magari pronunciati in un bordello di quart’ordine tra fiumi di alcol.
I movimenti di macchina sono talora bruschi e talora fluidi, provano a replicare il saliscendi di emozioni dei personaggi. Senza mai aderire, come in un biopic prevedibile, alla soggettiva dell’uno o dell’altro protagonista. La prospettiva è sempre originale, asimmetrica, spesso inverosimile. E il crescendo conduce progressivamente verso un confronto tra due uomini che si temono e si rispettano, benché sia chiaro fin dall’inizio come uno dei due sia subalterno rispetto all’altro. L’ispettore inventato (da Larrain? Da Neruda? E da quale Neruda?) come nemesi ideale del poeta, con quel baffo a metà tra Clouseau e un flic melvilliano interpretato da Alain Delon, è personaggio fittizio in ogni suo aspetto, lo scarto definitivo da ogni residuo di realismo. Su di lui si abbatte una sindrome da Pat Garrett, una fascinazione insopprimibile per la figura di Pablo Neruda. Un’ossessione per la sua cattura che, più che altro, è dimostrazione a se stesso di volerlo e poterlo catturare e di essere all’altezza del suo rispetto, come uomo e come artista (mancato). Una interessante figura ai margini della storia, un rosentcranz+guildenstern stoppardiano che rifiuta l’uscita di scena, specie come personaggio secondario. E che condisce di lieve ironia un epilogo sensazionale, visivamente – straordinario il lavoro del direttore della fotografia Sergio Armstrong – e narrativamente. Larrain conNeruda trova l’equilibrio perfetto tra esigenza di verità sugli eventi drammatici che hanno caratterizzato la storia cilena e narrazione allegorica. Realismo nei fatti, onirismo nella forma, in un mirabile e perfettamente bilanciato connubio.


Frantz

In programmazione: 06/04/2017

Descrizione

Germania, 1919. Una giovane donna si raccoglie ogni giorno sulla tomba del fidanzato caduto al fronte. La sua routine è rotta dall’incontro con Adrien, soldato francese sopravvissuto all’orrore delle trincee. La presenza silenziosa e commossa del ragazzo colpisce Anna che lo accoglie e solleva di nuovo il suo sguardo sul mondo. Adrien si rivela vecchio amico di Frantz, conosciuto a Parigi e frequentato tra musei e Café. Entrato in seno alla famiglia dell’uomo, diventa proiezione e conforto per i suoi genitori che assecondano la simpatia di Anna per Adrien. Ma il mondo fuori non ha guarito le ferite e si oppone a quel sentimento insorgente. Adrien, schiacciato dal rancore collettivo e da un rimorso che cova nel profondo, si confessa con Anna e rientra in Francia. Spetta a lei decidere cosa fare di quella rivelazione.
La forza del cinema di François Ozon consiste nel mettersi costantemente alla prova, prendendo dei rischi. L’autore francese non gira mai due volte lo stesso film così quello successivo non lo trovi mai dove te lo aspetteresti. Dal polar (8 donne e un mistero) al thriller hitchcockiano (Dans la maison), passando per il racconto moderno (Ricky), Ozon cambia pelle e genere insistendo sulla vertigine intellettuale che provoca la dialettica realtà-finzione. Grande film romanzesco al cuore del quale indugia un segreto, si annidano ricordi ricamati dalle bugie e fioriscono sentimenti mediati dall’arte (un quadro di Manet, un concerto per violino), Frantzribadisce l’impatto dell’immaginario sul mondo, infiltrando un corpo estraneo in territorio straniero.
Adattamento di una pièce di Maurice Rostand che Ernst Lubitsch aveva già trasposto nel 1932 (L’uomo che ho ucciso), Frantz ausculta la tensione franco-tedesca all’indomani della Prima Guerra Mondiale. Ma se il protagonista di Lubitsch rivela senza indugio le ragioni del suo arrivo, l’Adrien di Ozon approccia progressivamente la famiglia di Frantz col suo inconfessato, il tipo di menzogna per cui Ozon ha interesse e predilezione, il tipo di menzogna che crolla sul film mutandone il tono e sconvolgendo la vita dei suoi personaggi. Come indica il suo titolo, Frantz è un film sull’assenza (Frantz è il nome del soldato caduto e non del protagonista), motivo ricorrente nella filmografia dell’autore, che si concentra sulla vita di un uomo (tra)passato di cui rintraccia l’esistenza e la riscrive con un senso del dettaglio proustiano. Senza che lo spettatore possa più distinguere tra finzione e reale, l’autore lo manipola attraverso le esperienze descritte, qualche volta così bene che i protagonisti finiscono loro stessi per compiacerlo. Proprio come dovrebbe fare il cinema, Ozon risveglia i nostri sensi nella delicata scena in cui Adrien è invitato a suonare il violino di Frantz davanti ai suoi genitori. Il silenzio della morte è insopportabile ma l’autore insiste sulle note di Philippe Rombi, riempiendo il vuoto che i personaggi cercano disperatamente di colmare. Raccolti in salotto, combattono l’assenza facendo esistere Frantz nel loro immaginario, quel figlio perduto che Ozon traduce col colore. Perché Frantz è girato in bianco e nero per rendere più credibile il décor ma soprattutto per marcare lo scarto cromatico quando il sogno diventa più bello della realtà. Realtà che scandisce la progressione drammaturgica dei fatti col turbamento che provoca la presenza di un soldato francese in un villaggio tedesco ‘spogliato’ dalla guerra. La nascente amicizia franco-tedesca è essa stessa un’impostura che rivela la frattura di due paesi che vivono lo stesso lutto. La messa in scena bucolica, i tableaux che accolgono i personaggi e li conducono per mano lungo il fiume o sopra un prato, producono uno slancio umanista che trascende le identità nazionali, mischiando le lingue, e la poesia prodotta in quelle lingue, per andare oltre la parola e dimostrare l’universalità dell’immaginazione, il solo balsamo per curare gli orrori della guerra, le cicatrici che Anna ha sul cuore e Adrien incise nella carne. Tuttavia Ozon crea una tensione drammatica rispetto alla percezione dell’ideale, che può rivelarsi fatale in faccia al trauma. La finzione è frustrante perché inaccessibile e i protagonisti lo scoprono nel tentativo di proteggere i loro cari dalla verità. A questo punto il regista inserisce la confessione sconvolgente di Adrien, che passa testimone e carico (morale) ad Anna. La menzogna si impone sulla verità e la protagonista mutua e gioca il ruolo di Adrien mentendo a chi ama. Ma la rivelazione di Adrien si dimostra il motore dell’emancipazione della giovane donna, che al fondo di un conflitto accetta la realtà, dirigendo la sua evoluzione oltre i confini della Germania e verso il ‘fronte’ francese. Fronte in cui Frantz stempera il contesto storico per focalizzarsi sui suoi personaggi in fuga per la ricostruzione.
Dramma ficcato come una spina tra le due guerre e attraversato da un nazionalismo che esacerbato sfocerà qualche decennio più tardi in una Seconda Guerra Mondiale, Frantz fa risuonare in un film d’epoca le agitazioni geopolitiche contemporanee, emergendo l’universalità dei suoi propositi. In conclusione e davanti al quadro di Manet (Le Suicidé), Ozon ci ricorda che il cinema è l’arte della menzogna. Il cinema abbraccia e manipola il mondo reale, come Anna, meravigliandoci e incarnando l’irriducibile istinto vitale che si insinua e persiste. E dolcemente riprende il respiro.


Elvis & Nixon

In programmazione: 30/03/2017

Descrizione

Elvis Presley ha un sogno: essere nominato agente federale dal presidente Richard Nixon. Agli inizi degli anni Settanta l’America è in ambasce. Manifestazioni contro la guerra in Vietnam, rivendicazioni delle Black Panthers, debutto del movimento Hippie e degrado dei costumi richiedono un intervento immediato ed eroico. Deciso a essere lui il local hero che mette ordine nel disordine sociale, Elvis chiede udienza alla Casa Bianca. Ma il presidente Nixon snobba la rock star, che lascerebbe volentieri alla porta senza l’intervento della figlia, fan accanita di Presley, e dei suoi consiglieri che ritengono quell’incontro provvidenziale alla luce delle prossime elezioni. Ricevuto nello studio ovale, Elvis ottiene l’investitura in cambio di un autografo e di una fotografia che immortala il celebre incontro.
Testa a testa comico e crepuscolare tra un presidente e un idolo, Elvis & Nixon mette in schermo l’incontro improbabile ma autentico tra Elvis Presley e Richard Nixon. Attestato da una foto, il confronto celebre ma poco documentato ebbe luogo nel dicembre del 1970, quando Nixon cercava con ogni mezzo appeal ed elettori e Presley veniva raggiunto e superato dallavague del 68. Sorpreso da Liza Johnson in piena transizione, tra il come back riuscito di “Suspicious Minds” e la sua trasformazione in attrazione da luna park, soppiantato da una nuova generazione di rocker inglesi che disprezzava, Elvis è interpretato da Michael Shannon, che costruisce un ritratto complesso e grottesco di un cantante consapevole del mito che era diventato. Di fronte a lui, il presidente di Kevin Spacey, che abita ancora lo studio ovale e cortocircuita Underwood e Nixon (House of Cards) in uno scarto spazio-finzionale, facendo del secondo un grande personaggio comico.
Meditazione sulla decadenza di un idolo e insieme farsa sul potere, Elvis & Nixon è un film d’attori, una parentesi surreale che riflette sulla maniera in cui Elvis risuona con la sua epoca e inevitabilmente con la nostra. Nel 1970 Elvis non è ancora la balena tronfia che si arena sulle scene di Las Vegas ma non è più nemmeno il cantante suadente che rivoluzionò la musica popolare diciassette anni prima. Il meglio dell’artista è già passato e il peggio attende dietro l’angolo. Elvis muore sette anni dopo obeso e sconfitto nel suo bagno di Graceland. In questo scarto si infila Michael Shannon incarnando sobriamente quello che restava di un mito, il suo precipitato sul fondo: un bianco del Sud, ossessionato dalle armi, dalla bandiera americana e dai costumi ridondanti di lustrini. Shannon trova la distanza ideale tra sé e il personaggio, cercando Elvis e trovando un Elvis. Perché l’attore non vuole assomigliargli, dell’artista ricrea una traccia, un’aura, un movimento. Attraverso una costruzione inventiva e il registro della commedia, la Johnson incontra il presidente più conservatore degli Stati Uniti con un musicista ribelle in cerca di un distintivo per difendere sotto copertura una nazione minacciata a tutti i livelli.
Minacciata (soprattutto) nella supremazia wasp, di cui Elvis si fa portatore accanito, farcito di idee semplicistiche sul mondo, disconnesso sulla realtà e talmente abituato a ottenere quello che vuole da non percepire più la soglia del ridicolo. Con gelosia malcelata per i Beatles e i Rolling Stones, conquista la Casa Bianca senza intonare una nota, come la commedia da camera (ovale) di Liza Johnson che non lo ‘intende’ cantare. Perché Elvis & Nixon affronta l’inizio della fine di Presley, a cui non risparmia colpi, frizzi e lazzi.
Caustico con il suo mito, il film descrive un uomo guastato dalla celebrità, che trova normale farsi chiamare ‘capo’ dai suoi amici d’infanzia. Più travestito che vestito, Elvis è prigioniero di Presley, un eroe tragico davanti a cui anche Nixon finisce per cedere. Liza Johnson apre la porta dello studio ovale, rievoca i loro fantasmi e li osserva, nel bene e nel male, fare la storia. Una storia americana.


Indivisibili

In programmazione: 23/03/2017

Descrizione

Viola e Dasy sono due gemelle siamesi che cantano ai matrimoni e alle feste e, grazie alle loro esibizioni, danno da vivere a tutta la famiglia. Le cose vanno bene fino a quando non scoprono di potersi dividere. Il loro sogno (in particolare quello di una delle due) è la normalità: un gelato, viaggiare, ballare, bere vino senza temere che l’altra si ubriachi… fare l’amore.
Ci sono luoghi che sembrano ‘volere’ che un film venga girato nel loro ambito. Questa è l’impressione che si ha vedendo Indivisibili in cui il territorio abusato di Castelvolturno si propone come il contesto ideale per una storia in cui la separazione ha il prezzo di un dolore non solo fisico. Edoardo De Angelis torna lì dove aveva chiuso la sua opera precedente e, grazie a due giovanissime attrici assolutamente in grado di portare sulle loro spalle gran parte della forza del film, ci presenta uno spaccato della società in un’area tormentata della Campania.
Essere unite ‘per sempre’ è, per Viola e Dasy, una condizione che è stata loro descritta come ineluttabile. Ma non è così e quando si scopre che un intervento chirurgico è possibile per loro il futuro assume connotazioni non solo impensate ma anche fino ad allora impensabili. Potrebbero lasciarsi alle spalle lo sfruttamento che un padre rapace e una madre imbelle fanno dei loro corpi. Potrebbero anche mettere in condizione di non nuocere alle anime un prete che fa leva su superstizioni ataviche nonché un sedicente produttore discografico interessato più al loro essere freak e quindi sessualmente diverse che non alle loro voci.
È una storia d’amore sororale quella che ci viene proposta, un amore in cui una delle due chiede di poter respirare autonomamente l’ossigeno della vita trovando un ostacolo nell’altra ma è anche qualcosa di più e di diverso, andando forse al di là delle stesse intenzioni del regista. Perché finisce con il parlarci di una terra e di un popolo che faticosamente (e pagando costi elevati) cerca, nonostante tutto, di mostrare a se stesso e agli altri di poter trovare la forza per dividere, per separare la propria immagine da quella del malaffare e della criminalità, camorristica e non.


Al di là delle montagne

In programmazione: 16/03/2017

Descrizione

Fenyang, 1999. La Cina è a un passo dal nuovo secolo e da Macao, ultima colonia portoghese in Asia. Mentre il Paese si appresta a ristabilire la propria sovranità, Tao, una giovane donna di Fenyang, non sa decidere a chi appartenere. Corteggiata da Zhang, proprietario di una stazione di servizio che si sogna capitalista, e Lianzi, minatore umile che estrae speranze e carbone, Tao prova a fare chiarezza nel cuore. Tra una corsa in macchina e un piatto di ravioli al vapore, sceglie Zhang e getta nella disperazione Lianzi, che abbandona casa e città. Quindici anni, un matrimonio e un figlio dopo, Tao è separata e sola, Lianzi ha un cancro e Zhang vive a Pechino con un’altra donna. Cinico e ricco ha ottenuto l’affidamento del figlio, che ha chiamato come la valuta americana (Dollar) e ha deciso di far crescere in Australia. Terra promessa dall’altra parte del Mondo, l’Australia diventa la patria di Dollar che maggiorenne e inquieto ha deciso di ritrovare sua madre e la Cina. A ostacolarlo c’è Zhang, che non ha mai imparato l’inglese e non ha parole per raggiungere il suo ragazzo. A casa e sotto la neve, attende da sempre Tao.
La mutazione accelerata del (suo) mondo è l’oggetto ideale del cinema di Jia Zhangke. Registrare una realtà che evolve sotto gli occhi con tale velocità e tali proporzioni è la sua vocazione e in un certo senso quella del cinema (delle origini). Dopo il gigantismo del cantiere di Still Life, che conduceva a conseguenze gigantesche, Jia Zhangke svolge una relazione d’amore attraverso gli anni e le trasformazioni economiche del suo Paese. Cuore centrale della storia è ancora una volta Fenyang, città natale dell’autore e punto di ancoraggio estetico e sociale del suo cinema. La sua produzione artistica, avviata nel 1995 e rimasta a lungo clandestina in Cina, testimonia da sempre la fragilità dell’uomo sottomesso a volontà che lo doppiano. Funambolo su un filo teso tra fiction e documentario, l’autore è ritrattista e paesaggista insieme di sentimenti forti emersi da una società in crisi. Vedere i suoi film è come accedere a un laboratorio estetico, un diapason che produce un suono puro, frequenze armoniche che accordano tecnica digitale e finzione, documentario e lirismo elettrico, (iper)sensibilità poetica e interazione tra uomini e ambiente.
Se il suo cinema precedente minacciava l’assorbimento dell’individuo nelle metamorfosi capitaliste, Al di là delle montagne realizza la minaccia e la spiega lungo un’asse temporale che contempla presente, passato e futuro. Sospeso tra la certezza di quello che è stato, il film apre sul Capodanno del 1999, e l’ipotesi di quello che potrà essere, il film chiude sull’inverno del 2025, Al di là delle montagne materializza l’ambizione cinese nella figura di Zhang. Indietro restano Lianzi, senza lavoro e in compagnia del suo cancro, Tao, corpo nazione indecisa sulla strada da prendere al debutto e poi votata al consumo, e Dollar, il prezzo pagato alla conversione economica. Dopo aver reso conto di milioni di persone povere e profughe e aver registrato centinaia di città e siti archeologici sommersi, il regista affronta i flussi migratori e disloca per la prima volta i suoi personaggi al di là dei confini cinesi. L’Australia diventa la terra promessa di Zhang e la terra straniera di Dollar, dentro un melodramma superbo su due generazioni che non riusciranno più a comunicare. In fondo al loro silenzio, che ormai parla soltanto la lingua inglese, resiste la tradizione incarnata da Tao, punto fermo del film che prepara ravioli e ‘riconosce’ la voce cara. Dentro un contesto (sur)reale, dentro città simbolo della cultura classica cinese ridotte a cantieri, Zhangke accomoda tre personaggi in cerca di qualcosa, forse l’amore, forse una famiglia, forse il successo, forse la propria identità, forse una finestra verso il mondo esterno, che ha smesso di essere clandestino e contempla adesso l’occidentalità pop dei Pet Shop Boys.
Come nella canzone “Go West” i personaggi cercano una nuova frontiera e di questa ricerca il regista fa un gioco plastico e narrativo, che produce uno smarrimento emozionale attraverso uno sguardo critico. Come in Still Life osserviamo volti rivelati in piani densi e corpi in bilico sul vuoto. Se ieri era un vuoto reale provocato da una diga, oggi è quello ideale prodotto dall’esodo. Come il fiume Yangtze la Tradizione è interrotta e la geografia (umana) alterata. I tempi cambiano, gli uomini passano ma resta il cinema a mostrarceli.


Agnus Dei

In programmazione: 09/03/2017

Descrizione

Polonia, anno 1945. Mathilde Beaulieu è una giovane dottoressa francese della Croce Rossa. Quando una suora polacca, cerca il suo aiuto, Mathilde la segue nel convento di benedettine, dove scopre che molte di loro, violentate dai soldati russi nel corso di una violenta irruzione, sono rimaste incinte e sono sul punto di partorire. Tenuta al segreto professionale, cui si aggiunge quello imposto dalla madre superiora e dalla situazione, Mathilde fa visita al convento di notte, esponendosi a non pochi rischi, e supera gradualmente la paura e la diffidenza delle monache, arrivando a stabilire con una di loro, Suor Maria, uno scambio profondo.
Anne Fontaine, che da sempre racconta storie di donne, supera questa volta la dimensione individuale per approcciare quella collettiva, non solo perché s’immerge nella vita di comunità del monastero, con la sua drammaturgia di caratteri differenti, differenti motivazioni, paure e gerarchie, ma perché, sollevando il velo su una prassi di guerra tanto atroce quanto purtroppo comune, parla di ciò che non può essere ignorato da nessuno, nemmeno nel nome del pudore o della presunta protezione (ed è questo concetto ad essere tradotto, nel film, nella vicenda tragica della madre superiora).
Lo stile di regia sembra tener presente un’ampia destinazione del messaggio: la storia forte non si traduce mai in immagini forti, la vita della protagonista fuori dalle mura del convento è romanzata a fini narrativi (con qualche forzatura, va detto) e il film si chiude su una nota forse eccessivamente ottimista. Ma è una scelta di tono dalle motivazioni autoedividenti, e forse l’unica possibile per un film di questo tipo, che è anche e soprattutto un racconto di resistenza e di superamento (o elaborazione) del male.
Fontaine impiega nel migliore dei modi gli strumenti a disposizione, a partire dalle interpreti – Lou de Laage, ma soprattutto Agata Buzek (Maria) e Agata Kulesza (la madre superiora) -, e poi la luce, e il dialogo: tutto è mantenuto con saldezza entro limiti ben posizionati ed efficaci, sebbene più dal punto di vista narrativo che da quello prettamente filmico.
Ispirato al diario del medico francese di stanza in Polonia Madeleine Pauliac, Agnus Dei (titolo italiano che riprende nel significato l’originale Les Innocentes) trasforma la scrittura scarna e cronachistica degli appunti privati in un racconto vivo e pulsante, che trae una sorta di universalità e anche di contemporaneità dal fatto di essere ambientato in un mondo, quello del convento, dove il tempo ha un altro passo, più lento, quasi immobile. È dunque la Polonia del 1945, ma potrebbe essere la Bosnia del 1993 o l’Africa di oggi. Divise tra l’essere donne per natura e spose di Cristo per scelta, grazie alla mediazione della discreta Mathilde, le suore del convento trovano, col tempo, nella maternità, un’identità e una vocazione che può placare il dissidio. Parallelamente, nella collaborazione tra la religiosa Maria e l’atea Mathilde che porta alla soluzione finale, si compie una delle linee più riuscite del film, quella che va oltre lo scandalo e la denuncia e parla il linguaggio della relazione.


The lesson – Scuola di vita

In programmazione: 02/03/2017

Descrizione

Nadyezdhna insegna inglese in una scuola della provincia bulgara, ma più delle regole grammaticali le preme insegnare quelle della convivenza onesta e non lasciare impunito il caso di un furtarello avvenuto tra i banchi della sua classe. Mentre s’ingegna per offrire più di una chance al colpevole di redimersi, scopre che il marito non ha pagato il debito contratto con la banca e che le rimangono soltanto tre giorni di tempo per evitare che la casa, dove vive con l’uomo e con la figlia, finisca all’asta. Inizia per Nade una via crucis in cui i problemi si sommano agli abusi di potere, alla sfortuna e alle scelte sbagliate, in un crescendo che non pare avere fine.
Ed è proprio questa lezione, che la protagonista vorrebbe dare al piccolo ladro e che il destino recapita invece a lei stessa, nel più beffardo e inevitabile dei modi, che copre il tempo del film e tiene in sospeso fino a pochi minuti dal termine, in attesa della glossa morale che dovrebbe mettere fine alla parabola di Nade, riattribuire magicamente il giusto ai giusti e la pena ai disonesti, ma così non è, perché la vita è più ironica e complessa di una storiella morale e il cinema, questo in special modo, assomiglia più che mai alla vita vera.
Esordio di Kristina Grozeva e Petar Valchanov, The Lesson trova ispirazione in un fatto di cronaca, e racconta, con la logica del pedinamento, la trasformazione di una donna. L’esito sa di grande sconfitta così come di piccola rivoluzione, ma è evidente che agli autori non interessa dare un giudizio di merito, quanto piuttosto segnalare le trappole istituzionali e le angherie umane di cui è disseminato il percorso, e la loro migliore qualità sta indubbiamente nella scrittura: nella capacità di sistemare i sassolini narrativi nei punti giusti, con implacabile continuità, e nella sintesi con cui chiudono in un’immagine, anziché affidarsi al dialogo, la condizione di prigionia e al tempo stesso di estrema determinazione della protagonista (che sia l’immagine, più banale, dell’insetto incastrato tra la finestra e la tenda, o quella più eloquente della valutazione dei compiti).
L’interpretazione di Margita Gosheva, che lascia trasudare appena la violenza della disperazione, restando invece aggrappata con le unghie alla rigidità esteriore del suo personaggio, così come la scelta di regia di inquadrarla spesso a confronto con il ritratto della madre e di un passato idealizzato, chiudono il cerchio, contribuendo ad arricchire di colori un film essenziale, amaramente impietoso, mai superficiale.


Lo and Behold – Internet: il futuro è oggi

In programmazione: 23/02/2017

Descrizione

Qual è il futuro della rete? Si può ancora immaginare un mondo senza connessione Internet? Quali sono i limiti dell’essere costantemente connessi? Siamo in grado di difenderci dalle minacce che si nascondono dietro all’utilizzo di questo mezzo così potente? Con lo sguardo disincantato, l’acume e l’ironia a cui questo straordinario cineasta ci ha abituato nel corso della sua lunga produzione di documentari, Lo and Behold(espressione che si potrebbe tradurre con “ammira!”) tenta di riflettere su questi temi, esplorando anche le zone marginali, più controverse, che ne mettono in luce le contraddizioni. L’intento non è tanto quello dell’esaustività, quanto gettare delle basi per una riflessione più ampia sul mondo connesso in rete. Il regista lo fa suddividendo il documentario in 10 capitoli che si muovono tra la fascinazione, lo scetticismo e l’inquietudine derivante dall’utilizzo di questo mezzo che di fatto, come viene detto più volte nel film, è “fuori controllo”.
Il documentario si apre con Leonard Kleinrock, professore di informatica all’UCLA di Los Angeles che ci guida alla scoperta della stanza 3420, il luogo a cui si fa risalire la nascita della rete. Tra le altre figure che incontriamo vi sono Kevin Mitnick, fra i più abili hacker al mondo; Elon Musk, cofondatore di PayPal, amministratore delegato di Tesla Motors, ma soprattutto conosciuto per la compagnia SpaceX, azienda che si occupa di rendere più accessibili i viaggi spaziali per l’essere umano e che lavora per il futuro approdo dell’uomo su Marte. Illuminante la sezione dedicata a Ted Nelson, colui che ha coniato il termine “ipertesto”, che ci racconta come il linguaggio HTML abbia in realtà tradito la concezione originaria di ipertesto in rete, non sfruttandone appieno le potenzialità.
Chi conosce il regista tedesco sa che egli concepisce il fantascientifico in senso Carpenteriano, ovvero lo scenario post-apocalittico per cui la tecnologia regredisce e l’umanità ritorna a doversi confrontare con la tecnica, con la conoscenza pratica delle cose, per poter sopravvivere. Lo and Behold sembra a tratti muovere i passi proprio da queste premesse: cosa succederebbe se Internet smettesse di funzionare all’improvviso? l’essere umano sarà in grado di cavarsela quando Internet finirà?
Fra le trame intessute dal documentario si insinua l’idea che Internet sia diventato talmente pervasivo nelle relazioni umane da diventare indispensabile alla vita sulla Terra, tanto che c’è anche chi vede nella fine della rete il tramonto della civiltà. Interessantissima la questione riguardante le persone affette da sensibilità alle radiazioni elettromagnetiche causate dalle frequenze emesse, oltre che dalla radio e dagli smartphone, anche dalla rete e costrette all’isolamento. Anche quando tratta delle delicate questioni della dipendenza da videogiochi o della violenza che si espande online, Herzog riesce sempre a farlo senza moralismo, ma con umanità e interesse filantropico.
Il regista ci invita a osservare Internet alla distanza da cui lo guarderebbe uno scienziato, astraendolo, come un oggetto a sé stante, un organismo. Operazione non da poco, dal momento che ne siamo talmente immersi da darlo per scontato; un mondo in cui la rete è considerata il grado zero della socialità umana. La potenza visionaria dello sguardo del regista tedesco non ha limiti e si spinge oltre, fino al punto di chiedersi: Internet arriverà mai a pensare a se stesso?


Io, Daniel Blake

In programmazione: 16/02/2017

Descrizione

Newcastle, Daniel Blake è sulla soglia dei sessant’anni e, dopo aver lavorato per tutta la vita, ora per la prima volta ha bisogno, in seguito a un attacco cardiaco, dell’assistenza dello Stato. Infatti i medici che lo seguono certificano un deficit che gli impedisce di avere un’occupazione stabile. Fa quindi richiesta del riconoscimento dell’invalidità con il relativo sussidio ma questa viene respinta. Nel frattempo Daniel ha conosciuto una giovane donna, Daisy, madre di due figli che, senza lavoro, ha dovuto accettare l’offerta di un piccolo appartamento dovendo però lasciare Londra e trovandosi così in un ambiente e una città sconosciuti. Tra i due scatta una reciproca solidarietà che deve però fare i conti con delle scelte politiche che di sociale non hanno nulla.
È bello ogni tanto verificare che i registi si contraddicono. Era accaduto qualche anno fa con Ermanno Olmi che, presentando Centochiodi, aveva dichiarato che non avrebbe girato più film di finzione. Fortunatamente per noi ne ha già realizzati altri due. Lo stesso succede ora per Ken Loach che sembrava, a sua volta, rivolto al documentario e invece ci regala un film di quelli che solo lui può offrirci. Carico cioè di uno sguardo profondamente umano e al contempo con le caratteristiche del grido che invita a ribellarsi a quello che sembra uno status quo inscalfibile. Per farlo è ritornato, insieme al fido Paul Laverty, per documentarsi, nella sua città natale, Nuneaton, in cui partecipa all’attività di sostegno di chi si trova in difficoltà.
Già dal titolo ritorna alla necessità inderogabile di non cancellare la forza dell’identità individuale di coloro che stanno tornando ad assumere le caratteristiche di classe sociale dei diseredati come nell’800 dickensiano. I nomi di persona hanno segnato alcuni dei suoi film più importanti (La canzone di Carla, My Name is Joe, Il mio amico Eric e il precedente Jimmy’s Hall). Perché è la dignità della persona quella che si vuole annullare grazie a un sistema in cui dominano i ‘tagli’ alla spesa sociale e dove gli stessi funzionari che debbono applicarli si rendono conto della crudeltà (è questo il termine giusto) delle regole che debbono applicare.
Daniel e Daisy conoscono il senso della solidarietà e non intendono farlo dissolvere per colpa di chi ne ha volutamente smarrito qualsiasi traccia. La scena più intimamente toccante, in un film che provoca commozione senza però utilizzare alcun artificio, si svolge non a caso in un Banco alimentare. Si tratta di quelle realtà che un tempo si sarebbero definite caritatevoli e che oggi prendono il posto che dovrebbe spettare a uno Stato degno di questo nome, con tutta la precarietà che deriva dal volontariato. Non è necessario andare a Newcastle essendo sufficiente passare nelle prime ore del giorno dinanzi ai punti di distribuzione di associazione anche laiche come, ad esempio, Pane Quotidiano a Milano per vedere lunghe file di persone che attendono di poter ricevere la razione alimentare. Il numero di coloro che non sono extracomunitari aumenta ogni giorno. Allora in questo mondo libero Ken Loach continua a proporci le esistenze di persone qualunque con la forza di chi non descrive ma partecipa attivamente al dolore di chi subisce una delle umiliazioni più profonde (la perdita o l’impossibilità del lavoro). Daniel, Daisy e i suoi due figli si aggiungono alla galleria di persone di cui Loach ci ha mostrato una tranche de vie con la forza e la sensibilità di chi non ha alcuna intenzione di arrendersi alla logica del liberismo selvaggio.


Lo Stato contro Fritz Bauer

In programmazione: 09/02/2017

Descrizione

Germania 1957. Il procuratore generale Fritz Bauer scopre che Adolf Eichmann, un ex tenente colonnello delle SS che si è reso responsabile della deportazione di massa degli ebrei, si nasconde a Buenos Aires. Bauer, ebreo, sin dal suo ritorno dall’esilio in Danimarca sta cercando di portare in tribunale gli autori dei crimini di guerra perpetrati durante il Terzo Reich. Un’impresa che si sta rivelando impossibile di fronte a uno Stato che è fermamente determinato a censurare il suo terribile passato. Diffidando del sistema giudiziario tedesco, Bauer contatta il Mossad, il servizio segreto israeliano, commettendo così il reato di alto tradimento.
Non fatevi ingannare dal luogo di nascita di Lars Kraume (Chieti). Il regista è cresciuto a Francoforte sul Meno e appartiene a quella generazione di quarantenni tedeschi che non intende mettere in archivio il passato per quanto ciò possa risultare scomodo. Perché in questa occasione non siamo posti di fronte tanto all’efferatezza dello sterminio quanto piuttosto al desiderio di dimenticare il più in fretta possibile quanto accaduto. A dodici anni dalla fine del conflitto la Germania sta risorgendo anche sul piano economico e volgere lo sguardo all’indietro non è gradito alle autorità che sono disposte anche a far sì che uno dei più gelidi organizzatori dell’Olocausto resti in libertà.
Chi ha visto The Eichmann Show, che ricostruisce le fasi delle riprese del primo processo a un criminale nazista visto in tutto il mondo, sa quanto il tenente colonnello delle SS non abbia mai mostrato il benché minimo cedimento emotivo. Bauer invece vuole che si ceda alla ragion di Stato e decide di correre più di un rischio. Anche perché è un omosessuale dichiarato e sa bene che questo (in quegli anni) peserà sulla bilancia dei giudizi e degli insulti che gli giungeranno da parte di chi è interessato a far sì che la sua inchiesta si areni.
Burghart Klaussner presta a Bauer non solo un’aderenza fisica quasi gemellare ma soprattutto la pervicace ostinazione di un uomo che non persegue la vendetta ma che non può e non vuole arrendersi dinanzi a ‘principi superiori’ che di superiore non hanno nulla. Giungendo fino all’estremo per cui, chiedendo aiuto ai servizi segreti israeliani per la cattura (il processo si tenne a Gerusalemme) incorre così nel reato di alto tradimento entrando nel campo dell’assurdo giuridico: chi fa catturare un criminale che aveva lucidamente programmato i viaggi della morte verso i campi è considerato un ‘traditore’ perché, dinanzi alla renitenza delle proprie autorità si è rivolto a quelle di un altro Paese.


Sole Alto

In programmazione: 02/02/2017

Descrizione

1991. Jelena e Ivan si amano stanno per lasciare i paesi in cui vivono per trasferirsi a Zagabria. Ma lei è serba e lui croato e i primi segnali dell’esplodere dell’odio etnico non aiutano questo loro progetto. 2001. Dopo il conflitto la giovane serba NataÅ¡a torna con la madre nella casa in cui avevano vissuto e in cui la guerra ha lasciato profonde ferite che segnano anche gli animi. Ante, croato, accetta di lavorare nell’edificio per riattarlo ma la ragazza non sopporta la sua presenza. 2011. Luka, croato, torna al paese in occasione di una festa dopo una lunga assenza. Va a trovare i genitori che non vede da tempo ma, soprattutto, decide di recarsi a casa di Marija, serba con la quale ha avuto molto di più di una relazione.
Sembra appartenere ad un lontano passato il conflitto che ha insanguinato i Balcani tanto che le generazioni più giovani spesso ne sanno poco se non addirittura nulla. È a loro in particolare che si rivolge Dalibor Matanic con questo film che si inscrive, senza ombra di dubbio, nel ristretto gruppo di opere che hanno saputo cogliere nel profondo lo specifico del conflitto che tra il 1991 e il 1995 insanguinò in maniera orribile l’ex Jugoslavia ma anche, e questo è il suo straordinario pregio, le dinamiche che sono proprie di ogni guerra civile. Lo fa attraverso tre storie in cui il rapporto amoroso diviene cartina al tornasole per evidenziare la sofferenza ma anche la possibilità di una speranza che tragga origine dall’accettazione dell’altro visto come persona e non come appartenente a questa o quella etnia o a questo o quello schieramento politico.
Si potrebbe lecitamente pensare ad un archetipo narrativo classico, a un Romeo e Giulietta rivisitati nella contemporaneità ma non è così. Perche Matanic ha conosciuto sulla sua pelle la realtà che porta sullo schermo ed era pienamente consapevole del fatto che, nei Balcani, il film avrebbe potuto avere un’accoglienza contrastata perché i lutti non sono stati dimenticati e non tutte le ferite si sono rimarginate. Ma proprio perché questo film guarda oltre ha il coraggio di ricordarci, in un periodo in cui l’intolleranza sembra tornare a dominare le dinamiche mondiali, che si può guardare alla realtà in modo diverso. Lo fa con una scelta anche cinematograficamente non facile. Perché sceglie gli stessi due straordinari giovani interpreti per tutte e tre le storie costringendo lo spettatore a pensarli come diversi (con un diverso passato, con differenti modi di guardare al presente e al futuro in periodi cronologicamente ben distinti). Al contempo però ci chiede anche di pensarli ‘uguali’, uguali a milioni di ragazzi e ragazze che vivono o hanno vissuto in situazioni di conflitto in cui chi preferisce odiare pensa di semplificare la vita appiccicando ad ognuno un etichetta che lo renda immediatamente riconoscibile come amico o nemico e su questa base (e solo su questa) decidere se eliminarlo o affiancarglisi.
Matanic non ci propone un embrassons nous retorico o quantomeno utopico. Conosce il prezzo che tutti debbono pagare prima, durante e dopo un conflitto ma pensa anche che sia possibile andare oltre pur non dimenticando il passato. Per fare questo è necessario che la luce sia allo zenit, che il sole sia alto, nonostante tutte le nubi che lo possono nascondere alla vista della società e dei singoli.


Tom à la ferme

In programmazione: 26/01/2017

Descrizione

Tom ha amato Guillaume di un amore grande che adesso vorrebbe condividere con i suoi cari. Lasciata Montréal alla volta della campagna canadese, Tom raggiunge la fattoria della famiglia di Guillaume per partecipare l’indomani al suo funerale. Molto presto si rende conto che Agathe, madre di Guillaume, ignora l’omosessualità del figlio. Informato dei fatti è invece Francis, fratello maggiore e omofobico del defunto, che costringe Tom a mentire sulla sua natura e sulla natura della sua relazione con Guillaume. Imprevedibile e violento, Francis esercita su Tom sgomento e attrazione. Indeciso se andare o restare, Tom chiede aiuto a Sara, una collega spacciata per la fidanzata di Guillaume.
I film di Xavier Dolan, enfant prodige del cinema canadese, hanno la bellezza estenuata della bocca dopo un bacio, di un rossetto sbavato oltre la linea di contorno, che dice così bene della crudeltà dell’amore, della vita e della difficoltà di viverla. Al suo quarto lungometraggio, Xavier Dolan è già fenomeno da seguire. Provocatorio e tagliente, come le foglie di mais d’estate che ‘spezzano’ i polsi di Tom in fuga da Francis, Dolan realizza un dramma esistenziale che deraglia nello psychological thriller, contempla elementi horror ed è a suo modo un mélo patologico, la drammatizzazione di una patologia (l’omofobia) che prende la forma filmica del melodramma.
Privo degli eccessi barocchi, del gusto kitsch e dello sfarfallio dell’estetica queer di Laurence Anyways, Tom à la ferme denuncia con forza narrativa e scarti sonori la rimozione in nome della pacificazione. L’idea di pacificazione, sostenuta da Francis per proteggere il genitore dalla verità circa l’omosessualità del figlio perduto, sostituisce la testimonianza con la negazione delirante della realtà, che rischia di inghiottire il protagonista. Portatore di una natura (in)quieta e di tracce femminili sull’asprezza maschile, il Tom del titolo è apertura erotica all’altro e di conseguenza minaccia, sfida e provocazione per Francis, che incarna l’ostinazione ottusa della massa e di una mentalità che nella pulsione gregaria cerca riparo dalla solitudine della libertà e della responsabilità individuale. In balia di una precarietà economica, sociale ed esistenziale, Francis sprofonda in un’angoscia insopportabile che sfoga sul corpo di Tom, a cui guarda con sospetto risentito e desiderio malcelato.
Tom à la ferme diventa a poco a poco, e in un modo perturbante, la perlustrazione di un microcosmo della provincia, che rivela un malessere latente e una profonda crisi di ruoli, rapporti e relazioni. In assenza di figure paterne poi il male circola in maniera strisciante, impalpabile, quasi metafisica. Tom, interpretato da Xavier Dolan, è il principio di realtà che Francis, impegnato a negarsi, combatte. Tom è un rimosso che vorrebbe cancellare e che invece ritorna nella forma dell’incubo, spaventandolo a morte, irritandolo a morte. Ma come sa bene Tom, per generare un autentico cambiamento è necessaria la memoria della nostra provenienza. Da qui il viaggio in direzione di una regione rurale (e simbolica), dentro i segreti della provincia, gli orrori della porta accanto, la solitudine dolente dei personaggi che hanno cancellato la relazione con quella memoria, l’hanno falsificata rigettando qualsiasi obiezione.
Con distanza ironica e stile appariscente anche quando indossa ‘abiti’ dimessi, Tom à la ferme esclude il sacrificio fanatico del suo protagonista, ritrovando la strada per la ‘civiltà’ e il colore giusto per avanzare. Nonostante lo strappo mai ricucito e rimasto lì, aperto e slabbrato, come una piccola finestra sul male che ancora insidia Tom.


Il clan

In programmazione: 19/01/2017

Descrizione

Quanto potrà mai durare la democrazia in questo paese?” Al massimo un paio d’anni e si torna indietro. È questo quello che pensano ancora le alte sfere all’indomani della fine di una delle più terribili dittature del dopoguerra, quella argentina. Ne è certo anche Arquimedes Puccio, tranquillo e abitudinario padre di famiglia, che riesuma senza scrupoli l’agghiacciante pratica del sequestro per applicarla ai giovani ricchi del suo vicinato, per conto terzi e per guadagno personale.
Trent’anni dopo il clamoroso arresto del clan Puccio, Trapero racconta questa storia stringendo l’obiettivo su Alejandro, il figlio rugbista di Arquimedes, diviso tra l’obbedienza cieca al patriarca e il dissonante rumore di fondo della coscienza e di un’età naturalmente rivolta al futuro. E chi meglio di Pablo Trapero, verrebbe da pensare, dopo che il regista ha raccontato i peggiori abissi del suo paese riuscendo nell’arte acrobatica di affondare nel dramma senza mai impastarlo di retorica. Tutta via questo è un altro film. Non solo non c’è il Trapero più intenso, ma nemmeno il maestro del montaggio, qui gestito in pieno stile hollywoodiano, alla maniera di un “Blow” e affini. Non fosse per la crudeltà dei fatti narrati, e tirando l’affermazione con l’elastico, si potrebbe quasi parlare di commedia per Il Clan, relativamente al trascorso stilistico del regista, sia chiaro. Dall’uso scanzonato della musica (“Just a Gigolo – I ain’t got nobody” sottolinea il bisogno di Puccio di avere i figli dalla sua parte, non potendo fidarsi di nessun altro allo stesso modo) al gusto dell’ingenuità nel racconto della scalata sportiva di Alex, del romance con Monica (Stefania Koessl) e del loro sogno svedese, ci sono tutte la caratteristiche di un film di sicuro appeal, ma decisamente più allineato col gusto medio di questo genere di biopic, persino televisivo, che sulla personalità autoriale che il regista ha mostrato fino ad ora.
Guillermo Francella, che non a caso è un volto notissimo della televisione argentina con un curriculum principalmente leggero, quando non di comico puro, qui subisce un’ulteriore trasformazione dopo l’uso che di lui ha fatto Campanella (Il segreto dei suoi occhi) e passa radicalmente di là dalla barricata, da vittima a carnefice, conservando però quell’aria da amico della porta accanto e quell’affettuosa empatia che qui servono il gioco.
L’immediatezza magistrale della regia di Trapero e l’amara ironia che attraversano il film senza interruzioni, garantiscono un risultato comunque impeccabile, specie perché il ritratto che viene fatto di padre e figlio non sfocia mai nella fascinazione per il male. Il successo di pubblico in Argentina, dove il caso ebbe un fortissimo impatto sull’opinione pubblica, è stato, come prevedibile, immediatamente molto grande.


Land of Mine – Sotto la sabbia

In programmazione: 12/01/2017

Descrizione

Danimarca, 1945. La lotta per la sopravvivenza sembra ormai non conoscere limiti all’indicibile, consumandosi lenta ed inesorabile. L’incubo della guerra ancora vivo negli occhi dei sopravvissuti, giustifica una distorsione del concetto di giustizia nelle vittime del Nazismo. Sono questi gli ingredienti della tragedia che ha risucchiato la Danimarca – e il mondo – nel vortice nero della seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze. Una parabola umana in cui vittime e carnefici si fondono, perdendo la connotazione di topos letterario per varcare quel confine entro cui la disperazione genera uomini bestiali.
Nei giorni che seguirono la resa della Germania alla fine della seconda guerra mondiale, gli alleati deportarono migliaia di soldati tedeschi con l’onere di sacrificarsi per riparare al danno inferto al mondo dal regime nazista. Molti di quei soldati non erano addestrati, ragazzi costretti a percorrere in lungo e in largo le coste occidentali danesi per disinnescare più di due milioni di mine; quelle che l’esercito di Hitler aveva posizionato in previsione di un ipotetico sbarco degli alleati. Una storia poco conosciuta, che Martin Zandvliet sceglie di raccontare con la voce di quattordici giovani costretti a muoversi carponi su spiagge assolate, affidando la vita alla capacità di un bastoncino di scendere quanto più possibile nelle profondità della sabbia umida, col sangue freddo di esperti artificieri.
Disposti a sacrificarsi l’uno per l’altro, ma anche spaventati e pronti a scappare quando il primo compagno resta mutilato da una deflagrazione, i ragazzi appaiono in tutta la loro fragilità di fronte alla disumanità della guerra. Come disumano è il freddo comportamento con cui il sergente danese Rasmussen fa marciare la sua squadra sulle dune ogni giorno. La tirannia, universale per definizione, ha le stesse regole ovunque: manca di morale ed evita la riflessione sul peccato, trovando, a seconda dei casi e degli individui, una sua propria (e sempre differente) legittimazione. Così uomini in divisa costringono altri uomini in divisa alla paura, al terrore e alla negazione di se stessi, stando ben attenti ad evitare il confronto, con l’unico contatto degli occhi negli occhi per sottolineare la sudditanza del prigioniero.
Il film percorre le tappe di una storia carica di tensione emotiva, che costringe lo spettatore all’apnea dei primissimi piani di fronte al cuore di un esercito di bombe pronte ad esplodere. I volti puliti dei giovani prigionieri sono i caratteri di un intero popolo che, dopo aver messo l’Europa a ferro e fuoco, è stato costretto a richiamare alla leva ragazzini di tredici anni. Vediamo quindi il leader naturale Sebastian, il cinico insofferente Helmut o i dolcissimi gemelli Ernst e Werner strappati ai sogni infantili per riscoprirsi affamati e impauriti in un tratto di mondo che desidera solo vederli morire.
La fotografia fredda di un’ambientazione incantevole stride con i caratteri infernali di cui è imperniata la vicenda, in cui l’aridità degli animi si contrappone ai panorami mozzafiato di un deserto in riva al mare. Lo spettatore è in balìa di una narrazione ben costruita che genera una tensione costante, con una regia che predilige il più delle volte l’omissione alle immagini esplicite. La scelta di silenzi carichi d’intensità, rafforza l’efficacia delle lunghe sequenze del film, con le musiche a fare da contrappunto con brevi sonorità, subito interrotte da una rinnovata quiete apparente – e devastante.
Ne esce un’immagine di desolazione e impotenza, addolcita solo dal sergente Rasmussen che riporta tutto ad un senso di rettitudine ammirevole grazie a una rinnovata empatia con i ragazzi. Il bagliore alla fine del tunnel, il confine con la Germania a poche centinaia di metri, risulterà però pretenzioso e un po’ poco credibile laddove il cambio di tendenza sentimentale del capitano per i suoi prigionieri è un pretesto debole per il disgelo totale delle relazioni che conducono alla liberazione. Per un film che è riuscito a mantenere una linea lucida e realistica, il rischio era quello di scadere nella retorica, ma Zandvliet riesce a sublimare l’importanza degli sguardi dei ragazzi scomparsi a scapito delle parole dei superstiti, relegando la salvezza solo a un’anomalia.


I miei giorni più belli

In programmazione: 15/12/2016

Descrizione

Dopo un soggiorno in Tagikistan, Paul Dédalus, antropologo francese, rientra a Parigi. Fermato dalla polizia di frontiera, viene interrogato da un funzionario della DGSE (i servizi segreti esteri francesi). Paul Dédalus deve spiegare l’esistenza di un suo perfetto omonimo, un ebreo russo nato il suo stesso giorno, rifugiato in Israele e morto da qualche anno e da qualche parte in Australia. Paul cerca nei ricordi e risale il tempo, indietro fino all’infanzia, alla morte per suicidio della madre, alla sua giovinezza coi fratelli e il padre vedovo inconsolabile, il suo incontro con la dottoressa Behanzin, all’origine della sua vocazione per l’antropologia, e quello con Esther, il suo primo e struggente amore.
È un nome che dona al film di Arnaud Desplechin il suo primo respiro. Chi è Paul Dédalus? Chi è quest’uomo che confrontato con un’identità parallela si mette a sondare la sua? E cosa definisce un uomo? Il nome, la data e il luogo di nascita scritti sul passaporto? Oppure i ricordi incalzanti che si contendono lo spazio nella sua memoria, scrivendo giorno dopo giorno i capitoli di un romanzo intimo? Facciamo un passo indietro. Paul Dédalus è l’eroe de I miei giorni più belli ma il suo nome viene da lontano. Alter ego di James Joyce venuto al mondo con “Ritratto dell’artista da giovane” e poi ‘cresciuto’ nel suo “Ulisse”, Dédalus è il doppio finzionale di Desplechin concepito nel 1996 (Comment je me suis disputé…ma vie sexuelle) e incarnato da Mathieu Amalric. Dodici anni dopo riemerge bambino in Racconto di Natale e sotto il tetto della grande casa roubaisienne della matriarca Junon/Deneuve, diciannove anni dopo ritorna in un film-fiume declinato in tre capitoli che gradualmente crescono in ampiezza e durata, accompagnando il protagonista dall’infanzia all’età adulta.
Seguendo il modello stabilito da François Truffaut, Desplechin riprende il personaggio di uno dei suoi primi film per fargli vivere delle nuove avventure, passate e presenti. (Es)tratto da Comment je me suis disputé…(ma vie sexuelle), Paul Dédalus non è più lo stesso ma non è nemmeno un altro (ieri filosofo, oggi antropologo). Scarti e incoerenze (intenzionali) tra i due Dédalus rendono (im)possibile il proseguimento di un film nell’altro, cortocircuitando e riorganizzando tutto in un egopic che afferma il primato della soggettività e dell’introspezione.
Tuffato nella sua memoria, Paul Dédalus pesca tre ricordi, quelli del titolo francese (Trois souvenirs de ma jeunesse): il primo, breve e violento, fa eco alle opere passate del regista e ad altri grandi momenti del cinema sull’infanzia (Truffaut e Pialat, Rossellini e Buñuel); il secondo rimanda a un altro mito fondatore del cinema di Desplechin, quello dello spionaggio (La Sentinelle), la belle aventure (la gita scolastica in URSS) serve all’autore per concepire un altro Paul Dédalus, il giovane ebreo a cui il nostro, personaggio eroico bigger than life, dona il suo passaporto per raggiungere Israele; il terzo, cuore battente del film, è consacrato al soggetto amato, Esther, adolescente dall’allure fatale che lo fa capitolare per sempre. Il souvenir conclusivo e più lungo è in sostanza un teen-movie, un film ‘per corrispondenza’ (tra Roubaix e Parigi), una storia d’amore ordinaria e magnifica e magnifica perché ordinaria. Un sentimento che non ha niente di eccezionale se non di essere stato vissuto e mai dimenticato.
Scandito dai turbamenti e dagli eccessi della passione, dalle lettere che gli amanti si scrivono e leggono guardando in ‘camera’, il terzo episodio si svolge sullo sfondo della caduta del Muro di Berlino che segna la fine dell’adolescenza e trasloca Paul a Parigi. E a Parigi il protagonista, che prende a pugni la vita e si lascia pestare dalla vita, avvia i suoi studi di antropologia ed elegge, dopo la zia, una nuova madre adottiva, la professoressa Behanzin che ha il nome di un re africano senza regno, eroe mitico della resistenza alla Francia coloniale. Egoista e passionale, Esther è la magnifica ossessione di Paul che apprende la vita, cresce, invecchia e si scopre ancora pieno di un “furore intatto” davanti al suo rivale, l’amico canaglia che lo derubò del suo ‘bene’, e al sentimento irriducibile per Esther, che ha amato, tradito, lasciato, ripreso, ripensato, rivissuto. Desplechin filma il loro desiderio adolescente in quello che ha di più grande e tragico: una libertà che aiuta a determinarsi e a diventare soggetto quando sei giovane, un ‘peso’ di cui non sai più che fare quando sei diventato grande. Creatura e creatore, Paul Dédalus è condiviso da Antoine Bui, Quentin Dolmaire e Mathieu Amalric.
Dei tre corpi-memoria (infanzia, giovinezza, maturità), l’ultimo pronuncia “je me souviens”, risorgendo gli altri in un tourbillon romanzesco, una riconfigurazione ininterrotta che prosegue oggi con un vero-falso prequel, che non si impone subito con evidenza ma trova progressivamente il suo battito. Un movimento retrospettivo che assume la forma del ricordo e un movimento di rilancio che lo rimette in circolo, incarnato in volti sconosciuti (Antoine Bui, Quentin Dolmaire) e splendidamente lontani dal loro doppio più àgé (Mathieu Amalric). Fantasma di carne e sangue con cui s’intendono senza vacillare nello spettatore il credito di un personaggio che non smette di sbocciare.


Un padre una figlia

In programmazione: 02/12/2016

Descrizione

Romeo Aldea è medico d’ospedale una cittadina della Romania. Per sua figlia Eliza, che adora, farebbe qualsiasi cosa. Per lei, per non ferirla, lui e la moglie sono rimasti insieme per anni, senza quasi parlarsi. Ora Eliza è a un passo dal diploma e dallo spiccare il volo verso un’università inglese. È un’alunna modello, dovrebbe passare gli esami senza problemi e ottenere la media che le serve, ma, la mattina prima degli scritti, viene aggredita brutalmente nei pressi della scuola e rimane profondamente scossa. Perché non perda l’opportunità della vita, Romeo rimette in discussione i suoi principi e tutto quello che ha insegnato alla figlia, e domanda una raccomandazione, offrendo a sua volta un favore professionale.
Il protagonista di Bacalaureat ha provato, a suo tempo, a cambiare le cose, tornando nel proprio paese per darsi e dargli una prospettiva di rinnovamento, anzitutto morale. Non ha funzionato. Tutto quello che ha potuto fare è restare onesto nel suo piccolo, mentre attorno a lui la norma era un’altra. Trasparente nel mestiere, meno nella vita sentimentale, perché la vita prende le sue strade, e non tutto si può controllare. Ora però non si tratta più di lui: le biglie dei suoi giorni trascorsi sono più numerose delle biglie nella boccia dei giorni che gli rimangono. Ora si tratta di sua figlia, di impedire che debba sottostare allo stesso compromesso, ovvero restare in un luogo in cui le relazioni tra le persone sono ancora spesso fatte di reciproci segreti, di silenzi da far crescere e redistribuire: una rete che imprigiona e “compromette” la vera vita. Ma fino a che punto si ha diritto di scegliere per i propri figli? Una rottura del proprio codice morale, per quanto occasionale e dimenticabile come una pietra che arriva improvvisa e rompe il vetro della finestra di casa, basta a mettere in discussione l’intera costruzione?
Come in Oltre le colline Mungiu s’interroga sulle conseguenza di una scelta, in un film però molto diverso dal precedente, per certi versi più freddo ma anche più morbido, in cui l’errore non è più lontano dalla presa in carico delle conseguenze e delle responsabilità che ne derivano e dove la lezione passa, aprendo forse davvero una seconda opportunità per il protagonista, proprio in quell’aspetto del suo essere che credeva di condurre al meglio: la paternità.
“Perché suoni sempre il clacson?” Domanda Eliza. “Per sicurezza.” “Sì, ma perché lo suoni anche quando non ci sono altre macchine?” L’ironia della sorte, che nel cinema rumeno degli ultimi anni non manca mai, e scorre tanto sotto le commedie grottesche che sotto i drammi più amari, fa sì che il dottor Aldea agisca quando non c’è bisogno di farlo, travolto dal terrore che il futuro di sua figlia possa andare improvvisamente in frantumi come il vetro, quando in realtà sono la sua età e la sua situazione che gli stanno domandando il conto.


Remember

In programmazione: 24/11/2016

Descrizione

Zev Guttman, ebreo affetto da demenza senile, è ricoverato in una clinica privata con Max, con cui ha condiviso un passato tragico e l’orrore di Auschwitz. Max, costretto sulla sedia a rotelle, chiede a Zev di vendicarli e di vendicare le rispettive famiglie cercando il loro aguzzino, arrivato settant’anni prima in America e riparato sotto falso nome. Confuso dalla senilità ma determinato dal dolore, Zev riemerge dallo smarrimento leggendo la lettera di Max, che pianifica il suo viaggio illustrandone i passaggi. Quattro le identità da verificare, uno il colpo in canna per chiudere una volta per tutte col passato. Tra America e Canada, Zev troverà il suo ‘nazista’ e con lui una sconvolgente epifania.
C’è stato un tempo (lontano) in cui il nome di Atom Egoyan risuonava come la promessa di un cinema ‘deragliante’. Un cinema di resistenza e devianza contro i dettami della società nord-americana e contro quelli dell’industria cinematografica hollywoodiana. Negli ultimi anni invece l’autore canadese, indeciso tra Hollywood e indipendenza, ha faticato a trovare il suo posto, a rintracciare il suo sguardo precursore e la cerebralità glaciale sotto cui coltivava l’emozione e faceva di quell’emozione un vero e proprio campo di tensione. Tuttavia Remember riemerge a sorpresa la sua identità canadese e le sue ambizioni artistiche, infilando, dopo quello di Felicia, un altro viaggio straordinario. Quello di un sopravvissuto alla Shoah che soffre di demenza senile, che vorrebbe vendicare il suo passato, che intraprende il viaggio e dimentica regolarmente perché lo ha intrapreso.
Remember ribadisce gli elementi tipici del cinema di Egoyan, a partire dalla sua attenzione per la struttura (a puzzle o a labirinto). Una struttura che produce un’abile premessa smentita poi dall’epilogo, lasciando lo spettatore solo col suo desiderio di coerenza. Perché una parola e un’immagine interrompono improvvisamente il processo di costruzione di senso, invalidando il lavoro compiuto e innescando un movimento di rivalutazione della vicenda che annuncia qualcosa fino a quel momento impensabile. Impossibile dire meglio e di più senza togliere allo spettatore il piacere frustrante (e frustrato) di una manifestazione inattesa.
Alla maniera di Black Comedy, dove un piano sequenza smascherava il mito di una famiglia perfetta, costringendo il protagonista e lo spettatore a riconsiderare le tracce del passato alla luce di quella rivelazione, Remember sconfessa la propria edificazione narrativa con un arresto secco, un passaggio di segno brutale che introduce un nuovo ordine e configura una nuova inquietante emergenza. La violenza dell’atto di ricomposizione ‘uccide’ il protagonista di Christopher Plummer e basisce lo spettatore empatico con la ricerca di vendetta. Un regolamento di conti con la Storia e con una storia di ‘privazione’, che il vapore della doccia, la sirena di una diga, il ringhio di un pastore tedesco, le grida rabbiose di un poliziotto ubriaco, ‘rigenerano’, giustificano e suggeriscono, perché in relazione di vicinanza con l’esperienza concentrazionaria.
L’indagine estenuante e l’impossibilità di Zev di concedere il proprio perdono al giovane SS, si rovescia di colpo e con un colpo di pistola in un movimento che colpisce duro personaggio e spettatore, precipitando il film in un territorio instabile su cui non è davvero più possibile ricostruire, neppure dolorosamente. In questo scarto ritroviamo la poetica di Egoyan, il suo cinema incentrato quasi sempre su una catastrofe assente, di cui ripercorriamo i brani e di cui conosciamo soltanto lo choc di ritorno. Il trauma su cui i suoi personaggi cercano di riprendere il controllo attraverso una ricerca improntata frequentemente sulle foto o sui video.
Remember, thriller senile sulla Memoria e sulla mostruosità banale del totalitarismo, che ha privato l’uomo della percezione di sé e di tutte le categorie intellettive soggettive, quelle che permettono di discernere e di scegliere con coscienza tra il bene e il male, ritrova l’autore e la strategia dello scarto del suo cinema, lo stravolgimento della percezione e il narcisismo con cui riconciliamo la frattura tra desiderio e identificazione.


La sposa bambina

In programmazione: 17/11/2016

Descrizione

Nojoom, che in yemenita significa “le stelle”, ha un destino segnato fin dalla nascita: suo padre infatti cambia il suo nome in Nojoud, ovvero “nascosta”, e pur amandola consegna sua figlia alle regole non scritte della convivenza nello Yemen, che comportano una totale sudditanza delle femmine rispetto ai maschi. Quando Njoud compie 10 anni il padre, in una negoziazione condotta solo fra uomini, la dà in sposa a un uomo che ha almeno trent’anni più di lei. Lo sposo promette al suocero di prendersi cura della bambina e di aspettarne la pubertà prima di consumare il matrimonio, ma appena sottratta alla casa del padre la violenta e la costringe a servire la suocera, picchiandola quando la bimba disobbedisce. Per fortuna Nojoom/Nojoud è uno spirito indomito e trova la via di fuga dal villaggio arcaico in cui l’ha segregata il marito per recarsi al tribunale di Sana’a, dove chiederà per sé il divorzio.
La sposa bambina è l’esordio al lungometraggio di finzione di Khadija Al Salami, regista e produttrice yemenita istruita in Francia e Stati Uniti, e si basa sul romanzo autobiografico di Nojoud Ali, scritto insieme alla giornalista Delphine Minoui. La storia che racconta è in qualche misura autobiografica anche per la regista, andata in sposa a 11 anni ad un uomo di oltre vent’anni più grande, dal quale Khadija ha trovato il coraggio di affrancarsi. La conoscenza profonda dei luoghi e della mentalità che Al Salami racconta rendono La sposa bambina un documento autentico nel rappresentare una pratica retrograda come il matrimonio infantile (oltre che combinato).
Ma la regista non commette l’errore di semplificare la storia, e rende giustizia sia alla complessità della società yemenita (la stessa che ha dato i natali all’attivista premio Nobel per la pace Tawakkol Karman) che alle oggettive difficoltà cui tentano di sopravvivere i suoi abitanti più poveri. A questo scopo Al Salami costruisce una sceneggiatura stratificata che inizia nel presente, ripercorre il passato e poi ci fa rivedere quello stesso passato dal punto di vista del padre, senza giustificarne le scelte ma contestualizzandone le motivazioni. Tutta la famiglia di Nojoom/Nojoud è vittima della miseria, dell’ignoranza e di imposizioni sociali che perpetuano nei più deboli e disinformati una situazione di iniquità. In quest’ottica anche il collaborazionismo femminile, che perpetua l’oppressione di madre in figlia, trova una sua cornice e una sua spiegazione.
Le figure maschili e femminili sono disegnate in maniera articolata e rappresentano livelli diversi di consapevolezza e di emancipazione. Al centro c’è Nojoom che, come Malala, fa la storia rifiutandosi di soccombere alle restrizioni che reprimono il suo genere e la sua giovane età. La conclusione è pesantemente didascalica, ma se anche solo uno spettatore o spettatrice appartenente a quel mondo avrà modo di ascoltarla troverà le armi concettuali e dialettiche per difendersi da chi ammanta di religiosità il proprio desiderio di supremazia e la propria brama di potere.


Suffragette

In programmazione: 10/11/2016

Descrizione

Londra 1912. Maud Watts è una giovane donna occupata nella lavanderia industriale di Mr. Taylor, un uomo senza scrupoli che abusa quotidianamente delle sue operaie. Alcune di loro combattono da anni a fianco di Emmeline Pankhurst, fondatrice carismatica e ricercata della Women’s Social and Political Union. Solidali e militanti, le suffragette combattono per i loro diritti e per il loro diritto al voto. Ignorate dai giornali, che temono gli strali della censura governativa, e dai politici, che le ritengono instabili e inette fuori dai confini concessi, decidono unite di passare alle maniere forti. Pietre contro le vetrine, boicottaggio delle linee telegrafiche, bombe in edifici rappresentativi (ma vuoti), scioperi della fame, tutto è lecito per avanzare la causa. Mite e appartata, Maud diventa presto una militante appassionata e decisa a vendicare le violenze in fabbrica e a riscattare una vita che la costringe alle dipendenze degli uomini. Arrestata più volte, perde il lavoro e viene ‘ripudiata’ dal marito che la caccia di casa e adotta a una famiglia borghese il loro bambino. Rimasta sola trova ragione e forza nella lotta politica, attirando con le sue sorelle l’attenzione del mondo che adesso dovrà starle a sentire.
A lungo e ingenuamente le abbiamo immaginate come nel film Mary Poppins, un pugno di borghesi gentili che bevono tè e sfilano gioiose dentro le loro camicette bianche impreziosite con fiori freschi e fasce di seta sul petto. Sarah Gavron le rivela invece per quello che le suffragette furono davvero, un piccolo esercito armato di operaie pronte a sabotare le loro città, a infrangere vetrine a colpi di pietra e a collocare bombe. Questa secondo la regista inglese è la vera storia delle suffragette, quella che la stampa dell’epoca si guardò bene dal raccontare, quella che ancora ci si guarda bene dal raccontare nelle scuole.
Suffragette non brilla per la sua forma, il film è più scritto che messo in scena, nondimeno Sarah Gravon e Abi Morgan hanno il merito di far conoscere questa versione dei fatti, celebrando la lotta per l’uguaglianza, contro le molestie sessuali e la disparità salariale che scosse l’opinione pubblica all’inizio del secolo. Sceneggiatrice di Suffragette e penna dietro The Iron Lady e The Hour (la serie televisiva), Abi Morgan sfoglia negli archivi, nelle lettere, nei diari intimi e mai pubblicati di numerose donne che come la protagonista presero parte alla causa sacrificando la loro vita privata o perdendo la propria vita come Emily Davison sotto il cavallo di re Giorgio V per guadagnare l’attenzione dei media. Donne spiate, picchiate, imprigionate perché volevano essere pienamente, per loro e per le generazioni a venire. Vitale e verace, Suffragette elude la rigidezza del film in costume e trova in Carey Mulligan una protagonista sensibile e ardente.
Mélange di tutte le suffragette britanniche, Maud Watts è interpretata da un’attrice capace di esprimere le sue evoluzione sottili, le emozioni di un’eroina dentro primi piani instabili in cui emerge la presa di coscienza e da cui sembra pronta a fuggire verso un impegno che le farà perdere impiego e famiglia. L’epifania toccante di Carey Mulligan si accompagna alla solidarietà militante dell’operaia tribolata e magnifica di Anne-Marie Duff e alla determinazione della farmacista di Helena Bonham Carter, che rende omaggio, non solo nel nome, a Edith Garrud e alle sue jiu-jitsuffragettes. Professionista delle arti marziali, Edith Garrud organizzò dal 1913 dei corsi riservati esclusivamente alle donne incoraggiandole a difendersi dai poliziotti durante le manifestazioni duramente represse. Icona, fuori e dentro lo schermo, è Meryl Streep a incarnare Emmeline Pankhurst in una breve ma vigorosa apparizione perché Sarah Gravon al biopic su una donna straordinaria dentro una causa straordinaria, preferisce la vicenda di donne ordinarie, operaie che hanno incarnato l’avanguardia del cambiamento in grembiule o gonne lunghe. Morte sotto i colpi della polizia, arrestate, alimentate con forza a causa dello sciopero della fame, dopo quarant’anni di campagne pacifiche, che ottengono soltanto promesse infrante, le suffragette abbandonano la compostezza indulgente e decidono per la disubbidienza civile, senza esitare a ricorrere ad azioni radicali e violente. Ma sono donne e non lo fanno con leggerezza, diversamente dai terroristi che uccidono innocenti, colpiranno soltanto sedi vuote ma distinte per attirare l’attenzione sul movimento e la causa.
Quanto a sapere se questa violenza valesse la pena o se tanta violenza abbia infine permesso di ottenere il diritto al voto, a riguardo gli storici hanno discordi opinioni. Quello che è certo per la Gravon è il prezzo pagato dalle donne che l’hanno perpetrata dentro una società reazionaria e che il suo melodramma sociale mette in scena in maniera forte e dolente, chiudendo sul funerale di Emily Davison e sull’idea di farci dono di un modello da seguire. Perché la strada da fare è ancora lunga e scorre sui titoli di coda indicanti le date di conseguimento del voto, raggiunto dalle donne britanniche nel 1918 (in maniera incompiuta). Le italiane ventisei anni dopo. In Arabia Saudita il diritto al voto è stato concesso a partire dal 2015.


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