Luci della ribalta

In programmazione: 18/04/2013

Descrizione

Con Luci della ribalta Chaplin intese narrare una storia individuale, la storia di un declino e di una morte, e forse prefigurava se stesso, o voleva esorcizzare.
Aveva sessantatré anni, pensava alla poesia e al sentimento e aveva finalmente accettato la parola nei film.
Aveva capito che la parola non sarebbe servita, come nel Grande dittatore, a enunciare i grandi temi: il cinema non aveva necessariamente quel dovere e Chaplin non aveva quella capacità. Charlot aveva espresso i massimi valori e sentimenti col gesto e le azioni.
Una bella storia individuale, capace di far ridere e sorridere, e anche commuovere, poteva essere altrettanto importante dei grandi messaggi sociali che aveva cercato di lanciare con immensa efficacia (Tempi moderni) o allarmante originalità (Monsieur Verdoux).
È la vicenda di Calvero, vecchio artista del varietà nella Londra degli anni Dieci. Non ha più successo ed è malato. Salva la vita a una ballerina disperata, la cura e le dà fiducia.
Ne fa un’artista e la porta alla sua “prima” trionfale. Nel frattempo chiede soltanto di fare un ultimo spettacolo e, se proprio non sarà successo, che non sia almeno un insuccesso.
Aiutato dal suo partner (Buster Keaton) ottiene un vero trionfo. Nell’ultima gag cade dentro un tamburo e vi muore.
Ma prima assiste al trionfo della sua protetta. Parabola straordinaria sull’altruismo, la fiducia e il coraggio. Il film commosse il mondo e Chaplin, ancora una volta, ebbe ragione.
Aveva voltato pagina e si era di nuovo imposto, aiutato dalla freschezza del ricordo e dell’esperienza diretta, se è vero che Calvero era un po’ Charles, ma soprattutto era suo padre che aveva fatto la fame dando piccoli spettacoli sui marciapiedi di Londra.
Il dialogo è pieno di considerazioni che sembrerebbero minime e banali, ma sono strumentali e rinviano a certi concetti naturali che in quegli anni sembravano sopraffatti dalle tante guerre fredde e cacce alle streghe. E fu proprio quella la stagione che rese più inviso il grande inglese agli americani, anzi, al loro governo. Molte le scene da ricordare: le lezioni di vita a Claire Bloom, l’incontro successivo in cui lui le chiede l’elemosina, infine il numero finale con Chaplin al violino e Keaton al piano.
E non si può non citare la colonna sonora composta dallo stesso Chaplin, uno dei più bei temi di tutta la musica da film.


Hunger

In programmazione: 11/04/2013

Descrizione

Irlanda del Nord, 1981.
il Primo Ministro Margaret Thatcher ha abolito lo statuto speciale di prigioniero politico e considera ogni carcerato paramilitare della resistenza irlandese alla stregua di un criminale comune.
I detenuti appartenenti all’IRA danno perciò il via, nella prigione di Maze, allo sciopero “della coperta” e a quello dell’igiene, cui segue una dura repressione da parte delle forze dell’ordine.
Il primo marzo, Bobby Sands, leader del movimento, decreta allora l’inizio di uno sciopero totale della fame, che lo condurrà alla morte, insieme a nove compagni, all’età di 27 anni.
Il britannico Steve McQueen ha con l’immagine un rapporto estremamente fisico, che qui porta all’estremo, dal fisico al fisiologico, poiché le armi della contestazioni sono dapprima i rifiuti del corpo e poi il corpo stesso, ultima risorsa a disposizione e ultimo baluardo di libertà: quella di poter scegliere di disporre di sé, della propria vita e della sua fine. Ed è tutto attorno a questo percorso insostenibile del libero arbitrio del protagonista che si muove Hunger, con una struttura originale e studiata, cerebrale, ma che procede verso la nudità (la coltre di neve, poi la coperta poi il lenzuolo/sudario), anzi la scarnificazione, e cerca la provocazione utile, vitale, morale, non quella sterile dello shock immediato e presto dimenticato.
Regista dell’espressività, che dà spazio alla materia e lo toglie alla parola, mettendo il dialogo al centro dell’opera e lì soltanto, nel piano-sequenza di 20 minuti che spezza il silenzio del prima e anticipa quello del dopo, McQueen lascia che il faccia a faccia tra Michael Fassbender e Michael Cunningham dica tutto quello che si può dire sull’argomento: dopo di ché, ancora, la scelta è privata, personale, ma questa volta chiama in causa anche lo spettatore. Da artista della contemporaneità quale è, infatti, Mc Queen non si limita a dipingere sulla tela ma instaura una relazione interattiva con l’altro lato dello schermo. Non è certo un cinema della grande illusione, il suo, se mai è un cinema della ferita dolorante, come avverte una delle prime immagini, quella delle nocche distrutte della guardia carceraria.
Lo stile è tutto ed è posto in evidenza senza remore, perché al servizio di una causa, con la stessa esposizione all’ambiguità o all’incomprensione che affronta il protagonista in scena.


Il sospetto

In programmazione: 14/03/2013

Descrizione

Lucas ha un divorzio alle spalle e una nuova vita davanti che vorrebbe condividere con il figlio Marcus, il cane Funny e una nuova compagna. Mite e riservato, Lucas lavora in un asilo, dove è stimato dai colleghi e adorato dai bambini, soprattutto da Klara, figlia del suo migliore amico. Klara, bimba dalla fervida immaginazione, è affascinata da Lucas a cui regala un bacio e un cuore di chiodini. Rifiutato con dolcezza e determinazione, Lucas invita la bambina a farne dono a un compagno. Klara non gradisce e racconta alla preside di aver subito le attenzioni sessuali dell’insegnante. La bugia di Klara scatenerà la ‘caccia’ al mostro, investendo rovinosamente la vita e gli affetti di Lucas. Disperato ma deciso a reagire, Lucas affronterà a testa alta la comunità nell’attesa di provare la sua innocenza.
La legge è chiara, un uomo non può essere considerato colpevole fino a quando sussiste solo l’ipotesi di reato. Diversamente, ai tribunali del popolo piace condannare, processare e cuocere sulla griglia mediatica il presunto colpevole. È quello che accade a Lucas, padre e insegnante, accusato da un’intera comunità di aver abusato dei propri bambini. Tema chiave della filmografia hitchcockiana, l’innocenza è al centro dell’ultimo film di Thomas Vinterberg, attore, regista e autore del primo film dogmatico. E proprio a Festen, Il sospetto sembra guardare, procedendo in direzione ostinata ma contraria. L’ostinazione è la riunione di famiglia, se pure allargata alla comunità, un padre screditato, la critica antiborghese, lo sgretolarsi delle loro certezze e della propria credibilità; lo scarto è il punto di vista che si sposta dalle vittime incriminanti ai colpevoli incriminati. Partendo dal presupposto che i bambini dicano sempre la verità e che gli adulti gli credano sempre, Lucas diventa il capro espiatorio, il cervo sacrificabile in una battuta di caccia tante volte condivisa con gli amici, quelli che adesso lo prendono a pugni e a male parole, quelli che lo vogliono fuori dal supermercato e gli ammazzano il cane, quelli che tirano pietre e parole pesanti come macigni.
Il Lucas ponderato e provato di Mads Mikkelsen è il ‘capro’ ideale delle cerimonie ebraiche, allontanato nel bosco e obbligato a portare su di sé i peccati del mondo, le ombre di una comunità, i comportamenti che i suoi componenti non accettano di sé e da cui si sentono minacciati. Con camera, mano e sguardo più fermi, il regista danese produce un transfert collettivo e irrazionale che procede verso l’eliminazione affettiva e minaccia quella effettiva con un colpo messo a segno mancando il segno. Per avvertire, per ridurre il senso di ansia causato dal perseguimento della sopravvivenza di un’umanità carnale, aggressiva e precipitata nel panico.
Ma c’è di più. Vinterberg, in una sequenza ‘corale’ sorprendente, contempla dopo l’accanimento il senso di colpa che colpisce chi ha ‘divorato’ Lucas e adesso lo ristora dentro una notte di Natale. Mikkelsen, il villain che lacrimava sangue al tavolo da gioco di Casino Royale, investe magnificamente la carica espiatoria, spostando con il suo autore il cinema un po’ più in là.


Après Mai

In programmazione: 04/04/2013

Descrizione

Parigi, primi anni Settanta. Gilles è un liceale che, come molti suoi coetanei, sperimenta la contraddizione tra l’impegno politico nei collettivi e la volontà di trovare un percorso individuale nella vita e nell’arte.
Quando la ragazza che ama, Laure, lo lascia per seguire una strada più estrema e confusa, Gilles va in Italia con alcuni amici e un nuovo amore, Christine, per sfuggire alle indagini sul ferimento grave di un vigilante.
Iscritto all’accademia di Belle Arti, in lui si fa sempre più strada l’idea di voler fare cinema.
La sua potrebbe non essere la via del cinema politico in senso stretto, che porta la documentazione dei movimenti di liberazione del Laos in giro per dibattiti ottusi e senza fine, né quella del cinema filoamericano che estremizza invece la fiction e non appartiene al tempo che vive e spesso nemmeno al
pianeta Terra, ma una terza via: quella intrapresa dallo stesso Assayas.
Nonostante il ricordo vada in primo luogo all’Eau Froide, come termine di paragone più prossimo, dal punto di vista narrativo è però evidente che è l’esperienza recente di Carlos, vale a dire di una materia storica e biografica, ad aver influenzato il modo di procedere del regista anche qui, dove non ha paura di mettere in sequenza una grande quantità di materiale e di evocare una mitologia famigliare autobiografica.
La malinconia che si respira nel film è legata alla vivacità culturale del periodo, non alla tristezza politica che lo permeava, e non è una nostalgia eccessiva.
Capace come nessun altro di ricostruire un quotidiano passato come fosse qui ed ora, il cinema di Assayas è il cinema del “sempre per la prima volta” e parla chiaramente allo spettatore di oggi, non dal palchetto di legno di un comizio, bensì con il pudore con cui si passa ad un amico un libro o un film che si è amato e che si vuol condividere (in questo senso lo scambio con Un amore di gioventù di Mia Hansen-Love è innegabile e ricercato, al di là della presenza comune di Lola Creton).
“Non badate alla forma, so che è d’altri tempi: mi direte voi cosa evoca in termini di attualità”, è più o meno la prima frase del film, affidata al professore di liceo, e non potrebbe esserci esergo più esplicito per un film che parla di “giovani preoccupati per il loro futuro” e di una base sociale che non può più pensare di “andare avanti così”. Tuttavia Something in the Air non è una bandiera, Assayas non chiama all’appello.
Racconta di qualcosa che è dietro le spalle, le cui contraddizioni, però, sono quelle che lo hanno fatto, come uomo e come cineasta.
Quale miglior strumento del cinema, dunque, per questa “riflessione”?


Una vita semplice

In programmazione: 28/03/2013

Descrizione

Tra l’anziana amah (domestica) Ah Tao e il suo padrone, l’attore cinematografico Roger, si instaura un rapporto che assomiglia a quello tra una madre e il proprio figlio, destinato a intensificarsi durante la degenza in ospedale di Ah Tao.
Una lunga carriera come quella di Ann Hui, dedita sin dagli inizi alla denuncia di storture della società e alla raffigurazione di spaccati di quotidianità raramente visti su grande schermo, non poteva che trovare coronamento in un film come A Simple Life, che già nel titolo pare assurgere a summa della poetica della regista. La storia di Ah Tao è quella esemplare della vita di una persona semplice, una donna costretta dagli eventi a trascorrere sin dall’infanzia una vita al servizio degli altri, ma che a questa condizione ha saputo infondere dignità e passione; una donna, a prescindere dallo status, speciale e unica, proprio come il fiocco di neve del vetusto stereotipo.
Riecheggia qualcosa di Ozu nella dinamica servo-famiglia, ma la cifra stilistica è inconfondibilmente quella di Ann Hui, che accarezza con la macchina da presa i corpi dei suoi personaggi, ma soprattutto le espressioni, anche le meno percettibili, carpendo sguardi e ammiccamenti furtivi tra due personaggi che spesso non necessitano di parole per comunicare il reciproco affetto. Quello che arriva al pubblico in una sorta di empatia che supera lo schermo e cresce man mano che Roger e Ah Tao capiscono di rappresentare la famiglia nella sua totalità l’uno per l’altro.
Proprio quell’Andy Lau che la Hui lanciò nel lontano 1982 di Boat People torna, ormai superstar, nei panni del protagonista di A Simple Life, privandosi di ogni glamour e dimostrando per la prima volta di accettare la sua mezza età e l’inesorabile verdetto del tempo che passa.
A fianco di Lau, diversi i cameo di celebrità del cinema di Hong Kong, tra cui un sorprendente Tsui Hark, che – con Andy Lau e Sammo Hung – riforma, in una breve parentesi di cinema nel cinema, la trimurti a cui dobbiamo Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma. Una lezione di compostezza e raffinata gestione dei sentimenti da un’instancabile osservatrice della vita umana.


Lo spirito degli angeli

In programmazione: 21/03/2013

Descrizione

Glasgow, il giovane Robbie, già recidivo, evita il carcere perché il giudice decide di puntare sulla sua capacità di recupero visto che la sua altrettanto giovane compagna sta aspettando un figlio. Viene così affidato a Rhino che è il responsabile di un gruppo di persone sfuggite al carcere e condannate a compiere lavori socialmente utili. Dopo aver assistito a un pestaggio, di cui Robbie diviene vittima nel momento in cui decide di andare in ospedale per vedere il bambino, Rhino decide di aiutarlo. Scoperta la sua particolare sensibilità gustativa per quanto riguarda i vari tipi di whisky decide di introdurlo nell’ambiente. È così che a Robbie e ad alcuni suoi compagni di rieducazione viene l’idea di un ‘colpo’ del tutto anomalo che però potrebbe offrire loro un futuro sereno.
Ken Loach torna a riflettere sulla commedia umana, arte nella quale è indiscutibilmente maestro. Sceglie lo scenario della Glasgow che ama e ci offre il ritratto di uomini segnati dalla vita privilegiando tra tutti quello del giovane Robbie. È a quelli che questo nostro mondo libero etichetta come irrecuperabili che, ancora una volta rivolge la sua attenzione. Perché Loach è convinto che la possibilità di un riscatto sociale vada più che mai offerta in questi nostri tempi in cui il Dio Mercato reclama ingenti e quotidiani sacrifici umani.
Con il fido sceneggiatore Paul Laverty utilizza come leva narrativa il momento che, per ogni essere umano degno di questo nome, è costituito dalla nascita di un figlio. Decidere di averlo nonostante tutto significa, oggi, sperare apparentemente contro ogni speranza. È quello che fanno Robbie e la sua compagna Leonie contro il padre e i familiari di lei. In una società che conta più sulla ricaduta del delinquente (per poterlo allontanare a lungo dalla comunità) che sul suo redimersi la giovane coppia trova però ancora delle significative solidarietà. Perché il socialismo di Loach è di stampo umanitario e crede che sia ancora possibile quella pietas che i latini sapevano definire sgombrandola da ogni retorica commiserevole. Ecco allora che il ‘dannoso’ alcol, nelle specie di pregiatissimo whisky, finisce con il divenire strumento di riscatto in una storia che unisce con grande equilibrio dramma e sorriso e che (a differenza del prezioso liquido) va gustata appieno, senza moderazione.


E’ stato il figlio

In programmazione: 07/03/2013

Descrizione

Busu è un vecchio signore a cui piace raccontare storie. Seduto nell’ufficio postale della sua città intrattiene gli avventori, qualcuno appassionato, troppi distratti. Più di tutti ama riferire l’avventura e la sventura della famiglia Ciraulo, colpita al cuore da un lutto. Nicola, il capofamiglia, recupera ferrame dalle navi in disarmo in compagnia del vecchio padre e del figlio. Dentro una casa modesta lo aspettano ogni sera la madre, la moglie e l’adorata Serenella che un proiettile vagante, esploso durante un regolamento di conti, uccide tragicamente. Inconsolabile, Nicola ritrova improvvisamente senso e speranza inseguendo la possibilità di un risarcimento, legittimo riconoscimento dello Stato alle vittime della mafia. Tra debiti e ingorghi burocratici, i Ciraulo provano a immaginare quale desiderio potrebbe appagare la loro ‘fame’ atavica. Liquidati finalmente decidono intorno al tavolo di investire il capitale ormai ridotto in un’automobile, la più bella che si sia mai vista in città. Ma quella Mercedes, ‘presidenziale’, luccicante e benedetta con acqua santa e segno della croce, finirà per diventare il simbolo della tracotanza e di una violazione che gli ‘dei’ non mancheranno di punire.
Ispirato dalle pagine di Roberto Alajmo, Daniele Ciprì torna al cinema senza Franco ma con Maresco. Senza l’amico ma col coAutore. L’insostenibile crudeltà dei ragazzi terribili di Cinico Tv, che seduceva l’occhio mentre pervertiva i cardini del comune senso del pudore estetico, nel cinema ‘scompagnato’ di Ciprì è moderata nella forma ma inalterata nel soggetto. Riconfermando l’universo espressivo e la radicalità etnico-linguistica e governando l’esasperazione estetica e lo spirito avant-garde, il regista palermitano declina al passato una tragedia moderna intorno all’uomo agito solo dalla sua volontà di godimento, senza limiti, senza vincoli. Il Nicola di Toni Servillo incarna un’umanità squassata, sgretolata, irriducibilmente comico-tragica, che desidera un appagamento immediato, assoluto, privo di ancoraggi simbolici e destinato a condannare la propria prole. Nel film di Ciprì, superbamente interpretato da attori professionisti e maschere reali, ogni inquadratura arriva quasi a tradimento, come una fitta lancinante, svolgendo una tragedia familiare dentro una realtà prima grottesca e poi disperatamente tragica. La famiglia Ciraulo ha violato la legge divina e immutabile, si è macchiata di tracotanza, riempiendo il dolore della perdita con un bene materiale, destinato a influenzare in maniera negativa il loro presente.
Ambientato nella periferia di Palermo, ma girato a Brindisi, È stato il figlio è una storia che ne racconta un’altra, scandita dal susseguirsi dei numeri luminosi di un ufficio postale, dove un sordomuto ‘coi pugni in tasca’ ascolta un uomo svolgere il suo dramma dentro periferie desolate, cieli incupiti, soli spenti, deserti di solitudine. Frammenti sparsi che riferiscono di una dissoluzione sociale, esistenziale ma soprattutto antropologica, che spappola l’identità, liberando il lato selvaggio e disintegrando la figura umana. Più ciechi di Tiresia, donna e uomo, vecchio e bambina di faccia a edifici ghiacciati in una fissità lunare, i Ciraulo si nutrono di una notte senza fine imponendo, attraverso la nonna Rosa di Aurora Quattrocchi, la propria legge sopra la norma sociale. E quello che avviene dentro poi accade fuori, i personaggi finiscono inghiottiti dal paesaggio urbano, partecipi della sua distruzione e della sua residualità: una macchina corrosa dalla ruggine, relitto informe di un bisogno paranoico di benessere.


Un sapore di ruggine e ossa

In programmazione: 28/02/2013

Descrizione

Nel nord della Francia, Ali si ritrova improvvisamente sulle spalle Sam, il figlio di cinque anni che conosce appena.
Senza un tetto né un soldo, i due trovano accoglienza a sud, ad Antibes, in casa della sorella di Alì. Tutto sembra andare subito meglio.
Il giovane padre trova un lavoro come buttafuori in una discoteca e, una sera, conosce Stephane, bella e sicura, animatrice di uno spettacolo di orche marine.
Una tragedia, però, rovescia presto la loro condizione.
A partire da alcuni racconti del canadese Craig Davidson, Audiard e Thomas Bidegain, già coppia creativa nel Profeta, traggono un racconto cinematografico a tinte forti, temperate però da una scrittura delle scene tutta in levare.
La trama e la regia sono estremamente coerenti nel seguire uno stesso rischiosissimo movimento, che spinge il film verso il melodramma e non solo verso la singola tragica virata del destino ma verso
la concatenazione di disgrazie, salvo poi rientrare appena in tempo, addolcire l’impatto della storia con “la ruggine” di un personaggio maschile straordinario, per giunta trovando un appiglio narrativo che tutto giustifica e tutto rilancia.
Un equilibrismo che può anche infastidire ma che rende il film teso, malgrado alcune mosse prevedibili.
Come spesso, nella filmografia di Audiard, corpo e spirito fanno tutt’uno, si ammaccano e si rimarginano insieme, senza bisogno di troppe parole: al contrario, la comunicazione, specie quella
femminile, passa attraverso un linguaggio muto ma intimamente comprensivo (qui è Stef che “parla” con l’animale ma anche il “dialogo” sessuale che si approfondisce senza l’uso di parole).
La macchina da presa del regista non è certo invisibile e le tesi, dietro il suo modo di filmare, sono sempre molto evidenti.
Questo film non fa eccezione e anzi spinge più che mai sui contrasti manichei tra bellezza e squallore, forza e debolezza, spirituali e letterali, fin quasi alla maniera.
Ma raggiunge un risultato non scontato laddove, pur essendo in realtà un lavoro molto scritto, dove tutto, fin dal primo istante, è pensato per tornare a domandar vendetta, la direzione degli attori e la
qualità dei dialoghi ci distraggono magistralmente, facendo sì che non ce ne accorgiamo quasi mai. La capacità del miglior cinema di Audiard di scartarsi da un percorso troppo rigido o incline alla retorica, questa volta non si manifesta né a livello di soggetto né di regia ma si ritrova più sottilmente nelle pieghe della messa in scena, nei gesti e nelle espressioni degli attori.


Oltre le colline

In programmazione: 21/02/2013

Descrizione

Voichita e Alina sono cresciute insieme in orfanotrofio fino alla maggiore età. Successivamente, la prima è stata accolta nel monastero locale mentre la seconda è stata affidata ad una famiglia adottiva, dalla quale è scappata per andare in Germania. Ora Alina torna per portare via con sé anche l’amica, l’unica persona che abbia mai amato e da cui sia mai stata amata. Ma Voichita non è certa di voler lasciare la comunità religiosa. Intanto l’irrequietezza di Alina porta il prete e le sorelle a credere che sia malata o indemoniata.
Oltre le colline è prima di ogni altra cosa una storia d’amore, ed è da qui che il film trae la sua potenza. Un amore soffocato dalle regole imposte dal luogo che in una delle ragazze, l’ “estranea”, emerge drammaticamente e istericamente, come ogni sentimento forte rigidamente represso.
Il regista è partito da un fatto avvenuto in un convento sperduto della Moldavia, nel quale una ragazza ha trovato la morte in seguito ad un esorcismo, e ha trasformato la cronaca dell’evento in evento cinematografico, (ri)aprendo grazie agli strumenti del cinema ciò che la Storia aveva chiuso. Lo fa mantenendo lo stile della cronaca, ma entrando in essa in profondità, fino a farne un racconto seguendo il quale sentiamo il passare dei giorni, delle ore, dei minuti.
Come, appunto, in Quattro mesi, tre settimane, due giorni, Mungiu si focalizza ancora su due protagoniste femminili, fra le quali s’inseriscono un uomo e la sua autorità, ma il confronto si ferma qui. Oltre le colline, per la scrittura del quale il regista si è rifatto alle ricerche romanzate di Tatiana Niculescu Bran, interroga principalmente le conseguenze di una scelta, senza mancare di illuminare quanto ristretto possa essere lo spazio del libero arbitrio quando il peso della storia culturale e famigliare di una persona è così grande. La critica all’ideologia religiosa nei suoi estremi di cecità e ignoranza è evidente, ma il regista, con intelligenza, lascia parlare i fatti ed evita di trasformare il racconto in una ricerca di colpe e colpevoli, così come evita, a livello filmico, i toni del sensazionale o del melodrammatico.
Splendidamente fotografato, tanto negli esterni che negli interni da Oleg Mutu, il film sembra non parlare per forza o solamente della terra del regista, come è accaduto molto spesso fino ad ora nei titoli della nouvelle vague romena, ma fa questo e altro, parla del locale e dell’universale, scegliendo e orchestrando un dramma in cui si assommano pericolosamente l’incompetenza, il rifiuto della responsabilità e gli svantaggi biografici.


Amour

In programmazione: 14/02/2013

Descrizione

Anne e Georges hanno tanti anni e un pianoforte per accompagnare il loro tempo, speso in letture e concerti. Insegnanti di musica in pensione, conducono una vita serena, interrotta soltanto dalla visita di un vecchio allievo o della figlia Eva, una musicista che vive all’estero con la famiglia. Un ictus improvvisamente colpisce Anne e collassa la loro vita. Paralizzata e umiliata dall’infarto cerebrale, la donna dipende interamente dal marito, che affronta con coraggio la sua disabilità. Assistito tre volte a settimana da un’infermiera, Georges non smette di amare e di lottare, sopportando le conseguenze affettive ed esistenziali della malattia. Malattia che degenera consumando giorno dopo giorno il corpo di Anne e la sua dignità. Spetterà a Georges accompagnarla al loro ‘ultimo concerto’.
“Diventare vecchi è insopportabile e umiliante” scrive Philip Roth in “Everyman”, uno dei suoi romanzi più dolenti e implacabili intorno alla senilità e alla malattia, argomenti temuti e tenuti ai margini del discorso pubblico. Ci voleva un regista rigoroso come Michael Haneke per contemplarli, mettendo in scena una coppia di ottuagenari che guarda in maniera diretta la propria estinzione. E diretto e frontale è pure lo sguardo di Haneke, che ‘infartuando’ la sua protagonista introduce nella sua vita un senso di precarietà e un destino cinico, che non si accontenta di farti invecchiare, soffrire e morire, prima della tua dipartita si porta via i tuoi amici, quelli che amavi, quelli che conoscevi, quelli che frequentavi, costringendoti all’ennesimo funerale.
Una cerimonia funebre quasi sempre artificiosa e balzana come quella che Georges racconta ad Anne, esorcizzando la morte e ingaggiando con l’oblio uno scontro penoso. Nei sogni ad occhi aperti, Anne e Georges vorrebbero ‘vivere’ di nuovo, riavere tutto daccapo, guardando foto in bianco e nero o suonando un pianoforte accordato alla maniera della loro relazione. Ma è un attimo, non si fanno certo illusioni i personaggi interpretati da Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, la cui bellezza il tempo ha oltraggiato. I loro corpi, che hanno condiviso e abitato i ‘colori’ di Kieslowski, si arrendono in Amour a ogni sofferenza e al più irrevocabile declino in un crescendo di convalescenze e (ri)cadute.
Non risparmia niente Haneke allo spettatore, accomodato in sala nell’incipit del film e risvegliato nel progredire dell’affezione dalle “cose ovvie, altrimenti indiscusse”. La vecchiaia è un massacro e la malattia si fa beffa dell’ansia di durare con una precisione assoluta, terrificante, invisibile ma visibile nei suoi effetti. Haneke procede e approfondisce la critica a una struttura sociale ipocrita, che non ha il senso della realtà e del coraggio e persevera nel contemplare la ‘senescenza’ come tempo della pace e stagione dei ricordi sereni. Il male, che nel villaggio dei dannati nella Germania de Il nastro bianco cresceva dentro il corpo della comunità, in Amour consuma adesso il corpo di Anne, ingolfandola fino a ‘spegnerla’. Impietosa e severa, la violenza della malattia è raddoppiata dalla geometrica prigione dei movimenti di macchina e da uno stile di inarrivabile crudeltà. Unica concessione per Haneke è l’amore, l’amore del titolo, consentito insieme alla disperazione, alla rabbia e alla ribellione.
Questa volta non c’è niente da nascondere e l’etica raggelante dell’autore austriaco prevede una via d’uscita dopo aver scavato con le unghie nel dramma sostanziale dell’essere umano, dopo aver centrato la corporeità dell’esperienza della vita. A riempire nell’epilogo il vuoto di Anne e Georges resta soltanto il pieno della Eva di Isabelle Huppert, ultima espressione nel film dell’essere in vita.


L’intervallo

In programmazione: 07/02/2013

Descrizione

L’intervallo inizia con una considerazione zoologica sulle diverse ragioni che spingono a cantare tipologie differenti di uccelli caratterizzati da un canto molto simile: “…così un canto di sfida può essere confuso con un canto d’amore”. Ed è per ragioni d’amore che forse sono spinte da una volontà di sfida, che Veronica si trova prigioniera in un ospedale abbandonato di Napoli simile ad un castello diroccato, guardata a vista da un altro recluso, obbligato con la forza a farle da carceriere per un giorno. I due ragazzi, impossibilitati ad uscire da quel luogo senza senso, vivranno una giornata di vacanza dalla quotidianità che li schiaccia.
Scritto appositamente per il cinema, senza basarsi su nessun testo di partenza, girato in fretta e modellato nei dialoghi e nelle inflessioni sulla lingua parlata realmente grazie al contributo e alle piccole improvvisazioni dei due attori protagonisti (scovati e allenati da mesi di “preparazione”), il film di Leonardo Di Costanzo ha il sapore dei prodotti grezzi ed autentici e la complessità visiva del più grande direttore della fotografia che operi in Italia: Luca Bigazzi.
Tra fondamenta allagate che paiono mari immensi, giardini trascurati che sembrano boschi colmi d’erbacce e piante non coltivate, rottami a non finire e saloni vuoti in cui solo detriti e calce fanno da mobilio i due ragazzi parlano, si odiano e si rispecchiano l’uno nell’altro fino all’inevitabile confronto finale con la ragione della loro reclusione. Nella favola scritta assieme a Maurizio Braucci non c’è consolazione, solo illustrazione, non c’è eroismo, nemmeno nascosto, solo sottomissione al sistema, per questo è uno dei film più coraggiosi in materia.
Per arrivare a questo la scelta del team di autori è di passare attraverso il dramma da camera senza mai avvicinarsi al teatro. Benchè in scena ci siano praticamente sempre solo due attori che parlano tra di loro, L’intervallo riesce a non rimanere ripiegato sulla parola ma con i continui cambi d’ambiente e il fenomenale apporto delle luci di Bigazzi, capaci da sole di raccontare uno stato d’animo, porta nuove idee e rinegozia il senso di ogni scena, in modo da rendere ogni momento superiore alle semplici battute che in esso sono pronunciate.
Nonostante rimanga un film piccolo, per volontà aspirazioni e umiltà, L’intervallo comunque riesce ad arrivare più lontano delle proprie aspirazioni in virtù di una coerenza, di un’onestà e di una fiducia nelle capacità dell’immagine che non sono frequenti.


Pietà

In programmazione: 31/01/2013

Descrizione

Assunto da uno strozzino per ottenere il pagamento dei debiti dai clienti in ritardo, Kang-do si comporta come un macellaio, storpiando orribilmente le sue vittime e seminando la morte. Fino a quando non si presenta alla sua porta una donna che dice di essere la madre e si addossa la colpa di ogni suo crimine, pentita di averlo abbandonato alla nascita e lasciato crescere senza amore. Dopo averla sottoposta alle prove più terribili per accertarsi che dica la verità, Kang-do accetta finalmente la donna ma la paura di perderla lo mette, per contrappasso, nella posizione di scacco in cui ha sempre tenuto le sue vittime.
La vita, la morte, il denaro. Per Kim Ki-duk c’è un termine di troppo, un intruso fatale. La pietà non è un trittico ma una figura sacra, che prevede solo due attanti. Il denaro non dovrebbe avere un posto tra questi temi, ma l’ha acquisito, ed è un errore che domanda giustizia, o meglio, un giustiziere.
Non c’è dubbio che Pietà sia un film sulla sproporzione. Lo dice in un sol colpo (d’occhio) l’immagine della coppia protagonista: un ragazzo gigantesco e una piccola signora, e lo ribadisce ogni scena, ogni sfumatura. La crudeltà di Kang-do è fuori misura, così come la stupidità di alcuni debitori. Lo sono la capacità di sopportazione dell’una, l’ingenuità dell’altro, l’architettura della vendetta. Lo sono, dunque, le scelte in sede di racconto e di regia: le scene di sesso dichiaratamente eccessive, l’enfasi musicale, l’utilizzo di un’attrice, Min-soo Cho, dalla bravura fuori dell’ordinario.
Eppure, non si può fare a meno di avvertire anche un eccesso di sicurezza, da parte del regista sudcoreano, uno sfoggio di sé, che qualche volta toglie forza a ciò che avviene dentro l’inquadratura, o più semplicemente le impedisce di sorprenderci. È un genere, questo, che Kim ha già cavalcato e nel quale eccelle, ma non incanta più. Se non fosse per la massiccia dose di ironia che ha calato in questo diciottesimo film, probabilmente più che in ogni altro lavoro precedente, il rischio sarebbe quello della predica morale leggermente ridondante, come lo è il kyrie eleison finale. “Signore, pietà”.
Salvato dall’ironia, Kim regala allora, nonostante tutto, un film circoscritto e alto, in parte ispirato dal connazionale Park Chan-wook, ma intimo e sporco, meno lirico e più radicato nelle “passioni” di questo tempo buio.


Il rosso e il blu

In programmazione: 24/01/2013

Descrizione

Giuliana è la preside scrupolosa di un liceo, dove arriva sempre per prima, predisponendo e perfezionando aule e servizi. Fiorito è un professore di storia dell’arte che ha perso il gusto della bellezza e dell’insegnamento. Prezioso è il giovane supplente di lettere che vorrebbe salvare il mondo e interessare i suoi alunni a colpi di poesia. Operativi dentro una scuola alla periferia di Roma, Giuliana, Fiorito e Prezioso sono costretti da variabili di pochi anni e tanti brufoli a rivedere posizioni e convinzioni. Perché davvero non si smette mai di imparare.
Il cinema di Giuseppe Piccioni incontra spesso destini e vite. In quell’incrocio di traiettorie inattese e nell’attrito che si produce, il regista comincia a scavare, frugando nel disagio ed esponendo la bellezza e la fatica di vivere. Una lavanderia, un’auto, un set, una piscina, sono i luoghi dove i suoi personaggi, sempre un po’ fuori dal mondo, si tormentano mai appagati e mai riconciliati. Confermando doti e propensione preziose del suo autore, Il rosso e il blu questa volta abita la scuola, un universo immobile e immutabile, punteggiato da eterne figure umane e istituzionali. Lo spunto narrativo, fornito dalle pagine di Marco Lodoli e sceneggiato da Piccioni e Francesca Manieri, si svolge lungo i corridoi, la sala insegnanti, le aule, la palestra, individuando i ‘caratteri’ e la varia umanità. Dopo arrivano le azioni, esposte dal professore abdicato di Roberto Herlitzka e articolate dai suoi colleghi, ognuno a suo modo infelice e smarrito alla maniera dell’insegnante di biologia che proprio non capisce la fotosintesi, la (tras)formazione in presenza di luce. Formazione che è fissazione del giovane docente di Riccardo Scamarcio, resistente e perseverante nella ricerca di un bagliore che travolga fino a disperderla l’apatia dei suoi ragazzi, di cui disegna una pianta agevolando la sua memoria fisiognomica. Prezioso come il suo nome, il supplente di italiano troverà soltanto la biro di un’allieva impersonale e osservante che affronta ‘alla lettera’ scuola ed esistenza. L’altrove, agognato per le generazioni del futuro, lo intravedrà soltanto in sogno e dentro la dolcezza di un sonetto.
Intimo e corale, Il rosso e il blu crede che sia ancora possibile fare qualcosa, trovare dei livelli di comunicazione accettabili, avere il senso di un lavoro da compiere, credere nel valore della bellezza, provare simpatia e solidarietà verso gli altri esseri umani, riscattarsi in virtù della cultura e dell’amore. Anche sbagliando, cadendo, bocciando, fraintendendo si può evitare, o almeno correggere, il fallimento della trasmissione, favorendo la dimensione vitale del desiderio e frenando la volontà di godimento che rifiuta ogni limite. La trasmissione del desiderio la ritroverà pure il bisbetico professor Fiorito dentro una lezione ‘romantica’ che riempirà di senso il (suo) vuoto. Piccioni, dirigendo un cast nobile che accresce Scamarcio, ‘disimpegna’ Herlitzka, misura la Buy, scopre Elena Lietti, sfiora Gene Gnocchi e carezza Lucia Mascino, firma un film importante abitato da insegnanti che amano i loro ragazzi “non malgrado siano una causa persa ma proprio perché sono una causa persa.”


Diaz – Non pulite questo sangue

In programmazione: 17/01/2013

Descrizione

Luca è un giornalista della Gazzetta di Bologna (giornale di centro destra) che il 20 luglio 2001 decide di andare a vedere di persona cosa sta accadendo a Genova dove, in seguito agli scontri per il G8, un ragazzo, Carlo Guliani, è stato ucciso. Alma è un’anarchica tedesca che ha partecipato agli scontri e ora, insieme a Marco (organizzatore del Social Forum) è alla ricerca dei dispersi. Nick è un manager francese giunto a Genova per seguire il seminario dell’economista Susan George. Anselmo è un anziano militante della CGIL che ha preso parte al corteo pacifico contro il G8. Bea e Ralf sono di passaggio ma cercano un luogo presso cui dormire prima di ripartire. Max è vicequestore aggiunto e, nel corso della giornata, ha già preso la decisione di non partecipare a una carica al fine di evitare una strage di pacifici manifestanti. Tutti costoro e molti altri si troveranno la notte del 21 luglio all’interno della scuola Diaz dove la polizia scatenerà l’inferno.
Fino a qui la parte iniziale del film a cui vanno fatti seguire dei dati che non sono cinema ma cronaca giudiziaria. Alla fine di quella notte gli arrestati furono 93 e i feriti 87. Dalle dichiarazioni rese dai 93 detenuti (molti dei quali oggetto di ulteriori violenze alla caserma-prigione di Bolzaneto) nacque il processo in seguito al quale dei più di 300 poliziotti che parteciparono all’azione 29 vennero processati e, nella sentenza d’appello, 27 sono stati condannati per lesioni, falso in atto pubblico e calunnia, reati in gran parte prescritti. Mentre per quanto accaduto a Bolzaneto si sono avute 44 condanne per abuso di ufficio, abuso di autorità contro detenuti e violenza privata (in Italia non esiste il reato di tortura).
Gli elementi di cui sopra sono indispensabili per fare memoria su un episodio avvenuto in una scuola dedicata a colui che firmò il bollettino di guerra della vittoria nel 1918 è che è stata teatro della più grave disfatta del diritto democratico della nostra storia recente. Il film di Vicari si colloca all’interno del cinema di denuncia civile di cui Rosi e Lizzani sono stati maestri e che richiama, per la forza e la lucida coerenza della narrazione il Costa Gavras di Z- L’orgia del potere. Vicari non si nasconde dietro a nessun facile manicheismo come quello di chi tuttora considera i Black Block solo dei ‘compagni che sbagliano’. Ne mostra in apertura le devastazioni e, così facendo, può permettersi di proporre un film che si muove su un piano eticamente elevato. Così come solo chi è in malafede potrà accusare Diaz – Non pulire questo sangue di essere ‘contro la polizia’. E’ sicuramente contro ma con l’opposizione e la denuncia di quel tumore che può pervadere (così come è accaduto) un’istituzione la cui finalità e quella di mantenere l’ordine democratico e non di esercitare violenza fisica e psicologica su chi ritiene di dover sottoporre a controlli o restrizioni di libertà. Dal punto di vista cinematografico poi questo è un film senza star. Ognuno ha il proprio ruolo che si immerge e riemerge come un corso d’acqua carsico nei gironi degli inferi di quella notte. Una notte da dimenticare diranno alcuni. Una notte da ricordare afferma con forza e rigore questo film. Perché fatti simili non accadano più.


Sister

In programmazione: 13/01/2013

Descrizione

Il dodicenne Simon vive nella vallata industriale ai piedi di un altipiano sciistico di lusso. Condivide l’appartamento popolare con la sorella maggiore, Louise, che non ha un lavoro. Nessuna traccia, invece, dei genitori.
Simon procura il cibo e i soldi che servono per vivere ad entrambi vendendo ai suoi coetanei
sci, guanti e occhiali di valore, che ruba nel corso delle sue trasferte quotidiane in alta montagna. Ruba anche su commissione, l’attrezzatura della marca richiesta.
Ursula Meier ambienta la sua opera seconda nuovamente su un confine, questa volta più abituale, meno insolito rispetto al tratto di autostrada di Home, ma anche più manicheo e drammatico.
Il film procede testardo, come la convinzione di Simon di poter vivere con i proventi dei furti stagionali, mangiando i panini estratti dagli zainetti dei piccoli turisti, fino a che un colpo di scena non riscrive improvvisamente la situazione, rendendo la lotta quotidiana del bambino più toccante che biasimabile. La struttura, quasi a dittico, ricorda non a caso quella del Matrimonio di Lorna dei fratelli Dardenne, non nei contenuti ma in ragione di quella cesura così netta e posizionata molto in
avanti.
E i due fratelli belgi sono chiaramente anche gli ispiratori primari di questo genere di dramma, che non sconfina mai nel melodramma ma si muove per tutto il tempo teso sul bordo dello stesso, votato all’asciuttezza e radicato fortemente nel terreno delle disuguaglianze sociali.
La bella Léa Seydoux si rende credibile nella sua trasformazione in ragazza senza un soldo e senza una arte né parte, il che non è poco, e allo stesso tempo non ruba la scena al vero protagonista del film, Kacey Mottet Klein; ma ci sono aspetti che non sono altrettanto credibili, su tutti la complicità di
Simon con il cuoco inglese.
In conclusione, però, non è la mancanza di sincerità il rischio primario in cui incorre il film, bensì quello di non andare mai abbastanza oltre la cronaca naturalistica dei fatti.
L’ironia tragicomica di “Home” è quasi del tutto assente ma, nonostante il tragico non sia giustamente il registro di questo lavoro, non c’è altro a sostituirlo, nemmeno la tenerezza che i Dardenne hanno recentemente rivelato nel Ragazzo con la bicicletta.
L’autrice avrebbe fatto meglio a cercare maggiormente se stessa, anziché emulare un modello altrui.


Cesare deve morire

In programmazione: 20/12/2012

Descrizione

Nel teatro all’interno del carcere romano di Rebibbia si conclude la rappresentazione del “Giulio Cesare” di Shakespeare. I detenuti/attori fanno rientro nelle loro celle. Sei mesi prima: il direttore del carcere espone il progetto teatrale dell’anno ai detenuti che intendono partecipare. Seguono i provini nel corso dei quali si chiede ad ogni aspirante attore di declinare le proprie generalità con due modalità emotive diverse. Completata la selezione si procede con l’assegnazione dei ruoli chiedendo ad ognuno di imparare la parte nel proprio dialetto di origine. Progressivamente il “Giulio Cesare” shakesperiano prende corpo.
I fratelli Taviani erano certamente consapevoli delle numerose testimonianze, in gran parte documentaristiche, che anche in Italia hanno mostrato a chi non ha mai messo piede in un carcere come il teatro rappresenti un strumento principe per il percorso di reinserimento del detenuto. Quando poi si pensa a una fusione di fiction e documentario la mente va al piuttosto recente e sicuramente riuscito film di Davide Ferrario Tutta colpa di Giuda. I Taviani scelgono la strada del work in progress utilizzando coraggiosamente l’ormai antinaturalistico (e televisivamente poco gradito) bianco e nero. L’originalità della loro ricerca sta nella cifra quasi pirandelliana con la quale cercano la verità nella finzione. Questi uomini che mettono la loro faccia e anche la loro fedina penale (sovrascritta sullo schermo) in pubblico si ritrovano, inizialmente in modo inconsapevole, a cercare e infine a trovare se stessi nelle parole del bardo divenute loro più vicine grazie all’uso dell’espressione dialettale. Frasi scritte centinaia di anni fa incidono sul presente nel modo che Jan Kott attribuiva loro nel saggio del 1964 dal titolo “Shakespeare nostro contemporaneo”. Ogni detenuto ‘sente’ e dice le battute come se sgorgassero dal suo intimo così che (ad esempio) Giovanni Arcuri è se stesso e Cesare al contempo e la presenza del regista Cavalli e dell’ex detenuto e ora attore Striano nel ruolo di Bruto non stonano nel contesto. Ciò che purtroppo diventa dissonante (anche se non inficia alle radici il valore dell’operazione) è la pretesa di far ‘dire di sé’ ai detenuti. Nei momenti in cui dovrebbero uscire dalla parte per rientrare in se stessi si avverte che è proprio allora che stanno recitando un copione che parla delle loro tensioni o delle loro attese. La ricerca della verità nella finzione si trasforma in finzione che pretende di palesare delle verità. Non era necessario. Shakespeare aveva già splendidamente ottenuto il risultato.


Monsieur Lazhar

In programmazione: 13/12/2012

Descrizione

Bachir Lazhar, immigrato a Montréal dall’Algeria, si presenta un giorno per il posto di sostituto insegnante in una classe sconvolta dalla sparizione macabra e improvvisa della maestra.
E non è un caso se Bachir ha fatto letteralmente carte false per avere quel posto: anche nel suo passato c’è un lutto terribile, con il quale, da solo, non riesce a fare i conti.
Malgrado il divario culturale che lo separa dai suoi alunni, Bachir impara ad amarli e a farsi amare e l’anno scolastico si trasforma in un’elaborazione comune del dolore e della perdita e in una
riscoperta del valore dei legami e dell’incontro.
Il film è un racconto semplice, sia dal punto di vista della struttura che dell’estetica, assolutamente naturalistica, ma suscita emozioni forti perché sembra uscito da un passato più autentico, incarnato dal personaggio del titolo, che delle nuove locuzioni per l’analisi logica non sa nulla ma conosce la
sostanza, quella che non muta.
Un passato, soprattutto, in cui l’insegnamento era anche iniziazione e cioè trasmissione di una passione prima che di un sapere e in cui l’abbraccio tra maestro e bambino, così come lo scappellotto, non era proibito ma faceva parte di un relazione profonda, che non poteva non contemplare anche le manifestazioni fisiche.
Monsieur Lazhar è dunque un film commovente, non pietistico né moraleggiante, che riflette sulla perdita ma fa riflettere anche noi su cosa ci siamo persi per strada.
Le istanze sociali, quali il rischio di espulsione del maestro dal paese o la solitudine famigliare di molti bambini, contribuiscono al clima del film ma non sgomitano per emergere là dove non servono.
Il cuore del film resta la relazione tra i bambini -Alice (Sophie Nelisse) in particolare- e il maestro, ovvero l’incontro con l’altro, la scoperta reciproca delle storie personali che stanno dietro un nome e un cognome sul registro, da una parte e dall’altra della cattedra.
È questa simmetria, infatti, che, se inizialmente può suonare un po’ meccanica, diviene poi responsabile della forza e della bellezza del film, specie perché il regista e sceneggiatore Philippe Falardeau non pone tanto l’adulto al livello dei bambini quanto il contrario.
Posti di fronte alla necessità di superare un trauma che alla loro età non era previsto che si trovassero sulla strada, gli alunni di Bachir sperimentano il senso di colpa, la depressione e la paura esattamente come accade all’uomo, nel suo intimo.
Insegnando ai bambini e a se stesso a non scappare dalla morte, Lazhar (si) restituisce la vita.


Una separazione

In programmazione: 06/12/2012

Descrizione

Nader e sua moglie Simin stanno per divorziare. Hanno ottenuto il permesso di espatrio per loro e la loro figlia undicenne ma Nader non vuole partire. Suo padre è affetto dal morbo di Alzheimer e lui ritiene di dover restare ad aiutarlo. La moglie, se vuole, può andarsene. Simin lascia la casa e va a vivere con i suoi genitori mentre la figlia resta col padre. È necessario assumere qualcuno che si occupi dell’uomo mentre Nader è al lavoro e l’incarico viene dato a una donna che ha una figlia di cinque anni e ed è incinta. La donna lavora all’insaputa del marito ma un giorno in cui si è assentata senza permesso lasciando l’anziano legato al letto, un alterco con Nader la fa cadere per le scale e perde il bambino.
Asghar Faradhi conferma con questo film le doti di narratore già manifestate con About Elly. Non è facile fare cinema oggi in Iran soprattutto se ci si è espressi in favore di Yafar Panahi condannato per attività contrarie al regime. Ma Faradhi sa, come i veri autori, aggirare lo sguardo rapace della censura proponendoci una storia che innesca una serie di domande sotto l’apparente facciata di un conflitto familiare. Il regista non ci offre facili risposte (finale compreso) ma i problemi che pone sono di non poco conto per la società iraniana ma non solo. Certo c’è il quesito iniziale non di poco conto: per un minore è meglio cogliere l’opportunità dell’espatrio oppure restare in patria, soprattutto se femmina? Perchè le protagoniste positive finiscono con l’essere le due donne. Entrambe con i loro conflitti interiori, con il peso di una condizione femminile in una società maschilista e teocratica ma anche con il loro continuo far ricorso alla razionalità per far fronte alle difficoltà di ogni giorno. Agghiacciante nella sua apparente comicità agli occhi di un occidentale è la telefonata che la badante fa all’ufficio preposto ai comportamenti conformi alla religione per sapere se possa o meno cambiare i pantaloni del pigiama al vecchio ottantenne che si è orinato addosso. Sul fronte opposto della barricata finiscono per trovarsi gli uomini che, o sono obnubilati dalla malattia oppure finiscono con l’aggrapparsi a preconcetti che impediscono loro di percepire la realtà in modo lucido. Ciò che va oltre alla realtà iraniana è l’eterno conflitto sulla responsabilità individuale nei confronti di chi ci circonda. Ognuno dei personaggi vi viene messo di fronte e deve scegliere. Sotto lo sguardo protetto dalle lenti di una ragazzina.
Una nota a margine: il cinema iraniano è veicolo stabile di una falsificazione narrativa che sta a priori di qualsiasi sceneggiatura. Sussistendo il divieto per le donne di mostrarsi a capo scoperto in pubblico i registi sono obbligati a farle recitare con chador o foulard vari anche quando le scene si svolgono all’interno delle mura domestiche narrativamente in assenza di sguardi estranei stravolgendo quindi la rappresentazione della realtà.

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Il primo uomo

In programmazione: 29/11/2012

Descrizione

Lo scrittore Jean Cormery torna nella sua patria d’origine, l’Algeria, per perorare la sua idea di un paese in cui musulmani e francesi possano vivere in armonia come nativi della stessa terra. Ma negli anni ’50 la questione algerina però è ben lontana dal risolversi in maniera pacifica. L’uomo approfitta del viaggio per ritrovare sua madre e rivivere la sua giovinezza in un paese difficile ma solare. Insieme a lui lo spettatore ripercorre dunque le vicende dolorose di un bambino il cui padre è morto durante la Prima Guerra Mondiale, la cui famiglia poverissima è retta da una nonna arcigna e dispotica. Gli anni ’20 sono però per il piccolo Jean il momento della formazione, delle scelte più difficili, come quella di voler continuare a studiare nonostante tutte le difficoltà. Tornato a trovare il professor Bernard, l’insegnante che lo ha aiutato e sorretto, il Cormery ormai adulto ascolta ancora una volta la frase che ha segnato la sua vita: “Ogni bambino contiene già i germi dell’uomo che diventerà”.
Senza mezzi termini il miglior film di Gianni Amelio almeno dai tempi de Il ladro di bambini. Adattamento del romanzo di Albert Camus, Il primo uomo ripercorre a ritroso le vicende di un personaggio straordinario, silenzioso e deciso, che ricerca nel proprio passato anche doloroso le convinzioni che lo hanno portato ad essere ciò che è nel presente. Lo stile del regista è come sempre asciutto ed elegante, evita inutili infarcimenti estetici e si concentra sulla pulizia e sull’efficacia dell’inquadratura. Ogni primo piano su volti segnati dalla loro vicenda personale è preciso, giustificato, emozionante. In questo lo supporta alla perfezione la fotografia accurata ma mai espressionista di Yves Cape, tornato con questo lungometraggio ai livelli altissimi che gli competono. Anche la sceneggiatura alterna i piani temporali costruendo un equilibrio narrativo basato sulla vita interiore del personaggio principale, un’architettura narrativa complessa e sfaccettata che funziona a meraviglia. Poi ovviamente ci sono gli attori, tutti in stato di grazia. Jacques Gamblin possiede la malinconia e insieme il carisma necessari per sintetizzare al meglio l’anima di una figura complessa come Jean Colmery. Accanto a lui una schiera di volti che regalano dignità e verità a tutte le parti, anche le più piccole: su tutti vale la pena citare una sontuosa Catherine Sola nelle vesti della madre di Jean, interpretata in gioventù dalla brava Maya Sansa.
Un’opera raffinata e umanissima, in grado di rivendicare l’importanza della memoria non solo personale ma collettiva, una memoria che deve essere adoperata come strumento d’indagine delle contraddizioni del presente. Sotto questo punto di vista quindi un film che guarda al passato per farsi attuale e necessario. Cinema di qualità estetica elevata e d’importanza civile. Da applauso.

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Bella addormentata

In programmazione: 22/11/2012

Descrizione

Giorni di inizio febbraio 2009. Eluana Englaro, dopo 17 anni trascorsi in coma e con alimentazione artificiale, viene fatta trasportare dal padre in una struttura ospedaliera di Udine in cui operano medici disposti a interrompere il trattamento. L’avvenimento scatena in Italia la reazione di fronti opposti. C’è chi vuole impedire ad ogni costo che ciò avvenga e chi invece ritiene che sia l’attuazione di un diritto civile. Il senatore Uliano Beffardi del Popolo della Libertà viene convocato a Roma per la votazione del decreto d’urgenza in materia voluto dal governo Berlusconi per contrastare la volontà del padre della giovane donna. Se Beffardi sta maturando dei dubbi sul voto (anche in seguito a una vicenda personale), sua figlia Maria è invece determinata nel raggiungere la clinica per manifestare contro l’interruzione del trattamento. Incontrerà Roberto e suo fratello diversamente schierati sul fronte opposto. Intanto il dottor Pallido si trova dinanzi al caso di Rossa, tossicodipendente che cerca la morte, mentre la Divina Madre (un’attrice ritiratasi dalle scene per assistere una figlia in coma profondo) ha cancellato qualsiasi altro interesse dalla propria vita a partire dal marito e dal figlio.
Marco Bellocchio non si è mai ritratto dinanzi alle sfide che una coscienza laica e civile sembrava quasi imporre al suo fare cinema. La maturità di artista e di uomo gli ha imposto, in questa specifica situazione, di non reagire d’impulso a una vicenda come quella del cosiddetto ‘caso Englaro’. Ha così atteso due anni prima di prendere decisamente in considerazione l’ipotesi di realizzare questo film in cui la lettura degli eventi di quel febbraio è filtrata attraverso altre vicende d’invenzione ma in gran parte verosimili.
È come se in Bella addormentata confluissero due delle anime del regista. Da un lato quella del narratore incalzante e lucido dei fatti come ai tempi di Sbatti il mostro in prima pagina e dall’altra quella di un Maestro del cinema in grado di trasfigurare in forma concretamente astratta e simbolica le tensioni di una vicenda. In questa doppia anima stanno la forza e la debolezza del film. La debolezza perché una storia (quella della Divina Madre interpretata da una mimetica Isabelle Huppert) risulta aderire in modo forse troppo marcato a quel teatro a cui fa riferimento. Dall’altra invece troviamo delle pagine di cinema allo stato puro nella scena della sauna o in quella del confronto tra lo psichiatra e il senatore.
Tutto questo calato in una dimensione in cui l’aderenza alle posizioni degli uni e degli altri percepisce e separa, con la precisione di un bisturi, ciò che è umanamente comprensibile da ciò che si nasconde dietro la cieca barriera dell’ideologia. Perché Bellocchio sa come prendere posizione (l’utilizzo di alcune dichiarazioni di politici dell’epoca è lì a dimostrarlo) ma sa anche come guardare più in là cercando anche nelle contraddizioni del sentire (vedi il personaggio di Maria) l’umanità più profonda che sa dire sì alla vita anche partendo da prospettive diverse, conservandosi però il diritto a un’intima ricerca propria di chi va al di là degli slogan. Come il dottor Pallido, un medico capace di vedere nel malato non un caso ma una persona. Nell’anonimato quotidiano di un ospedale come tanti.

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Romanzo di una strage

In programmazione: 15/11/2012

Descrizione

Milano, dicembre 1969. Giuseppe Pinelli è un ferroviere milanese. Marito, padre e anarchico anima e ispira il Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa. Luigi Calabresi è vice-responsabile della Polizia Politica della Questura di Milano. Marito, padre e commissario segue e sorveglia le opinioni politiche della sinistra extraparlamentare. Impegnati con intelligenza e rigore su fronti opposti, si incontrano e scontrano tra un corteo e una convocazione. L’esplosione alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, in cui muoiono diciassette persone e ne restano ferite ottantotto, provoca un collasso alla nazione e una tensione in quella ‘corrispondenza cordiale’. Convocato la sera dell’attentato e interrogato per tre giorni, Pinelli muore in circostanze misteriose, precipitando dalla finestra dell’Ufficio di Calabresi. Assente al momento del tragico evento, il commissario finisce per diventarne responsabile e vittima. Perseguitato con implacabile risolutezza dagli esponenti di Lotta Continua, ‘implicato’ dalla Questura e abbandonato dai ‘dirigenti’, continuerà a indagare sulla strage, scoprendo il coinvolgimento della destra neofascista veneta e la responsabilità di apparati dello Stato. Una promozione e un trasferimento rifiutati confermeranno la sua integrità, determinandone il destino.
È un film secco e pudico quello di Marco Tullio Giordana che mette mano (e cuore) su una delle pagine più tragiche della nostra storia recente. Come e insieme a Pasolini. Un delitto italiano, Romanzo di una strage è un film sulla morte, sulla morte al lavoro. Il regista milanese affronta una delle stragi più devastanti e destabilizzanti della nazione e vi cerca dentro il ‘senso’ della vita di Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi, assieme ai segni e alle tracce della nostra prematura morte civile. Perché in Piazza Fontana, sull’asfalto della questura di Milano e in Largo Cherubini non sono morti solo loro. In quella terra di nessuno della coscienza e della memoria sono caduti anche i sogni e le speranze degli anni Settanta.
Nella notte di Giordana, come in quella di Bellocchio, si muove la generazione che ha ucciso due padri e non è riuscita ad assumere e a fare propria la loro storia. Potenzialmente popolare, il cinema di Giordana prova ancora una volta a superare le rigidità ideologiche e a recuperare l’umanità del gesto, ricostruendo l’Italia di allora con scrupolo filologico (e giuridico) di grande rigore. Asciutto come un giallo ed essenziale come un courtroom drama, Romanzo di una strage dimostra con l’eloquenza dei fatti che non c’è stata giustizia e che la Legge dei tribunali si risolve troppo spesso in un’opera di rimozione.
Pronto a reinventare per il grande schermo paure e passioni, Giordana ribadisce la sua assoluta predilezione per il melodramma (lirico), di cui elude l’emotività iperbolica ma assume i ‘movimenti’ musicali. L’opera, che accompagna la narrazione ‘in atti’ e viene dichiarata ‘in scena’ da un burocrate, è l’ “Anna Bolena” di Gaetano Donizetti. Come la regina inglese, consorte ripudiata e ‘spinta’ alla morte da Enrico VIII, Pinelli e Calabresi sono figure autenticamente tragiche, profondamente maltrattate, profondamente dolenti eppure sempre dignitose e nobili. Abile a scardinare l’omertà e a rompere pesanti silenzi, il regista ‘esplora’ la materia drammatica di una nazione, guidando lo spettatore con assoluta empatia nella sofferenza di due uomini ostinati e contrari.
Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi hanno rispettivamente il volto di Pierfrancesco Favino e Valerio Mastandrea, sorprendenti nel sottrarsi al rischio corso da un attore chiamato a interpretare un personaggio reale. Nessuna mimesi o impudica spavalderia nelle loro performance, piuttosto frammenti, intuizioni, visioni parziali di quei corpi nel teatro di un delitto senza castigo. ‘Romanzato’ da Rulli e Petraglia e agito in pomeriggi declinanti e in interni da cui si esce in qualcosa che non sembra il mondo ma solo un altro interno, Romanzo di una strage semplifica, ‘interpreta’ e agevola (la comprensione di) una strage impunita.
Nell’assurda e crudele immodificabilità delle cose, a due mogli-madri (Licia Pinelli e Gemma Calabresi nell’interpretazione misurata e composta di Michela Cescon e Laura Chiatti) appartiene altrimenti lo smottamento di tenerezza, restituito con una sciarpa calda e una cravatta bianca.

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Piccole bugie tra amici

In programmazione: 08/11/2012

Descrizione

Dopo una notte brava in discoteca, Ludo ha un brutto incidente in moto e viene ricoverato d’urgenza in ospedale. I suoi migliori amici, dopo aver visto la gravità delle sue condizioni ma esser stati rassicurati dai medici sulle possibilità di recupero, decidono ugualmente di partire per l’annuale ritrovo a Cap Ferret. Là, Max, il più ricco ma anche il più pedante del gruppo, ha una villa dove tutte le estati invita gli amici di sempre a trascorrere qualche settimana fra vita di mare e gite in barca sull’oceano. La vacanza, anziché calmare gli animi, farà emergere tutte le nevrosi, le paure e le incomprensioni tenute nascoste da una vita.
Dal Grande freddo della generazione post-sessantottina di Lawrence Kasdan al caldo estivo della costa oceanica dei trenta-quarantenni parigini di oggi, le rimpatriate tra amici prevedono un programma puntuale come la giornata di un villaggio vacanze: segreti e bugie seguite da risate e lacrime al ritmo di una playlist dei brani più noti degli ultimi quarant’anni.
Prendendo ispirazione tanto dal nostalgismo agrodolce di Kasdan quanto dall’intimismo sentimentale di Claude Sautet, Piccole bugie tra amici si propone come una di quelle imprese corali in cui a un complesso processo di scrittura e di formazione dei caratteri deve corrispondere un gruppo di attori capaci di muovere i sentimenti e l’empatia degli spettatori. Da questo punto di vista, anche grazie all’impiego di tutti i migliori attori francesi della sua generazione, bisogna riconoscere che la commedia umana di Guillaume Canet raggiunge il suo scopo.
Rimane da notare a che prezzo. Al suo terzo film, Canet palesa definitivamente una sindrome ossessiva da enfant prodige: la sua capacità di dirigere (bellissimo il piano sequenza d’apertura sull’incidente) non riesce a contenere né a salvare le sue sconfinate ambizioni. Nel precedente Non dirlo a nessuno era una trama gialla ridicolmente complicata a sacrificare un thriller teso e ben confezionato; in Piccole bugie tra amici sono (ancor più colpevolmente per un genere come il melodramma) certi passaggi innaturali e drammaturgicamente grossolani a non dare giustizia ai suoi personaggi. Pignoli, cinici, omofobi, ninfomani, ossessivi, codardi: i suoi personaggi sono tutti vittime di un narcisismo egoista che Canet non si sente di condannare fino in fondo, ma che decide redimere e di tamponare solo a suon di fazzolettini ricattatori.
Così, se, in un certo senso, il personaggio che più dovrebbe somigliargli è quello dell’attore sciupafemmine Éric (Gilles Lellouche), in realtà finisce per comportarsi come il padrone di casa moralista Max (François Cluzet), invitando attori e spettatori ad assistere a una commedia umana in cui basta ridere e piangere a comando per salvarsi dall’egoismo di cui siamo (saremmo?) tutti colpevoli.

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