Uomini di Dio

In programmazione: 28/04/2011

Descrizione

1996 Algeria. Una comunità di monaci benedettini opera in un piccolo monastero in favore della popolazione locale aderendo all’antica regola dell'”Ora et Labora”. Il rispetto reciproco tra loro, che prestano anche assistenza medica, e la popolazione locale di fede musulmana è palpabile. Fino a quando la minaccia del terrorismo fondamentalista comincia a farsi pressante. Christian, l’abate eletto dalla comunità, decide di rifiutare la presenza dell’esercito a difesa del monastero non senza trovare qualche voce discorde tra i confratelli. Una notte un gruppo armato fa irruzione nel convento chiedendo che si vada ad assistere due terroristi feriti. Dinanzi al diniego vengono chieste medicine che vengono rifiutate perché scarse e necessarie per l’assistenza ai più deboli. Il gruppo abbandona il convento ma da quel momento il rischio per i monaci si fa evidente.
Xavier Beauvois porta sullo schermo il sacrificio di sette monaci francesi che nel marzo 1996 vennero sequestrati da un gruppo armato della Jihad islamica e le cui teste vennero ritrovate il 30 maggio di quello stesso anno. Documenti ritrovati di recente coinvolgono le forze armate algerine nel tragico esito finale del sequestro.
Non era facile trovare la cifra stilistica giusta per raccontare la vita e il progressivo avvicinarsi alla morte di questi religiosi facendoli restare degli uomini e non trasformandoli agiograficamente in martiri quali poi sarebbero divenuti. Beauvois, pur con una certa piattezza per quanto attiene al linguaggio cinematografico, ci è riuscito sul piano della sceneggiatura che ritma lo scorrere del tempo grazie al succedersi delle celebrazioni e delle preghiere e canti comunitari. A questi si alternano le vicende esterne e interne al luogo sacro con la messa in luce di tutte le convinzioni ma anche di tutte le incertezze e debolezze dei monaci. Il film riesce a far emergere al contempo le singole individualità così come la tenuta complessiva di un gruppo animato da una fede che non si trasforma in esclusione ma che vuole, fino all’ultimo, tradursi in atti di condivisione sia all’interno che all’esterno. In un mondo distratto dal succedersi di eccidi e manipolato da una propaganda che vuole assimilare Islam e terrorismo fondamentalista, ricordare questo sacrificio non significa riaccendere la polemica ma piuttosto il contrario. Uomini e dei possono incontrarsi, conoscersi e rispettarsi a vicenda. Nonostante tutto.

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Post mortem

In programmazione: 21/04/2011

Descrizione

Santiago del Cile, 1973. Mario Corneo lavora come funzionario presso l’obitorio. Trascrive a macchina le autopsie. Si innamora di una ballerina di cabaret, Nancy, sua vicina di casa. Ma sono i giorni del colpo di stato, l’obitorio si riempie di cadaveri, della casa e della famiglia di Nancy non rimangono tracce. La ragazza si nasconde nel cortile della casa di Mario, che le porta il cibo e le sigarette. Intanto, all’obitorio, i morti riempiono le sale, i corridoi, le scalinate dell’ospedale.
Il cileno Pablo Larrain dà nuovamente prova, dopo Tony Manero, di una capacità di racconto ammirabile, perché inedita ed efficace. Il protagonista è ancora Alfredo Castro, figura ambigua, tra obbedienza e umanità (rispetto alla tragedia in atto), sentimento e istinto (nel rapporto con Nancy, e fino all’epilogo), mondo dei vivi e terra dei morti. Un essere che appartiene da subito all’universo del Post Mortem che dà al film il titolo e diversi significati. La sua esistenza squallida, priva di qualsivoglia slancio vitale, si movimenta un giorno al contatto con la morte, scuotendo improvvisamente anche il film intero e ridisegnandone le coordinate. Quel giorno, infatti, sotto gli occhi di un gruppo schierato di uomini in divisa e sotto le mani del medico con cui lavora Mario, finisce il corpo del presidente Salvador Allende, il suo cervello bucato dal proiettile. D’un tratto, non è più una storia di vita ordinaria, ma un giorno straordinario, di morte. Il dopo sarebbe stato, a lungo, un traumatico post mortem.
L’idea del film nasce da un articolo letto su un giornale a proposito dell’uomo che fece, insieme con pochi altri, l’autopsia ad Allende e si ritrovò nella posizione (nel “ruolo”, di fatto) di anonimo protagonista della storia della nazione. L’ossimoro è piaciuto a Larrain, per la commistione di testimonianza, storia e finzione che portava potenzialmente con sé, per la poesia e l’assurdo. Com’è nel suo stile, il regista ha poi caricato: nel suo caso, una scena spoglia, negli arredi e nel dialogo, non vuol mai dire leggera e qui si parla di carichi pesantissimi, com’è pesante un corpo morto, moltiplicato per migliaia (nei 17 anni che Pinochet restò al potere). L’assurdo del mondo è tragico e sgradevole, come il finale del film, non fa sorridere, non (si) intenerisce.
Autore per stomaci forti, a 34 anni Larrain fa già del grande cinema, continuando ad inventare i modi del racconto e quelli dell’inquadratura. Superba, in questo senso, la scena della distruzione della casa di Nancy, che il vicino Mario riesce a non vedere né sentire, da sotto la doccia.

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Tamara Drewe

In programmazione: 14/04/2011

Descrizione

Tamare Drewe torna alla casa di campagna dove ha trascorso l’infanzia, in seguito alla morte della madre. Ha un nuovo naso, una rubrica su un quotidiano di Londra e un paio di gambe che non passano inosservate. Alle loro pendici cadono presto l’ex fidanzatino Andy, ora tuttofare presso un ameno ritiro per scrittori in cerca di calma e ispirazione, il famoso romanziere Nicholas Hardiment, che gestisce il suddetto posto con l’aiuto della moglie Beth, e la rockstar Ben Sergeant, che per Tam si trattiene in quel luogo ben oltre il tempo previsto per il concerto. A muovere le file tragicomiche del teatrino che da queste premesse si dipana, sono due ragazzine del luogo, Casey e Jody, rese folli dalla noia e dal fanatismo nei confronti del batterista.
A conti fatti, sono almeno una decina d’anni che Stephen Frears non sbaglia un film, pur spaziando tra ispirazioni molto diverse – le playlist dei vinilomani piuttosto che i business erotici di una vecchia dama o i cervi del parco della regina – e senza necessariamente sfiorare il capolavoro, che non pare affar suo. Due i punti fissi: lo schermo è innanzitutto il palcoscenico degli attori e la letteratura è un ottimo soggetto da rileggere attraverso l’obiettivo della macchina da presa. Ecco dunque Kureishi, Hornby, Doyle, Colette e ora l graphic novel di Posy Simmonds (edita in Italia da Nottetempo), uscita a puntate sul Guardian e liberamente e irriverentemente ispirata a “Via dalla pazza folla” di Thomas Hardy (a sua volta e a suo tempo pubblicazione seriale).
Il materiale non manca: un’eroina al centro di un conflitto di passioni attorno alla quale si colora il ritratto satirico della classe media inglese con velleità artistiche, tra invidia e imitazione, pavonerie e contraddizioni di comodo (la verità è il sale della buona letteratura o il bravo scrittore è un bugiardo nato?)
Usando le tavole originali come un vero e proprio storyboard e i personaggi di carta come modello per la scelta degli attori, Frears e Moira Buffini (alla sceneggiatura) si cimentano con risultati brillanti nell’operazione di aggiungere realismo senza perdere di humor. La quotidianità dell’assurdo e le piccole malignità che assicurano l’umana sopravvivenza, insieme allo smantellamento del mito della genuinità e della pietà rurale, sono i registri azzeccati su cui si muove questa commedia mezza rosa e mezza nera, che ha nel cuore un ricordo inconfessato (e irraggiungibile) di Shakespeare a colazione, nel motore una marcia in più di tutta l’ultima produzione di Woody Allen e un debito innegabile verso un cast in formissima.

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Another year

In programmazione: 07/04/2011

Descrizione

Lo scorrere delle stagioni di un anno accompagna la vita di un gruppo di personaggi. Gerri, psicologa e Tom, geologo, sono sposati da decenni e hanno un figlio avvocato, il trentenne Joe che conduce vita indipendente ma non ha ancora una compagna. Gerri e Tom ospitano spesso Mary, segretaria nella clinica in cui lavora Gerri sempre in cerca di un uomo col quale condividere le proprie tensioni. A loro si aggiungerà Ken, vecchio amico di Tom e ora spesso ubriaco. In autunno Joe porterà un sorpresa che i genitori troveranno molto piacevole: Katie, una terapista occupazionale di cui si è innamorato ricambiato. L’inverno una morte improvvisa colpirà la famiglia.
Mike Leigh, dopo la variazione sul tema di Happy Go Lucky torna ai suoi soggetti preferiti: le persone (non i personaggi si badi bene) colte nel loro quotidiano con i piccoli/grandi problemi del vivere e con le piccole/grandi gioie (i pomodori coltivati nell’orto fuori città). Leigh è innanzitutto un grande sceneggiatore. Non c’è uno dei suoi caratteri che pronunci frasi che suonino false ma quello che soprattutto resta intatto nel suo fare cinema è la pietas nei confronti delle persone che ritrae in frammenti di vita in cui ci si può in tutto o in parte riconoscere anche se si vive a latitudini diverse. Sia chiaro che non si tratta di ‘pietismo’. I suoi protagonisti non si piangono addosso. Vivono le loro contraddizioni, ne soffrono, Leigh ci mostra le loro lacrime ma anche i loro sorrisi senza pretendere nè di fare della facile psicologia nè, in questo caso, di analizzare uno spaccato sociale particolarmente definito.

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Noi credevamo

In programmazione: 30/03/2011

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Tre ragazzi del sud (Domenico, Angelo e Salvatore) reagiscono alla pesante repressione borbonica dei moti del 1828 che ha coinvolto le loro famiglie affiliandosi alla Giovane Italia. Attraverso quattro episodi che li vedono a vario titolo coinvolti vengono ripercorse alcune vicende del processo che ha portato all’Unità d’Italia. A partire dall’arrivo nel circolo di Cristina Belgioioso a Parigi e al fallimento del tentativo di uccidere Carlo Alberto nonché all’insuccesso dei moti savoiardi del 1834. Questi eventi porteranno i tre a dividersi. Angelo e Domenico, di origine nobiliare, sceglieranno un percorso diverso da quello di Salvatore, popolano che verrà addirittura accusato da Angelo (ormai votato all’azione violenta ed esemplare) di essere un traditore della causa. Sarà con lo sguardo di Domenico che osserveremo gli esiti di quel processo storico che chiamiamo Risorgimento.
Assistendo al lungo film di Martone che ha l’andamento classico di quelli che un tempo si chiamavano sceneggiati televisivi (senza che in questa annotazione ci sia alcunché di riduttivo) si ha la sensazione di un deja vu. Perché il cinema italiano non scopre certo con Noi credevamo i lati oscuri e le contraddizioni del Risorgimento. Chi ricorda opere come Allonsanfan, Quanto è bello lu murire acciso o Bronte sa che in materia ci si è già espressi con opere di assoluto vigore. E’ però vero che l’occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia e il revisionismo storico dominante (che vede il Risorgimento come una sciagura per il Nord) quasi impongono una rivisitazione del tema che Martone mette in scena con accuratezza filologica (anche se restano misteriose alcune strutture in cemento armato) e con un’attenzione iconografica da sussidiario degli anni Sessanta (con un Mazzini già vecchio nel 1830 quando aveva venticinque anni). L’idea di seguire le vicende (in parte storiche e in parte frutto di immaginazione) dei tre protagonisti che accompagnano lo spettatore nella non semplice articolazione delle posizioni che vedevano contrapposti i fautori dell’unità può senz’altro essere efficace se distribuita televisivamente in due serate.
Lo è meno se si pensa a un’opera della durata di tre ore e mezza circa. Perché si finisce con il disperdersi nella pur acuta e documentata ricostruzione. Resta comunque viva, oltre alla consapevolezza di trovarsi dinanzi a un’opera non di occasione e sicuramente non celebrativa, la sensazione di una coazione a ripetere della politica italiana.
Oltre alla divisione in due fronti (all’epoca repubblicani e monarchici con tanto di trasmigrazioni da un fronte all’altro) emerge con assoluta chiarezza la quasi genetica incapacità a fare fronte comune, la spinta inarrestabile a dividersi a diffidare gli uni degli altri all’interno dello stesso schieramento. La lettura con uno sguardo che ha origine al sud ribalta poi le tesi leghiste senza essere nostalgica della dominazione borbonica ma non nascondendosi le problematiche lasciate irrisolte da una fase storica di cui il popolo, come spesso accade, ha finito con l’essere più spettatore o oggetto che non protagonista in grado di decidere del proprio futuro. Il Parlamento vuoto in cui un determinato e non conciliante Crispi pronuncia il suo discorso marca simbolicamente la morte di un’utopia.

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Carosello napoletano

In programmazione: 24/03/2011

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Salvatore Esposito (Paolo Stoppa), un cantastorie sfrattato, se ne va in giro per Napoli con la sua numerosa famiglia tirando un carretto che contiene tutte le sue cose. Questo è il filo conduttore che lega gli episodi del film, una sorta di rievocazione in chiave musicale della tormentata storia della città attraverso i secoli, dalle dominazioni francesi e spagnole, a quelle inglesi e americane.
Versione cinematografica dell’opera teatrale Carosello napoletano, presentata per la prima volta, a Firenze il 14 aprile 1950 al Teatro La Pergola, successivamente al Teatro Quirino di Roma, e portata anche all’estero con notevole successo.

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Affetti e dispetti (la nana)

In programmazione: 17/03/2011

Descrizione

Raquel è l’introversa e bizzosa domestica dei Valdés, una famiglia benestante che da vent’anni occupa tutti i suoi pensieri fino all’emicrania. E sono proprio le sue dolorose e frequenti cefalee a preoccupare la padrona di casa, che ritiene opportuno affiancarle una seconda cameriera. Convinta che il provvedimento della signora Valdés possa minacciare il suo ruolo e il suo regno domestico-affettivo, Raquel si accanisce sulle ignare aspiranti, intralciandone il lavoro e chiudendole letteralmente fuori dalla porta e dalla vita dei “suoi cari”. Ricoverata in ospedale dopo un collasso fisico ed emotivo, viene provvisoriamente rimpiazzata da Lucy, una giovane donna esuberante che non tarderà a farsi amare dai Valdés. L’offensiva della domestica storica non risparmierà nemmeno la nuova arrivata, che metterà in atto però un inedito quanto efficace contrattacco. Approvata e infine accreditata, Lucy vincerà il cuore di Raquel, rivelandone la dolcezza e muovendola alla vita.
Opera seconda e “a colori” di Sebastián Silva, Affetti & dispetti è una commedia domestica centrata sulla famiglia, valore centrale e formidabile collante sociale per i popoli latini, e colma di emozioni finemente descritte. Dopo il debutto in bianco e nero (La Vida me Mata), il regista cileno racconta il suo paese e la sua giovane democrazia attraverso i vincoli affettivi e di classe dei protagonisti. La dinamica, almeno quella di partenza, è quella classica padrona-serva: Pilar Valdés è la madre borghese e colta di quattro figli che coniuga lavoro e famiglia dentro la sua lussuosa villa, Raquel è la sua domestica da due decenni, ne ha cresciuto i figli e con il suo proletario senso pratico fa fronte alle faccende casalinghe. La prima parte del film documenta allora le tappe di questa relazione e il vincolo di necessità ma pure di affetto sincero che tanti anni di convivenza hanno instaurato tra le due donne. Inibita e chiusa al mondo e alle persone, la Raquel ordinaria e straordinaria di Catalina Saavedra (premiata al Sundance e blasonata al Torino Film Festival) è sullo schermo una presenza misurata ma non meno capace di suscitare sfumature di intenso sentimento. Caduta in uno stato di profonda depressione, cui cerca di far fronte nel modo a lei più congeniale, riordinando la cucina, rigovernando le stanze da letto e disinfettando i servizi, “la nana” recupererà la condizione fisica e il valore dei rapporti umani nella seconda metà del film e nel confronto con la nuova domestica.
Sarà lei a vedere chiaramente oltre l’intrattabilità, lei a interrogare la rassegnazione di una vita tribolata, lei, ancora, ad invitare la collega e l’amica ad amare di nuovo, a conoscere altri suoni, altri odori, altri corpi, altri amici, altre famiglie. Affetti & dispetti è una commedia di costume che ha i suoi momenti più interessanti negli spazi chiusi ma che si risolve e risolve la protagonista scorrendo all’esterno, dove la vita di Raquel riprende letteralmente a correre.

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Cosa voglio di più

In programmazione: 10/03/2011

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Anna ha una vita come tante altre. Ha un buon lavoro in cui è apprezzata e ha un compagno da qualche anno, Alessio, che l’ama e con cui conduce un menage tranquillo al punto di poter accarezzare l’idea di smettere di prendere la pillola e avere un figlio. Un giorno però a una festa incontra un cameriere, Domenico. Lo rivede perché è venuto a recuperare un coltello dimenticato e da quel momento per entrambi il desiderio non è più contenibile. Domenico è sposato e ha due figli piccoli. Non c’è un posto in cui i due possano incontrarsi liberamente e allora la scelta obbligata diventa il motel. Per due ore, la sera del mercoledì quando lui dovrebbe essere in piscina per un corso da subacqueo. Fare equilibrio tra passione e vita di tutti i giorni non è però un’impresa facile.
Silvio Soldini torna ad affrontare il tema delle relazioni uomo-donna con coerenza anche se apparentemente ribaltando la prospettiva rispetto al precedente Giorni e nuvole . In quel caso il contesto economico-sociale era evidenziato sin dall’inizio con la perdita del lavoro mentre qui emerge pian piano. L’amore al calor bianco che travolge Anna e Domenico (e con loro, anche se in maniere diverse, anche i reciproci contesti familiari) non interessa al regista e agli sceneggiatori di per sé (sarebbe una storia già ultra nota) ma contestualizzato in un mondo in cui le certezze di un tempo sono state messe profondamente in crisi.
Anna e Domenico non possono astrarsene nel loro rifugio con specchi del motel. I corpi che si sono donati reciproco piacere credendo di poter chiudere il mondo fuori in realtà lo hanno portato con sé (e lo faranno anche se lontani fisicamente da quella Milano in cui Soldini torna a girare dopo lunga assenza). La macchina da presa li segue e li comprende così come comprende Alessio nella sua tenace difesa del rapporto con Anna barricato dietro un quieto e determinato non voler sapere. Comprende anche Miriam, la moglie di Domenico, incapace invece di chiudere gli occhi dinanzi all’evidenza e in costante, quotidiana lotta contro la precarietà economica.
E’ uno sguardo in ricerca quello di Soldini e il suo cinema si rivela, come un sismografo dei sentimenti, capace di registrare le scosse dirompenti così come i più piccoli sussulti, magari provocati da un rumore fuori campo. Perché fare del bene a se stessi, come Anna e Domenico vorrebbero, senza fare del male agli altri (ciò che si desidererebbe restasse fuori campo) è una delle imprese più difficili da compiere.

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Oltre le regole

In programmazione: 03/03/2011

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Il sergente William Montgomery soffre ancora dei postumi di una ferita vicino a un occhio riportata in Iraq. Rientrato in patria riceve un nuovo incarico: insieme al Capitano Tony Stone dovrà occuparsi delle visite che vengono assegnate al Casualty Notification Office. Sono i graduati che debbono recarsi presso le famiglie tempestivamente per fare in modo che ricevano la comunicazione del decesso di un congiunto in guerra prima che questo divenga di pubblico dominio. I due iniziano la loro attività trovandosi dinanzi alle reazioni più diverse: c’è chi esplode in crisi di pianto e chi li aggredisce accusandoli di vigliaccheria. Mentre tra loro il rapporto si dimostra difficile Will, che ha una relazione viziata da troppe reticenze, si trova ad annunciare la morte del marito ad Olivia Pitterson e coglie nella donna i tratti di un sentire di cui ha profondamente bisogno.
L’Iraq, ancor più del Vietnam, deve avvalersi del cinema per cauterizzare ferite profonde. La guerra nel Sudest asiatico aveva radici profonde ed era figlia di una progressione a cui neppure il ‘mito’ Kennedy risulta estraneo. In Iraq non è andata allo stesso modo: si è deliberatamente scelto un obiettivo, si sono costruite false prove e si è proceduto all’arruolamento di giovani della parte più bisognosa del Paese che poteva trovare nell’esercito una fonte di sostentamento e di speranza nell’edificazione di un futuro.
Questa opera prima dello sceneggiatore di Io non sono qui si inscrive a buon diritto nel filone aperto da Francis Ford Coppola con Giardini di pietra . All’epoca per la prima volta un regista liberal ci consentiva di leggere la ‘sporca guerra’ dal punto di vista di chi addestrava i giovani soldati per vederli poi tornare in una bara avvolta dalla bandiera a stelle e strisce. Oggi l’israeliano Moverman, che ha conosciuto direttamente per 4 anni la vita militare nel suo paese d’origine, porta sullo schermo il dolore della perdita priva di senso di una vita vista dal punto di vista di chi deve seguire un rigido protocollo per portare l’annuncio.
Will e Tony sono affini (la divisa dovrebbe renderli tali) e al contempo distanti. Mentre il primo si porta dentro le ferite aperte della campagna irachena l’altro si trincera dietro un cinismo irrigidito dalle regole da rispettare sempre e comunque. Ma Will ha forse guadagnato dall’esperienza recente il barlume di una ricerca di umanità nel contatto con il prossimo che l’altro sembra (forse solo sembra) aver sepolto nel profondo di se stesso. L’incontro con una donna che conosce la responsabilità di edificare il futuro per una nuova innocente generazione fungerà da punto di non ritorno.

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I gatti persiani

In programmazione: 24/02/2011

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Un ragazzo e una ragazza che hanno già avuto dei guai con la giustizia iraniana decidono, una volta usciiti di prigione, di formare una band rock. Si tratta di un’attività proibita dal regime e i due debbono cercare gli altri componenti cercando di non farsi scoprire. Al contempo iniziano a pianificare la fuga dal Paese che li opprime attraverso l’acquisto di passaporti falsi. Questo consentirebbe loro di avere anche la speranza di poter suonare in Europa. Ma i documenti costano cari e il rischio che la polizia interrompa brutalmente la loro attività si fa sempre più forte.
Ci sono film che hanno un valore di denuncia che va al di là della loro qualità artistica. Ci sono film poi che invece conservano un loro stile al di là del messaggio che intendono veicolare. Quello di Barman Ghobadi si colloca nella seconda categoria. Chi ha in mente il cinema iraniano fatto di lande desolate, scene ripetitive, tempi morti sul piano narrativo (fatti salvi i capolavori di pochi maestri come Abbas Kiarostami) qui ha l’occasione per respirare un’aria nuova. Con grande coraggio e rischiando personalmente Ghobadi ha girato un film senza autorizzazione, è riuscito a realizzare riprese in esterni talvolta corrompendo agenti con l’offerta di dvd ‘proibiti’ (compresi quelli dei suoi film precedenti) ed ha così potuto offrirci il ritratto di un Teheran nascosta in cui i giovani cercano di resistere come possono a un regime teocratico in cui il divieto di qualsiasi forma di espressione non allineata viene represso. Non è un caso che alla sceneggiatura abbia partecipato la compagna del regista, la giornalista di origine americana Roxana Saberi.
Costei, arrestata con il pretesto di un’accusa di spionaggio, è stata liberata esattamente due giorni prima della proiezione del film a Cannes. Il regime ha capito che, in caso contrario, la cassa di risonanza mediatica sarebbe stata troppo forte e che gli echi sarebbero stati colti da quella ‘pericolosa opposizione’ costituita dai giovani che vogliono esprimersi anche con la musica. Perché i gatti persiani possono essere costretti ad apparire come animali da salotto. Ma non bisogna dimenticare che possono (e un giorno lo faranno) sfoderare le unghie. Nel frattempo Ghobadi ha dovuto autoesiliarsi.

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Le quattro volte

In programmazione: 17/02/2011

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Un vecchio pastore ammalato conduce con fatica le sue capre al pascolo sui monti della Calabria. La cura che ogni sera beve è data da della terra argillosa che una donna gli consegna nella sacrestia della chiesa dopo averla benedetta e incartata in una striscia di giornale. Una capretta nasce e con fatica muove i suoi primi passi nella vita. Una sacra rappresentazione della Passione di Cristo percorre la via centrale del paese; Un albero della cuccagna viene issato. Il tempo scorre.
Michelangelo Frammartino, a sette anni di distanza da Il dono , torna a leggere e a proporci il volto antico della Calabria. Lo fa con il pudore di uno sguardo che osserva una realtà in parte senza tempo con il desiderio non di proporla retoricamente come modello ma con la voglia di preservare una memoria che rischia di scomparire. L’anziano pastore che si cura con una pozione di terra benedetta la tosse che gli devasta i polmoni non è presentato come un pazzo ignorante. Lo seguiamo invece con affetto condividendone le fatiche quotidiane.
È un cinema sicuramente debitore nei confronti di Piavoli quello di Frammartino soprattutto quando si immerge nella Natura ancora incontaminata dei monti calabri. Sembra quindi quasi di compiere un sacrilegio quando, dinanzi a tanta pulizia e profondità estetica e a una così alta sensibilità di osservazione nasce un quesito. Ci si chiede cioè se in questo mondo arcaico la modernità si sia fermata ai mezzi di trasporto e se, olmianamente, il tempo si sia fermato non consentendo l’arrivo non diciamo di Internet ma del più accessibile dei media: la televisione.

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Incontrerai uno sconosciuto alto e bruno

In programmazione: 10/02/2011

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Alfie ha lasciato la moglie Helena perchè, colto da improvvisa paura della propria senilità, ha deciso di cambiare vita. Ha iniziato così una relazione (divenuta matrimonio) con una call girl piuttosto vistosa, Charmaine. Helena ha cercato di porre rimedio alla propria improvvisa disperata solitudine cercando prima consiglio da uno psicologo e poi affidandosi completamente alle ‘cure’ di una sedicente maga capace di predire il futuro. La loro figlia Sally intanto deve affrontare un matrimonio che non funziona più visto che il marito Roy, dopo aver scritto un romanzo di successo, non è più riuscito ad ottenere un esito che lo soddisfi. Sally ora lavora a stretto contatto con un gallerista, Greg, che comincia a piacerle non solo sul piano professionale…
Woody ha preso nuovamente l’aereo ed è tornato in Gran Bretagna dopo che era tornato a respirare aria di Manhattan con Basta che funzioni. Nonostante l’aspetto sempre più fragile, Allen ha ormai le spalle più che larghe per sopportare l’ennesima, ripetitiva reprimenda critica: “Racconta sempre le stesse cose”. È vero: Woody non si inventa novità senili per stupire il pubblico. Anzi qui, fingendo di appellarsi allo Shakespeare del “Macbeth” in realtà si riallaccia al finale di uno dei suoi film più ispirati, Ombre e nebbia, che si chiudeva con la frase: “L’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira”. Sono trascorsi quasi vent’anni da allora e, in materia, Allen sembra essersi ormai arreso all’evidenza: è proprio (e sempre di più) così.
Come in Tutti dicono I Love You (ma con l’esclusione dell’adolescenza) le diverse età si confrontano con un bisogno di qualcosa che esemplificano con la parola ‘amore’ ma di cui, se richiesti, non saprebbero dire il significato. Non potendo sfuggire a questa esigenza ognuno cerca di trovare delle soluzioni che finiscono con il rivelarsi aleatorie e provvisorie anche se ognuno, in cuor suo, vorrebbe che fossero ‘per sempre’. Ma il ‘per sempre’ non esiste nell’universo alleniano. Ognuno cerca di porre rimedio alla propria solitudine come può e come sa e non ha neppure bisogno di essere perdonato per questo.
L’umanità non può comportarsi altrimenti. Ciò che invece va duramente punito è il furto intellettuale, l’appropriarsi di idee altrui spacciandole per proprie, perseguire il successo a spese degli altri. In questo caso Woody diventa un giudice implacabile. Sarà anche vero che ritorna su propri temi. Ma sono ‘suoi’ per stile, qualità, leggerezza e profondità.

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Vincitori e vinti

In programmazione: 03/02/2011

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Scritto da Abby Mann che adattò un suo teledramma, il film ricostruisce in chiave romanzesca il processo di Norimberga del 1948 contro i criminali di guerra nazisti. Questa verbosa maratona giudiziaria è, forse, il più compatto e armonioso film del produttore-regista Kramer, e un tipico frutto culturale della presidenza di J.F. Kennedy. Saggio di oratoria democratica ad alto livello, è affidato a un all star cast nel quale bisogna segnalare i brevi e intensi interventi di J. Garland e M. Clift. 8 nomination ai premi Oscar e 2 statuette, una per lo sceneggiatore Abby Mann e l’altra a M. Schell.

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Il tempo che ci rimane

In programmazione: 27/01/2011

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Una riflessione in quattro parti sulla storia degli arabi palestinesi a partire dal 1948, anno della proclamazione dello Stato di Israele, sino ai giorni nostri. Viene raccontata attraverso episodi comici o tragici della vita di tutti i giorni ed è ispirata ai racconti del padre del regista, che partecipò alla prima resistenza, alle lettere della madre e ai ricordi del regista stesso che è in parte anche protagonista del film.
Elia Suleimane, che con Intervento divino nel 2002 portò il primo film palestinese ad approdare in competizione a Cannes vincendo il Premio della Giuria e quello della Fipresci, sette anni dopo vi ha fatto ritorno con questa riflessione personale sulla condizione dei Palestinesi. Si tratta, ovviamente, di un film schierato che non si preoccupa di essere politicamente corretto. Anche perché, in quei territori e in quelle situazioni, esserlo non è così semplice. Suleimane però ha il grande pregio dell’astrazione. Il suo punto di riferimento cinematografico è l’inarrivabile genio di Buster Keaton. Così il regista, nato a Nazareth nel 1960, è capace di portare sullo schermo il gag di un combattente che ha perso la strada così come un suicidio (non kamikaze) dimostrativo, con un distacco che aggiunge, anziché togliere, forza alle immagini. Di queste tre, in particolare, restano impresse nella mente. La più fortemente evocativa è quella di Suleimane che, con un’asta da competizione per il salto in alto, riesce a superare il Muro eretto dagli israeliani. La più speranzosamente astratta è quella in cui gli occupanti di una jeep israeliana, che intendono far rispettare il coprifuoco a Ramallah, finiscono col far ondeggiare le teste allo stesso ritmo dei ragazzi palestinesi che, in una discoteca, non sentono i loro annunci. L’immagine invece più commovente è quella della suora cattolica la quale, dinanzi a un’azione violenta degli israeliani, sembra inizialmente cercare rifugio in convento. La vediamo invece tornare tra i prigionieri inginocchiati, legati e bendati per portare loro il ristoro di un sorso d’acqua. È la testimonianza che essere arabi e schierati non significa necessariamente, come troppi vorrebbero pretestuosamente farci credere, essere integralisti.

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Nord

In programmazione: 20/01/2011

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Ormai ritiratosi in solitudine a lavorare come guardia di un parco sciistico, Jomar scopre di essere il padre di un bambino nato nell’estremo Nord del paese e quindi sceglie di partire in viaggio attraverso la Norvegia. Mezzo utilizzato una motoslitta, uniche provviste cinque litri d’alcol.
Che sia per un’iniziazione di qualche genere o per riallacciare dei rapporti da troppo tempo (e magari bruscamente) interrotti, quella del road movie è una delle formule più antiche e consolidate del cinema, dove il viaggio rappresenta l’occasione per l’incontro fugace, casuale, ma spesso cruciale, con degli sconosciuti.
Nord non fa nulla per uscire da questo canovaccio, non ci prova nemmeno, ma funziona ugualmente, forse per l’umiltà ossequiosa con cui lo ripropone o forse per la colonna sonora country dei Motorpsycho in versione International Tussler Society o forse ancora per come indugia sugli sguardi diffidenti e carichi di solitudine di questi norvegesi sparsi tra i ghiacci del nord. Anche topoi di per sé abusati come l’incendio della casa che Jomar abbandona o altri eventi che simboleggiano un taglio netto con il passato riescono a rientrare nel contesto dimesso del film senza appesantire la narrazione.
Jomar incontra (pochi) esseri umani durante il suo viaggio: per alcuni di loro l’isolamento è una scelta, per altri una necessità con cui convivere, per tutti significa estraniarsi inevitabilmente dalla società e crearsi un proprio mondo parallelo, con delle sue bizzarre regole e con dei suoi ancor più bizzarri passatempi.
Sono proprio questi nuclei di personaggi borderline, tappe senzienti del viaggio di Jomar, a risultare i veri protagonisti di un delizioso ed eccentrico snow trail movie.

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20 sigarette

In programmazione: 13/01/2011

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Senza un lavoro fisso e disoccupato sentimentalmente, Aureliano Amadei sogna il cinema. Per il momento è un giovane filmaker vicino agli interessi dei centri sociali e lontano dalle responsabilità da adulto. Quando il cineasta Stefano Rolla gli propone il ruolo di assistente per un film da girare in Iraq, accetta la proposta, prepara frettolosamente i bagagli e si avvia a intraprendere la sua personale missione. Caso e sfortuna decidono il suo destino: il 12 novembre 2003 si troverà vittima dell’attentato terroristico di Nasiriyya. Rimarrà ferito ma abbastanza vivo da tornare in Italia per raccontare la sua storia.
Accettare che un ragazzo qualsiasi, dagli ideali ingenui e dallo sguardo scanzonato, sia coinvolto in un attacco terroristico, ci costringe a riflettere sul senso della missione italiana in Iraq. Non serve essere pacifisti per pensare che in quello strano mescolamento di disciplina militare dell’esercito e anarchia ideale di un aspirante artista sia accaduto qualcosa di indegno. La storia è vera; è talmente sentita che la regia risponde perfettamente alle esigenze di realismo dell’autore. Il tremolio delle riprese a camera a mano e l’immedesimazione costrittiva della soggettiva – scelta azzardata ma efficace – sono gli strumenti visivi adatti a restituire la tragicità del soggetto. Il risultato sorprende perchè la scelta rende corporee scene di rara crudeltà, evitando con intelligenza il rischio della retorica spettacolare tipica del piccolo schermo, così presente nei servizi giornalistici o nel finto cordoglio politico. Il legame emotivo tra spettatore e regista non si appoggia su banali trucchi di sceneggiatura ma è il risultato di un lavoro onesto che fa vibrare le corde dell’anima. E malgrado qualche chiarificazione di troppo, che si avvicina ad un’affettata didascalia da manuale (lo scontro con i militari in ospedale o la presentazione finale del libro), il film scorre sulla linea di un realismo ostinato che distrugge gli appigli di buonismo e propone l’annullamento della guerra in nome di una pace fatta, sì di contrasti, ma più vicina alla dignità delle persone.
La colonna sonora di Louis Siciliano accompagna l’andamento narrativo con un’accurata sovrapposizione di forma e contenuto: musiche smaliziate per la vita in centro sociale e ritmi più serrati e angoscianti per quella al campo militare. Le venti sigarette del titolo, fumate con disinvoltura dal convincente Vinicio Marchioni, bruciano lo scorrere del tempo. E insieme al fumo, mozzicone dopo mozzicone, prende corpo una consapevolezza rara che dimostra l’inutilità di un militarismo sfrenato. Riflessione scontata? Forse. Ma drammaticamente indispensabile.

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Departures

In programmazione: 16/12/2010

Descrizione

Dopo lo scoglimento dell’orchestra, il violoncellista Daigo (Motoki Masahiro) rimane senza lavoro e decide di ritornare al paese d’origine. Assieme alla moglie Mika (Hirosue Ryoko), docile e mansueta come poche, si trasferisce nella sua vecchia casa in campagna alle porte di Yamagata. Qui comincia a cercare lavoro e si imbatte in un annuncio interessante, raggiunge l’agenzia e scopre che i viaggi dell’inserzione non sono vacanze alle Maldive ma dipartite nel mondo dell’aldilà. Titubante all’inizio, si lascia convincere dagli insegnamenti del capo, il becchino Sasaki (Yamazaki Tsutomu), e ritrova il sorriso perso da tempo. Quando la moglie scopre l’identità del suo nuovo mestiere, scappa di casa e lo abbandona solo in paese, dove in molti cominciano a snobbarlo. Ma il destino sta nuovamente per sorprenderlo, costringendolo a fare i conti con il passato, la morte della madre e l’allontanamento precoce del padre, fuggito chissà dove e mai più rivisto.
Il rito della deposizione – la cura del nokanshi – è una tradizione giapponese, un modo prezioso per dare l’estremo saluto alla persona deceduta: la pulizia del corpo, il trucco sul viso e la vestizione sono le ultime simboliche carezze fatte alla persona cara, prima di lasciarla andar via per sempre. Quando Daigo legge l’annuncio sul giornale, viene sedotto dalla parola ‘partenze’ e crede di candidarsi per un lavoro in un’agenzia di viaggi. In quel gioco equivoco di significati metaforici è racchiuso il segreto del film: la morte è un commiato, più che un semplice passaggio in un mondo altro e sconosciuto. In questo senso, il rito di nokanshi rappresenta la necessità di prepararsi alla dipartita, creando una liturgia laica, utile soprattutto a chi rimane, per impossessarsi dell’ultima delicata riconciliazione con il defunto. I vecchi rancori vengono messi da parte e la voglia di pace trova il giusto spazio e il modo per esprimersi. Il laconico capo Sasaki, interpretato con grande intensità dal raffinato attore Yamazaki Tsutomu, già alle prese con la celebrazione delle esequie in The Funeral di Juzo Itami, scardina la qualificazione macabra e tetra che solitamente accompagna il mestiere di becchino per sostituirla con una cerimonia rispettosa che, in composto e discreto silenzio, dice molto più di lunghe prediche sacerdotali.
Il rapporto con un padre assente, l’amore incondizionato per la figura materna e la difesa del valore poetico della vita sono i temi che ritmano il raggiungimento della maturità di Daigo. Il protagonista conosce così i suoi limiti, accetta di non essere un musicista talentuoso, abbandona le vecchie abitudini e scopre un’incredibile vocazione per l’arte della sepoltura. La sua rinascita spirituale supera le convenzioni sociali, e lo mette di fronte alla drammaticità della morte, in un equilibrio di tragedia compassionevole e umorismo grottesco. L’espressività del volto di Daigo, arrabbiato, sereno, disgustato e perplesso, racconta allo spettatore le fasi di accettazione della fine, intesa come corrispondenza di arrivo e partenza.
Malgrado poi la sceneggiatura scelga di sottolineare i passaggi con simbolismi semplici, un po’ troppo esplicativi e chiarificatori, come la pietra regalata dal genitore che ritorna puntualmente ad ogni risoluzione di conflitti (tra padre e figlio, tra moglie e marito), il film ci accompagna per mano in un viaggio fatto di dignità e rispetto. Senza virtuosismi di macchina o eccessi estetizzanti, ci lascia, alla fine, con una conquista in più, raccontandoci emozioni e sentimenti a misura d’uomo.

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Fratellanza

In programmazione: 09/12/2010

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I neonazisti sono uguali in tutto il mondo, così anche in Danimarca fanno raid notturni per menare immigrati (in questo caso pakistani) o omosessuali, rileggono la storia della seconda guerra mondiale, hanno riti di iniziazione e nelle sfere più alte dei movimenti cercano di reclutare gli elementi più furbi tra le file degli insoddisfatti della società con affabili parole. Trovano così Lars, militare radiato per accuse di omosessualità che non ama gli extracomunitari ma nemmeno i nazi, loro però lo convincono, lo prendono tra le loro fila e lui si innamora di uno di loro scoprendone il lato gay. Gli amici ovviamente non gradiranno la scoperta.
Come sempre in questi casi si tratta di una storia di violenza, di miseria e in ultima analisi di uno stile di vita senza scampo. Brotherhood colpisce duro lo spettatore ma solo superficialmente mostrandogli un sentimento che fiorisce tra le rocce e poi distruggendo la possibile felicità dei protagonisti, mostrando una possibile redenzione da un abisso e poi lasciando che il male in un certo senso abbia la sua rivincita. Tutto già visto in un meccanismo risaputo che però vuole essere originale.
Tirare in ballo tematiche come quelle neonaziste, sulle quali la quasi totalità del pubblico è già d’accordo può essere un’arma a doppio taglio, poiché è molto facile fornire agli spettatori solo conferme di quello che già pensano, cavalcare i loro desideri espliciti (che qualcuno tenti di rompere la catena di violenza insensata) e impliciti (che il film trovi delle impennate drammatiche) però a questo dovrebbe anche corrispondere un’idea davvero originale che differenzi questo film dalla restante moltitudine di opere sullo stesso tema.
Gli estremisti di destra sembrano personaggi marginali presi da altri film o dall’immaginario collettivo, sono figure piatte e incomprensibili che è possibile solo condannare senza appello. L’ideologia aberrante non dovrebbe essere una scusa per non tentare di capire gli uomini che si celano dietro atti così ignobili. In Brotherhood invece solo chi si distacca dall’ideologia sembra avere veri sentimenti, gli altri sono solo figurine, ma anche per quei pochi fortunati il destino è di un trattamento noioso e prevedibile nelle sue svolte.

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Il padre dei miei figli

In programmazione: 02/12/2010

Descrizione

Gregoire Canvel ha tutto. Una donna che lo ama, tre figlie deliziose, un mestiere che lo appassiona. Fa il produttore cinematografico e al suo lavoro dedica tutto il tempo e le energie. La famiglia ne risente ma lo comprende. Ha carisma, Grégoire. Ha prodotto tanti film, preso molti rischi e accumulato debiti. La sua Moon Film è sull’orlo del fallimento. Lui resiste ad ogni costo ma lo scacco è evidente, il danno irreparabile. Spalle al muro, sceglie di uscire di scena con un gesto estremo e nessuna spiegazione. Agli altri, ancora una volta, il compito di capire.
Al secondo lungometraggio, dopo Tout est pardonné, Mia Hansen-Løve, classe 1981, un passato da attrice per Assayas e un’esperienza di scrittura ai Cahiers, racconta una figura umana, quella di Humbert Balsan, produttore illuminato, suicida nel 2005. La sua conoscenza di Balsan non è tale da obbligarla alla fedeltà, per cui la regista inventa, immagina, a partire da alcune impressioni (la moglie nel suo studio, il giorno dopo la tragedia) e da una contraddizione di forte impatto tra la vitalità del soggetto in questione e il suo atto mortifero.
Ne esce un film sul mondo del cinema indipendente, estremamente preciso nell’affresco, che esclude ogni vaghezza. In particolar modo, un film su ciò che precede l’inizio delle riprese: l’innamoramento per il copione, la decisione di farlo, i tentativi di farlo crescere nelle migliori condizioni possibili, secondo il desiderio del regista. Quasi il regista fosse una madre e il produttore un padre, che deve trovare i soldi, garantire l’esistenza del figlio; non si prenderà il merito dell’esito artistico ma avrà accresciuto la sua famiglia. Il titolo, d’altronde, parla senza mezzi termini: Il padre dei miei figli sta per l’uomo che ha reso possibile i film della regista (fu il primo a credere nel suo lungometraggio d’esordio) e non solo i suoi.
Dal punto di vista formale il film tenta movimenti interessanti, dedicando all’iper presenza del protagonista la prima ora di film e alla sua assenza l’ora che resta e passando il testimone con grande fluidità dall’uomo alla moglie e poi alla figlia maggiore, nell’intenzione di consegnare un’idea di crescita e di continuazione, anziché di arresto. Purtroppo non basta. Il padre dei miei figli manca di forza, si assesta su una costruzione tutto sommato standard, con una regia senza invenzioni e una sceneggiatura troppo pudica, leggerissima, al limite dell’inconsistenza.
Louis-Do de Lencquesaing, eccellente nei panni di Grégoire, aristocratico nel gesto, debole e complesso nello spirito, fa sentire la sua mancanza quando non c’è. In questo, bisogna ammetterlo, il film centra il bersaglio.

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The last station

In programmazione: 25/11/2010

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Nel 1908 Lev Tolstoj è il romanziere più famoso di Russia e l’ispiratore di una dottrina etica di austerità e pacifismo. Promotore di questo culto è l’intellettuale Vladimir Chertkov, confidente personale del grande scrittore che, per vigilare su di lui e convincerlo a devolvere i diritti dei suoi illustri romanzi all’intero popolo russo, gli affida come segretario personale un suo giovane fidato, il casto e timorato Valentin Bulgakov. Questi, una volta giunto nella tenuta nobiliare dello scrittore, viene colpito dalla vitalità del suo assistito e dalla passione che lo coglie per la giovane ed emancipata Masha. Ma la sfida più grande è quella che viene a crearsi con la contessa Sofja, da più di cinquant’anni moglie, musa e assistente dello scrittore, in guerra contro Chertkov per le prodighe intenzioni del marito.
Da coloro che hanno raccontato le più tragiche e intense storie d’amore della storia della letteratura, il cinema si aspetta sempre biografie dense di grandi amori capaci di consumarli al pari dei loro personaggi. L’abbraccio di eros e thanatos non può risparmiare coloro che per primi hanno contribuito al loro inesorabile intreccio e non può quindi dimenticare una figura come Tolstoj, colui che nella vita ha professato l’amore come base per la serenità umana. In The Last Station, l’amore è dappertutto, non solo nel rapporto fra lo scrittore e il grande amore della sua vita, la contessa Sofja Andreyevna, ma anche nell’iniziazione sessuale del giovane adepto Valentin. Ed è sempre nel nome dell’amore che si affronta lo scontro fra la stessa contessa e l’epigono Chertkov. Hoffman, e prima di lui il libro di Jay Parini, si schiera con le ragioni della contessa, descrivendo Chertkov come un manipolatore goffo ed egoista, accecato dai presupposti della sua stessa filosofia. Una visione senza dubbio parziale, che vorrebbe trovare le ragioni del suo aperto schierarsi nell’amour fou di un personaggio femminile descritto come una vera eroina tolstojana. E che invece, per colpa di una regia tanto tradizionalista quanto fredda e di un accavallarsi di storie e personaggi non risolutivi (la storia d’amore fra Valentin e Masha; il “tradimento” della figlia Sasha nei confronti della madre), fa apparire la contessa come una nobile capricciosa che non vuol rinunciare al proprio benessere più che come una donna che agisce per amore disinteressato. Tanto più che quello per cui si batte non è un romantico confronto dei sentimenti ma uno scontro di diritti, di etica e di economia, dove può apparire contraddittorio schierarsi contro chi teoricamente agisce in nome della proprietà universale di un’opera culturale.
Michael Hoffman è un regista che ama particolarmente dare una patina vintage al proprio lavoro e che ha già dimostrato di avere più successo quando si confronta con una materia prettamente cinematografica (le screwball comedies in Un giorno per caso o le soap opera in Bolle di sapone ), piuttosto che con quella storica ( Restoration ) o letteraria ( Sogno di una notte di mezza estate ). Con The Last Station conferma il teorema, ritraendo un Tolstoj più vicino a quello muto delle vecchie prises de vue che chiudono il film che a uno dei grandi personaggi del romanzo russo ottocentesco.

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London river

In programmazione: 18/11/2010

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7 luglio 2005. A Londra esplodono bombe sui mezzi pubblici causando numerose vittime. Mrs. Sommers, che vive in un paesino su una delle isole della Manica, apprende la notizia dalla televisione e subito telefona alla figlia Jane che studia a Londra. Jane non risponde alle numerose chiamate. Ousmane è un africano che lavora alla tutela del patrimonio forestale. Anche suo figlio, che non vede da quando era piccolo, vive e studia a Londra. Sia Mrs. Sommers che Ousmane partono per la capitale britannica nella speranza di trovare i reciproci figli ancora vivi. Si incontreranno e scopriranno di essere i genitori di due ragazzi che si amavano. Ma dove sono ora?
Rachid Bouchareb continua a perseguire un’idea di cinema che proponga il dialogo tra culture diverse. Lo fa, in questa occasione, con un film alla Loach non tanto per l’ambientazione quanto per il modo di guardare alle persone comuni. Mrs. Sommers e Ousmane sono due genitori come tanti, con la loro quotidianità scandita da un lavoro fatto con passione. Le fedi differenti (lei protestante lui musulmano) potrebbero dividerli, secondo quanti predicano (da una parte e dall’altra) l’odio e la divisione. Si incontrano casualmente proprio perché l’odio seminato a piene mani tra la folla potrebbe aver reclamato i loro figli come vittime. A partire da una iniziale diffidenza costruiranno un percorso comune sostenendosi a vicenda in una ricerca che sperano sia a lieto fine. Nel frattempo impareranno molto su se stessi e anche sui figli di cui in fondo non conoscevano le scelte.
Giorgio Gaber nel suo ultimo spettacolo, in un monologo, diceva che se riuscissimo ad ammettere con noi stessi la diffidenza iniziale e quasi istintiva, piccola o grande, che proviamo nei confronti di chi non è come noi (per colore della pelle, cultura, religione) avremmo fatto un primo reale passo per abolire il razzismo. È quello che fanno i protagonisti di questo bel film: partono dalla distanza (soprattutto Mrs. Sommers) per giungere alla conoscenza e alla comprensione reciproche. Non è facile ma è possibile e necessario.

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Bright star

In programmazione: 11/11/2010

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1818. Il ventitreenne John Keats e la sua vicina di casa Fanny Brawne si conoscono, grazie all’interesse della ragazza per le sue poesie, si frequentano, si scrivono, si fidanzano, nonostante le condizioni economiche disperate del poeta. Minato dalla tubercolosi, Keats si vede costretto a partire per l’Italia, dove il clima è migliore e dove troverà la morte, nel febbraio del 1821.
Bright Star racconta l’inabissamento amoroso sottolineandone il parallelo con la dissoluzione fisica del poeta, ma sceglie il punto di vista di Fanny Brawne per narrare innanzitutto un nuovo personaggio femminile, la cui esuberanza intellettuale è mitigata da una crudele coscienza di ciò che le sta accadendo e si risolve in un’accettazione che è remotissimo eco di quella che fu di Isabel Archer, la stella più luminosa del firmamento di Jane Campion.
Lungi dall’essere un pretesto per evitare la formula più comune di biopic, perciò, l’adozione dello sguardo di Fanny, che incontra Keats subito dopo la pubblicazione di Endymion e lo perde dopo avergli ispirato le liriche che lo faranno amare dal mondo, è il modo in cui la regista, col sorrisetto sulle labbra, riflette sul potere creativo del sentimento amoroso. Instaurando un triangolo tra Keats, l’amico Brown, che lo vorrebbe al riparo dall’influenza femminile, protetto dai classici, e Fanny, che ad ogni apparizione distrae e confonde, la Campion racconta come l’infiltrarsi di una musa, con tutti i limiti del suo agire, nel mondo libero e ozioso degli uomini abbia strappato Keats all’accademia e permesso l’estensione del romanticismo al di là della pagina, nella vita, e dunque, per affinità di cose, nel cinema.
Tra gli interstizi di un rituale quotidiano allegramente rigido, fatto di lezioni di danza nel salotto di casa, di passeggiate e danze e ruoli precisi, tra le mura stesse della casa, dove regna l’ordine e la cura, irrompe la vertigine che il poeta domanda e suscita; il desiderio di un per sempre, che nella vicenda di Keats passa dal verbo alla carne e trova l’eternità.
Quando si àncora alla normalità dello scambio amoroso, quando si affida ad Abbie Cornish e alla credibilità della sua interpretazione, il film si toglie il costume e tocca i suoi vertici, ma la tentazione di obbedire alla richiesta di confezionare “a thing of beauty” è spesso irresistibile e talvolta lo affonda nella maniera.

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