Cronaca familiare

In programmazione: 22/04/2010

Descrizione

Dal romanzo di Vasco Pratolini. È la storia di due fratelli, dai primissimi anni dell’infanzia fino alla morte di Lorenzo, il minore, fra i due il più esposto, gracile e sfortunato. Enrico, il maggiore, giornalista faticosamente realizzatosi, rievoca gli sforzi per sostenere il fratello durante l’infanzia e l’adolescenza, la malattia di Lorenzo, l’ultimo penosissimo viaggio a Firenze, dove il poveretto va a morire.

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Police, Adjective

In programmazione: 15/04/2010

Descrizione

Cristi, giovane poliziotto, viene incaricato di pedinare uno studente sospettato di spaccio. Nonostante lo veda vendere hashish, Cristi si rifiuta di arrestarlo perché crede che la legge stia per cambiare e non vuole avere sulla coscienza un arresto inutile. Spiazzante commedia nera rumena, fatta di appostamenti, canzoni e umorismo laconico.

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Lebanon

In programmazione: 08/04/2010

Descrizione

Libano, giugno 1982. Un carro armato carico di armi e quattro giovani soldati avanza solitario dentro un villaggio, bombardato e abbattuto dall’Aviazione Militare israeliana. Assi è un comandante che non ha mai comandato, Shmuel un artigliere che non ha mai colpito, Herzl un servente al pezzo che non ha mai caricato una bomba e Yigal un pilota di un carro corazzato che non conosce destinazione. Impressionabili ed inesperti piangono e resistono dentro il “Rinoceronte” sferragliante, contro una guerra che non hanno voluto e un nemico che non vogliono condannare. Smarrita la direzione, mancata la posizione e assediati dalla paura, tenteranno una fuga disperata verso un campo di girasoli e una terra “promessa” (a tutti).
I soldati di Samuel Maoz non amano la guerra e sono lontani, molto lontani, dagli artificieri volontari e “in erezione” della Bigelow (The Hurt Locker). Impegnati sul fronte iracheno a disinnescare bombe e incapaci di tornare alla normalità, i soldati dipendenti della regista americana sono rimpiazzati, sullo schermo e al fronte, dai “corpi corazzati” e arruolati nelle Forze Armate israeliane durante la Prima Guerra del Libano di Maoz. Addestrato a vent’anni come artigliere, l’esordiente regista israeliano gira un film di guerra contro la guerra, riuscendo a mantenersi in equilibrio, a governare l’orizzonte del discorso e l’inferno della sua messa in scena, l’alto e il basso, la battaglia e l’annientamento umano. Claustrofobico e trincerato Lebanon guarda alla guerra attraverso il mirino-obiettivo di un artigliere che, idealmente prossimo al Piero di De Andrè e al tenente Ottolenghi di Lussu (e Rosi), rifiuta in lacrime e indisciplinato di uccidere e di uccidersi.
Come gli idealismi, gli ufficiali nel film servono a “cacciare innanzi i soldati”, lasciati morire da una nazione assediata e in crisi nonostante la promessa che nessuno sarebbe stato abbandonato. La guerra “in un interno” raccontata da Maoz è quella della Storia, ancorata a una letteratura che l’ha definita, allestita, giustificata, compresa, perdonata o condannata, e allo stesso tempo quella del presente, ancora aperta e infinita, ancora chiusa nella sua logica di parte, immatura nelle riflessioni, relativa nella rappresentazione. Se la Prima Guerra del Libano appartiene all’altro secolo, i conflitti arabo-israeliani perseverano, eternamente in corso si allungano sulla nuova epoca, veicolati dalle immagini redacted dei servizi giornalistici. Contro le conseguenze mediatiche e i percorsi retorici creati dai media, si leva in alto l’immaginario cinematografico, interrogandosi e scavando nella componente umana di ogni guerra.

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Il tempo che ci rimane

In programmazione: 01/04/2010

Descrizione

Una riflessione in quattro parti sulla storia degli arabi palestinesi a partire dal 1948, anno della proclamazione dello Stato di Israele, sino ai giorni nostri. Viene raccontata attraverso episodi comici o tragici della vita di tutti i giorni ed è ispirata ai racconti del padre del regista, che partecipò alla prima resistenza, alle lettere della madre e ai ricordi del regista stesso che è in parte anche protagonista del film.
Elia Suleimane, che con Intervento divino nel 2002 portò il primo film palestinese ad approdare in competizione a Cannes vincendo il Premio della Giuria e quello della Fipresci, sette anni dopo vi ha fatto ritorno con questa riflessione personale sulla condizione dei Palestinesi. Si tratta, ovviamente, di un film schierato che non si preoccupa di essere politicamente corretto. Anche perché, in quei territori e in quelle situazioni, esserlo non è così semplice. Suleimane però ha il grande pregio dell’astrazione. Il suo punto di riferimento cinematografico è l’inarrivabile genio di Buster Keaton. Così il regista, nato a Nazareth nel 1960, è capace di portare sullo schermo il gag di un combattente che ha perso la strada così come un suicidio (non kamikaze) dimostrativo, con un distacco che aggiunge, anziché togliere, forza alle immagini. Di queste tre, in particolare, restano impresse nella mente. La più fortemente evocativa è quella di Suleimane che, con un’asta da competizione per il salto in alto, riesce a superare il Muro eretto dagli israeliani. La più speranzosamente astratta è quella in cui gli occupanti di una jeep israeliana, che intendono far rispettare il coprifuoco a Ramallah, finiscono col far ondeggiare le teste allo stesso ritmo dei ragazzi palestinesi che, in una discoteca, non sentono i loro annunci. L’immagine invece più commovente è quella della suora cattolica la quale, dinanzi a un’azione violenta degli israeliani, sembra inizialmente cercare rifugio in convento. La vediamo invece tornare tra i prigionieri inginocchiati, legati e bendati per portare loro il ristoro di un sorso d’acqua. È la testimonianza che essere arabi e schierati non significa necessariamente, come troppi vorrebbero pretestuosamente farci credere, essere integralisti.

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Gli amori folli

In programmazione: 25/03/2010

Descrizione

Marguerite esce da un negozio di scarpe e subisce il furto della borsa. Georges trova il suo portafoglio per terra, nel parcheggio di un centro commerciale e comincia a fantasticare su di lei, ancora prima di contattarla, senza conoscerla. Il desiderio di questa donna che fa la dentista e il pilota di aerei leggeri è così forte che riempie la sua vita di padre di famiglia e di marito di pensieri e azioni irrazionali. Marguerite resiste, ma per poco. È una corsa verso l’errore, piena di vita, inarrestabile.
A quasi novant’anni, Alain Resnais, con Les Herbes Folles, tratto dal libro di Christian Gailly “L’incident”, elabora un film che si può dire virtuoso, tanto nel senso di musicalmente inappuntabile, quanto in quello di visivamente e narrativamente acrobatico.
Storia di una passione irragionevole, spuntata come l’erba che esce dall’asfalto là dove non ce la si aspetta, rigogliosa e capricciosa in età matura, l’opera di Resnais vola in alto come il velivolo di Sabine Azéma, diverte con dialoghi-piroette, fa desiderare di non scendere mai a terra, di restare in sella al film, dove tutto è sorpresa e tutto è affrontabile e affascinante, anche il disarcionamento.
Esperto di costruzioni non lineari, di realtà binarie e sovrapposizioni temporali, Resnais -che con Mon Oncle d’Amérique riscrisse le accezioni del vocabolo “sceneggiatura”, influenzando tra gli altri anche Kaufman e Gondry- continua il suo viaggio tra determinismo e aleatorietà dell’esistenza, legandolo alla forma cinema, forma a sua volta aperta e costretta insieme.
Se i personaggi di Parole, parole, parole più che esprimersi, si ritrovavano dentro dei testi che parevano scritti per loro, quelli di Les Herbes Folles fanno della letteratura di Gailly, della costruzione della sua sintassi, un trampolino di lancio per la loro avventura di sognatori, di verificatori di qualcosa che potrebbe esistere, potrebbe non iniziare mai (lo dicono loro stessi), potrebbe suscitare il riso, il sorriso, l’emozione. E lo fa.
Cineasta moderno e cerebrale, qui Resnais si scuote di dosso la neve di Cuori e realizza uno dei suoi film più caldi, con punte di ghiaccio bollente, dove i personaggi assomigliano sempre meno a delle cavie e la più generale delle esperienze -quella amorosa- si fa in fine particolarissima. Un film conclusivo, che (ri)apre sulla speranza.

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Bright star

In programmazione: 18/03/2010

Descrizione

1818. Il ventitreenne John Keats e la sua vicina di casa Fanny Brawne si conoscono, grazie all’interesse della ragazza per le sue poesie, si frequentano, si scrivono, si fidanzano, nonostante le condizioni economiche disperate del poeta. Minato dalla tubercolosi, Keats si vede costretto a partire per l’Italia, dove il clima è migliore e dove troverà la morte, nel febbraio del 1821.
Bright Star racconta l’inabissamento amoroso sottolineandone il parallelo con la dissoluzione fisica del poeta, ma sceglie il punto di vista di Fanny Brawne per narrare innanzitutto un nuovo personaggio femminile, la cui esuberanza intellettuale è mitigata da una crudele coscienza di ciò che le sta accadendo e si risolve in un’accettazione che è remotissimo eco di quella che fu di Isabel Archer, la stella più luminosa del firmamento di Jane Campion.
Lungi dall’essere un pretesto per evitare la formula più comune di biopic, perciò, l’adozione dello sguardo di Fanny, che incontra Keats subito dopo la pubblicazione di Endymion e lo perde dopo avergli ispirato le liriche che lo faranno amare dal mondo, è il modo in cui la regista, col sorrisetto sulle labbra, riflette sul potere creativo del sentimento amoroso. Instaurando un triangolo tra Keats, l’amico Brown, che lo vorrebbe al riparo dall’influenza femminile, protetto dai classici, e Fanny, che ad ogni apparizione distrae e confonde, la Campion racconta come l’infiltrarsi di una musa, con tutti i limiti del suo agire, nel mondo libero e ozioso degli uomini abbia strappato Keats all’accademia e permesso l’estensione del romanticismo al di là della pagina, nella vita, e dunque, per affinità di cose, nel cinema.
Tra gli interstizi di un rituale quotidiano allegramente rigido, fatto di lezioni di danza nel salotto di casa, di passeggiate e danze e ruoli precisi, tra le mura stesse della casa, dove regna l’ordine e la cura, irrompe la vertigine che il poeta domanda e suscita; il desiderio di un per sempre, che nella vicenda di Keats passa dal verbo alla carne e trova l’eternità.
Quando si àncora alla normalità dello scambio amoroso, quando si affida ad Abbie Cornish e alla credibilità della sua interpretazione, il film si toglie il costume e tocca i suoi vertici, ma la tentazione di obbedire alla richiesta di confezionare “a thing of beauty” è spesso irresistibile e talvolta lo affonda nella maniera.

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Il profeta

In programmazione: 11/03/2010

Descrizione

Malik El Djebena ha 19 anni quando viene condannato a sei anni di prigione. Entra con poco o nulla, una banconota ripiegata su se stessa e dei vestiti troppo usurati, che a detta delle guardie non vale la pena di conservare. Quando esce ha un impero e tre macchine pronte a scortare i suoi primi passi. In mezzo c’è il carcere, la protezione offertagli da un mafioso corso, l’omicidio come rito d’iniziazione, l’ampliarsi delle conoscenze e dei traffici, le incursioni in permesso fuori dal carcere, dove gli affari prendono velocità.
Ciò avviene all’interno di una prigione, il cinema lo ha già raccontato altrove meglio che qui, per non parlare di come nasce un padrino. Quello che fa Audiard, nel suo film, è prendere il genere per mostrarsi infedele, instaurare con esso un doppio gioco, come fa Malik con il boss corso, stare apparentemente nelle regole ma prendersi la libertà di raccontare anche molto altro.
Malik è uno che apprende in fretta. Impara ad uccidere ma, dallo stesso crimine, impara anche che nel carcere c’è una scuola dove possono insegnargli a leggere e a scrivere. Dalla scuola apprende un metodo, grazie al quale impara da autodidatta il dialetto franco-italiano della Corsica: di fatto si procura un’arma, che obbliga il capo a tener conto di lui. Dagli arabi impara a capire cosa vogliono, dai Marsigliesi impara a trattare, da un amico, forse, imparerà a voler bene.
I compagni di galera prendono a definirlo un profeta, perché lui è quello che parla, con gli uni e con gli altri, quello che porta i messaggi dentro e fuori, che conosce la gente che può far comodo negli affari. Egli fa grandi cose, insomma; la sua via è tracciata come quella di chi ha una missione.
Ancora una storia che ruota nell’universo tanto umano quanto traditore della comunicazione, dunque, dopo quella in cui Vincent Cassel leggeva dalle labbra e quella in cui Romain Duris si affidava alle note. Qui le lingue sono almeno tre, ma è quella silenziosa del sangue che sigla gli accordi, e il potere, in questo codice, è inversamente proporzionale al numero di parole che richiede.
La critica di Audiard alla mala educazione del sistema carcerario è evidente, talvolta aspra, talvolta sarcastica (le uscite per “buona condotta”), ma non è tramite la parola che si esprime: la sua lingua è quella della regia, di cui è interprete sicuro e abile. Quello che propone allo spettatore, qui come in tutte le sue opere, è l’immersione completa nel mondo che racconta, la sospensione del pre-giudizio, lo spettacolo della complessità di un personaggio maschile. La pretesa questa volta, però, va oltre l’offerta: nonostante l’ottimo Tahar Rahim, protagonista, Un prophète si dilata oltremodo, prova qualche artificio ma non fino in fondo, sfiora emozioni interessanti che abbandona troppo in fretta, si lascia imprigionare dalla materia che vorrebbe liberare. Un film più maturo dei precedenti, ma meno comunicativo.

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Soul kitchen

In programmazione: 04/03/2010

Descrizione

Ad Amburgo, un cuoco di origine greca, Zinos, gestisce un infimo ristorante denominato Soul Kitchen. La clientela abituale sono i rozzi abitanti della periferia, interessati solo a tracannare birra e ingurgitare piatti surgelati o preconfezionati. Dentro e fuori dal Soul Kitchen ruota tutto il microuniverso di Zinos e relativi problemi: l’ambiziosa e viziata fidanzata Nadine è una giornalista rampante in partenza per la Cina, il fratello Illias un ladruncolo in libertà vigilata con il vizio del gioco, la cameriera Lucia è aspirante artista che vive in un appartamento occupato abusivamente e un vecchio compagno di scuola, Neumann, è disposto a tutto pur di comprare il locale e rilevarne il terreno. Un’ernia al disco improvvisa impone a Zinos delle sedute di fisioterapia e gli inibisce l’uso cucina, così che viene assunto un nuovo cuoco esperto di haute cuisine che, dopo uno scetticismo iniziale, trasforma il ristorante in un locale molto in voga capace di offrire buon cibo e musica soul.
Fatih Akin è un abile deejay del mondo del cinema, un giovane autore che ha saputo costruire un suo linguaggio melodico a partire da un’antologia di stili della New Hollywood di Scorsese, Schlesinger e Bob Rafelson. Questa eredità del cinema americano moderno, con la quale aveva finora raccontato i margini di una società multiculturale in pieno dissidio, pervade anche nell’atmosfera conviviale e disinvolta di Soul Kitchen. Cimentandosi con una vera commedia edificante, il giovane regista turco-tedesco mette da parte il tema del viaggio e delega il percorso di emancipazione sociale e di ricerca delle origini, alla musica (come nel documentario Crossing the Bridge) e all’elogio dell’edonismo.
Akin pone attenzione ai corpi e ai loro bisogni primari: dal cibo al sesso, dall’alcool alla danza (passando per il mal di schiena), così che i suoi personaggi, liberati dalla necessità di affrancarsi dal proprio retaggio culturale, agiscono nel nome di un puro principio di piacere. Allo stesso modo, punta all’occhio e al ventre dello spettatore: costruisce il suo film come un piatto sofisticato di nouvelle cuisine, o meglio, come una playlist di musica accattivante, facendo molta attenzione a creare mediante una serie di gag fisiche una sinergia fra movimenti dei personaggi, movimenti di macchina e ritmo dei brani della colonna sonora. È una strategia molto furba e molto ricercata, elaborata da un regista che ha già compreso le tendenze del nuovo cinema della post-globalizzazione (vedi The Millionaire): le storie che intrecciano società multietniche, una regia dinamica, buona musica e un lieto fine sono destinate a vendere (e incassare) in tutto il mondo.

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Good morning, Aman

In programmazione: 25/02/2010

Descrizione

Aman è un adolescente di origine somala, scappato da Mogadiscio e scampato alla guerra. Brillante e zelante lava le macchine in un salone d’auto, sperando di poterle presto vendere o addirittura guidare. Quando i giorni sono più bui e la Stazione Termini non è più abbastanza grande per contenere i suoi sogni, Aman sale sulle terrazze dell’Esquilino, immaginando una vita perfetta e un viaggio in Inghilterra. Concentratosi fino al sonno sulle sue aspirazioni, viene svegliato da Teodoro, un ex pugile depresso, sprofondato nel passato e incapace di combattere i suoi fantasmi. Soli e insonni, l’uomo e il ragazzo provano a loro modo a riempire l’uno la vita e la solitudine dell’altro. Dentro una notte romana troveranno con esiti diversi la soluzione al dolore e l’emancipazione dalla paura (di vivere).
Claudio Noce, giovane autore di videoclip e cortometraggi, debutta in lungo con un film di formazione fortemente radicato nella realtà romana. A due passi dalla multiculturalità di Piazza Vittorio e dalla liminalità di Stazione Termini, nasce e si sviluppa la relazione tra due individui che riscoprono una dimensione affettiva e una nuova possibilità di vita. Aman è un ragazzo affamato di esperienza che riesce a oltrepassare le barriere dietro alle quali si è trincerato Teodoro, nascondendo la propria incapacità a vivere.
Il merito maggiore del film va riconosciuto alle interpretazioni di Valerio Mastandrea, pesto e dolente, e di Said Sabrie, alla sua seconda prova da attore, efficaci e realisti nell’esprimere la stravaganza e la complessità dei rispettivi caratteri. Esplorando dentro l’anima dei protagonisti e dentro gli appartamenti del rione Esquilino, Good Morning Aman va a rafforzare l’onda del giovane cinema italiano, in crescente successo di pubblico, che racconta con poche metafore e molta realtà l’incontro col diverso.
La vicenda rappresentata si sviluppa attraverso il doppio sguardo dei protagonisti, uno immigrato e l’altro “senza pelle”, proiettati verso il cambiamento e l’affermazione della propria identità. Incarnazione di uno stato confusionale creativo e determinato a imporsi al di là di ogni possibilità, Aman e Teodoro sono sensibilità esasperate e accomunate da analoghi destini di sofferenza, solitudine e disprezzo. L’epilogo non è soltanto un tributo solidaristico e premia il coraggio della perseveranza e della messa in discussione, elevando la moralità a categoria morale indiscutibile.
Formalmente modesto, Good Morning Aman sacrifica la forma per il contenuto ma riesce almeno a mostrare una Roma fuori da qualsiasi retorica da cartolina e ad osservare dietro le apparenze chi porta un cucchiaio con una medicina amara.

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Lourdes

In programmazione: 18/02/2010

Descrizione

Christine è una giovane donna costretta sulla carrozzella dalla sclerosi multipla. Rassegnata alla sua condizione di ‘ferma’, partecipa a un pellegrinaggio a Lourdes, con la speranza di riacquistare un po’ di fiducia nella vita. Sorride sempre, cerca la conversazione con i piacenti giovani volontari dell’organizzazione, si appiglia all’espressività del volto, l’unica parte del corpo che riesce a muovere. Alla gita spirituale partecipano malati nel fisico e nella mente, tutti parte di un micro mondo abituato alla solitudine e scivolato nell’individualismo. Quando i giorni di vacanza stanno per concludersi, accade il miracolo: Christine, piano piano, riacquista sensibilità alle dita, poi alle braccia e alle gambe, fino ad appoggiare i piedi a terra e cominciare a camminare. La guarigione improvvisa sorprende tutti e inaugura crudeli invidie tra i compagni. Nel frattempo Christine si gode il piccolo momento di felicità, ancora incerta sul suo precario futuro.
Christine si fa volere bene da tutti. È dolce, buffa e curiosa, ma anche delicata e riservata, laconica, come se il suo blocco fisico le avesse rubato anche le parole. Sembra non pretendere nulla da nessuno, prega molto meno rispetto agli altri compagni di viaggio, si lascia vivere disperata. Lo sfogo dell’inquietudine che la divora avviene solo davanti a dio, in confessionale, dove si dichiara colpevole di invidia per le persone ‘normali’.
Ma cosa vuol dire essere normali? Affidarsi alla casualità di un miracolo? La ricerca di felicità e integrazione passa attraverso la sofferenza, sempre. La Chiesa tentenna, abbozza delle risposte semplicistiche, inconsapevolmente esilaranti. Colpevolizza l’animo peccaminoso e si toglie il pensiero. La controparte laica (i volontari dell’Ordine di Malta) sembra aver smesso di credere ai miracoli da lungo tempo; così si lascia andare a barzellette che prendono in giro la Madonna, o a sguardi accusatori e perplessi che mettono in grave difficoltà le prediche del sacerdote. La normalità, per loro, è solo uno specchio dove riflettere se stessi: tutti sono regolari ed eccentrici allo stesso tempo. La forza dissacrante del dubbio travolge Lourdes, il luogo della speranza per eccellenza, trasformandola in un angolo di mondo straniante dove l’illusione del miglioramento, spirituale e fisico, si vende al prezzo di pacchiane statuette souvenir, e il misticismo si offre a colazione, assieme al caffè caldo.
Lo stile minimalista della regista mette in luce il paradosso della sacralità, soffermandosi sugli aspetti profani. Per farlo, tocca ambienti e toni conosciuti, omaggiando lo scetticismo di Kaurismäki e l’ironia sottile del francese Jacques Tati. Ogni scena corrisponde ad un quadro fisso (tra le più belle, la sequenza iniziale della silenziosa e apatica preparazione della sala da pranzo), ogni azione è inserita sapientemente in un’armonia di geometrie e colori che gioca su contrasto e opposizione. Il processo narrativo si costruisce così sul susseguirsi di piccole sequenze che si muovono al ritmo di un’altalena perpetua. Christine va avanti, riacquista l’uso delle gambe, sfiora la felicità (si innamora, balla e canta come un’adolescente) ma poi ritorna un po’ indietro, cade di nuovo nell’assurdità della vita quotidiana, imprigionata, come tutti, in una condizione di dubbi e continui assetti di volo.

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Frozen River – Fiume di ghiaccio

In programmazione: 11/02/2010

Descrizione

Confine tra lo Stato di New York e il Quebec, pochi giorni prima del Natale. Ray è stata abbandonata dal marito senza denaro e con due figli, uno di 15 e uno di 5 anni. La famiglia stava per realizzare il sogno di una nuova casa prefabbricata che sostituisse quella in progressivo degrado in cui i suoi componenti abitano. Un giorno Ray conosce Lila Littlewolf, una giovane donna appartenente alla comunità Mohawk che vive sulle rive del fiume San Lorenzo che, ghiacciandosi in inverno, diviene una strada percorsa per far entrare clandestini negli Stati Uniti. Lila appartiene al giro e Ray finisce con l’affiancarla.
Courtney Hunt, alla sua opera prima come regista e come sceneggiatrice, non solo ha avuto una nomination all’Oscar ma ha portato fortuna alla sua attrice protagonista Melissa Leo (anch’essa presente agli Oscar nella cinquina delle migliori attrici e vincitrice di una serie di premi in altre manifestazioni).
Avendo ottenuto il Premio della Giuria al Sundance Frozen River entra a buon diritto nell’ambito di quel cinema indipendente americano che ancora esiste ed è capace di sfuggire alle sirene del mainstream. Si potrebbe, a un primo sguardo, accusarlo di idealizzare le condizioni umane che va a narrare. I nativi vivono di illegalità ma sono in fondo di buon cuore, i meno abbienti nutrono sentimenti nobili e via elencando…
Ma non è così perché questo è un film che spinge lo spettatore ad andare oltre la prima impressione. Raccontando dell’incontro di due donne provate dalla vita, scava nel senso di responsabilità nei confronti dei figli inserendo il tema in un contesto che il cinema made in Usa ci ha abituato a veder rappresentato in altri climi. Il traffico di clandestini è quasi sempre legato alla frontiera con il Messico. Il ritrovarlo sullo schermo nel gelido nord modifica le coordinate della percezione, non solo visiva. Le algide contrattazioni rendono ancor più concretamente tragica (quasi fossimo in un film dei Coen) la dimensione della sopravvivenza ottenuta al prezzo dello sfruttamento di altri esseri umani.
Hunt però, in un film in cui i confini marcano la loro incombenza non solo tra gli Stati e le Riserve ma anche tra le persone, sa scrutare nel profondo dell’animo umano. Il suo sguardo è rivolto verso un sentire che accende in due donne, distanti per cultura e origini, il progressivo calore di un tentativo di solidarietà.

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Il mio amico Eric

In programmazione: 04/02/2010

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Un impiegato delle Poste britanniche vede la sua vita andare sempre peggio. Ha lasciato da trent’anni Lily, suo unico e vero amore. Ora vive con i due figliastri lasciatigli da una donna che non c’è e con uno dei quali ha un pessimo rapporto. Eric, che cerca di non ricordare il passato, ha un solo rifugio in cui cercare un po’ di consolazione: il tifo per il Manchester e la venerazione per quello che nel passato è stato il suo più grande campione, Eric Cantona. Ora però Eric ha un nuovo e per lui non secondario problema: la figlia che aveva abbandonato ancora in fasce, ma che non ha mai avuto un cattivo rapporto con lui, gli chiede il favore di occuparsi per un’ora al giorno della bambina che ha avuto, in modo da poter completare in pochi mesi gli studi. Sarà però necessario che Eric si faccia consegnare la neonata da Lily che non ha voluto piu’ incontrare dal lontano passato. Qualcuno giunge in suo soccorso in modo inatteso e concretamente irreale: il suo idolo: Eric Cantona. Il problema da affrontare non sarà però purtroppo solo questo.
Ken Loach ha realizzato il film della sua assoluta maturità. Sinora ci aveva regalato delle opere che restano nella storia del cinema tout court e in quella dell’impegno a favore dei meno favoriti nelle nostre società. Lo stile era rigoroso, partecipe, con qualche inserto comico ma con una dominante drammatica. In questa occasione riesce a realizzare una perfetta osmosi tra la commedia e il dramma. Arriva anche a fare di più gestendo l’apparizione onirica della star Cantona in un equilibrio perfetto tra ironia, astrazione e (perchè no?) commozione.
Eric Cantona è una leggenda per il calcio internazionale e per i tifosi del Manchester in particolare. Loach è un appassionato di calcio (straordinaria la replica alla domanda ‘impegnata’ di una collega in conferenza stampa: “Non vado alle partite per fare dei trattati antropologici ma per vedere la mia squadra vincere”) e riesce a rileggere, grazie ancora una volta a una sceneggiatura più che mai calibrata di Paul Laverty, il mito calcistico facendolo interagire con le problematiche del piccolo Eric impiegato alle Poste.
Ne nasce una storia d’amore, un film sulla possibile positività dei miti nonchè (ed era l’impresa più difficile di questi tempi) su una solidarietà ancora possibile. Solo lui e pochissimi altri possono riuscire a regalarci una commedia/dramma con happy end in cui realtà e immaginazione si alleano escludendo la retorica.

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L’onda

In programmazione: 28/01/2010

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Rainer Wenger, insegnante di educazione fisica con un passato da anarchico rockettaro, per spiegare ai suoi studenti liceali il concetto di autocrazia li coinvolge in un esperimento di “regime dittatoriale” fra i banchi di scuola. Per una settimana dovranno rispondere al rigido sistema disciplinare di “Herr Wenger”, conformarsi ad un codice di abbigliamento e lavorare assieme in un’ottica di organismo gerarchico, isolando o reprimendo eventuali dissidenti. In pochissimo tempo, i ragazzi scoprono uno spirito di cameratismo vincente, dominano le proprie insicurezze e paure attorno alla figura del carismatico “cattivo maestro” e si sentono legittimati ad animare atti di violenza e vandalismo, in un’operazione che arriva presto a fuoriuscire dalle mura dell’edificio scolastico.
In una stagione cinematografica che pare nuovamente appassionarsi a quel che avviene all’interno di quei luoghi di educazione tanto amati e temuti, rispetto a film che cercano di cogliere e mostrare le dinamiche sociali e di violenza, reale e simbolica, dell’istituzione scolastica (La classe – Entre les murs), o ad altri che raccontano il vuoto pneumatico dell’adolescenza con una superficialità criminale (AlbaKiara; Un gioco da ragazze), L’Onda si pone un obiettivo differente e ben più mirato. L’esperimento intento ad indagare l’espansione del nazional-socialismo e l’indottrinamento della popolazione germanica realmente messo in piedi dal docente di storia Ron Jones nel 1967 in un liceo californiano, viene ripreso e ricontestualizzato da Dennis Gansel nell’attuale Germania con l’intento di ampliare le implicazioni di tale esperienza ed incidere sulle coscienze di quelle nuove generazioni che si considerano immuni dall’avvento di un nuovo totalitarismo. Per ottenere questo effetto, Gansel decide di sfruttare la lingua universale della moderna pop culture come cifra stilistica peculiare. L’Onda vede così molti rimandi (dal montaggio visivo e sonoro alla tipizzazione dei protagonisti) ai classici teen-movie di origine americana, con uno stile vicino al videoclip, attento alle tendenze musicali giovanili e condotto come un gioco di ruolo con i più tipici personaggi delle high school.
Alcuni momenti però marcano l’anomalia e tentano l’affrancamento dal filone “giovanilista” del cinema americano: estratti del dibattito fra studenti sulla nozione di autocrazia sembrano direttamente tratti da un saggio di Naomi Klein o da altri trattati vicini al culture jamming, una certa controcultura del sistema americano. In una particolare sequenza poi, la classe di Herr Wenger espone una ad una le cause che possono condurre all’avvento del totalitarismo: globalizzazione, crisi economica, disoccupazione, iniquità sociale, nazionalismo e xenofobia. Tutti malesseri che fa problema sentir menzionare a viva voce in un film di ampio consumo, e soprattutto attraverso un linguaggio che è il primo effetto di una globalizzazione. E tuttavia è in queste stesse considerazioni che sta anche il grosso limite del film di Gansel: esso enuncia più che denunciare, spiega più che insegnare. Nei suoi eccessi di schematismo e approssimazione, L’Onda elabora un discorso dissertativo, smaccatamente pedagogico, che mira in maniera esclusiva a costituirsi come monito, come exemplum, rivolto soprattutto al pubblico giovanile. E perciò più adatto agli atri di un matinée scolastico che alle sale dei cineforum.

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Capitalism: a love story

In programmazione: 21/01/2010

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Questa volta Michael Moore prende le mosse da lontano, addirittura dall’Impero Romano, per mostrare come i segnali di decadenza di quella potenza antica siano tutti rintracciabili nella realtà odierna. La domanda è più che mai esplicita e con la risposta già incorporata: quanto è alto il prezzo che il popolo americano paga a causa della confusione operata tra il concetto di Capitalismo e quello di Democrazia? Per Moore i due termini non coincidono anzi sono in più che netta opposizione soprattutto ora, dopo la crisi mondiale di cui tutti paghiamo le conseguenze.
Per sostenere la sua tesi questa volta il polemista di Flint (cittadina a cui fa ancora una volta ritorno vent’anni dopo Roger & Me) fa un uso molto più ridotto di gag verbali e visive (anche se non ci risparmia un nuovo doppiaggio del Gesù di Zeffirelli in versione liberistico-sfrenata). Perché questa volta il tema è talmente serio che lo spazio per la risata non può che essere ridotto. È ora di passare all’azione secondo Moore. Ancora una volta non per sovvertire un sistema ma per riportarlo alla purezza delle origini.
In una società in cui può esistere un gruppo immobiliare che si autodefinisce gli Avvoltoi (il cui compito è acquistare a prezzi stracciati case già pignorate per poi rivenderle facendo profitti) e in cui la classe media vede falcidiati i propri beni primari dalla rapacità di banche prive di qualsiasi seppur remoto scrupolo, Moore non può sentirsi a suo agio. E non può non solidarizzare con chi pensa che i rapinatori non siano solo quelli proposti in sequenza nelle immagini delle televisioni a circuito chiuso di banche e negozi. Oggi ci sono rapinatori che agiscono sulla sorte di milioni di persone. Qualcuno di loro comincia a pagare ma l’indignazione non è ancora giunta al livello necessario.
Il livello di cui Franklin Delano Roosevelt aveva fatto proprie le istanze ipotizzando una nuova Costituzione Americana in cui i diritti fondamentali dei cittadini venissero riconosciuti in modo assolutamente dettagliato e inequivocabile. Il Presidente morì prima di essere riuscito a farla diventare legge. Oggi il popolo americano paga questo vuoto legislativo con i posti di lavoro persi e le abitazioni letteralmente divorate da avvoltoi di diverse specie. Moore, da vero americano, auspica un ritorno al passato perché la parola futuro possa tornare ad avere un significato positivo. Quando mostra vescovi e sacerdoti schierarsi senza indugio a fianco di chi sta perdendo il lavoro viene in mente l’abusata terminologia nostrana ‘cattocomunista’. Non si tratta di ‘comunismo’ in questo film ma di diritti basilari che la ricerca sfrenata del guadagno non può mai (in nessuna occasione e per nessun pseudo motivo di ‘interesse generale’) calpestare.
Moore porta come esempio positivo, tra le altre, la nostra Costituzione. Faremmo bene ogni tanto a rileggerla. Magari dopo avere visto Capitalism: A Love Story.

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Racconti dell’età dell’oro

In programmazione: 14/01/2010

Descrizione

Storie di vita ordinaria in Romania sotto il regime comunista di Ceausescu. La visita dell’ispettore, la fotografia del leader da ritoccare, un maiale consegnato erroneamente vivo da tagliare, l’imbottigliamento dell’aria: cinque leggende urbane bizzarre, ridicole, commoventi. Sono I racconti dell’età dell’oro, quegli ultimi quindici anni di dittatura che hanno visto il paese in ginocchio per la fame e la povertà.
Film collettivo alla maniera della commedia all’italiana degli anni di Risi e Monicelli, concepito collettivamente e non a staffetta, vede alla guida Cristian Mungiu, su tutt’altro registo rispetto a 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, che firma uno dei cortometraggi, in compagnia di Höfer, Marculescu, Popescu e Ioana Uricaru.
Lirico all’esordio, grottesco in materia di comunicazioni di massa, poi comico e surreale, l’umorismo della disperazione (ma non nella disperazione, perché sono passati gli anni) prende di mira l’obbedienza cieca, le acrobazie di un popolo che s’impone di soddisfare le richieste più arbitrarie e teme l’assurdo (se il premier francese nella foto ha il cappello e Ceausescu no potrebbe sembrare un gesto di rispetto verso il capitalismo e non deve accadere).
Il neorealismo è un modello presente ma parcheggiato a latere: le operette di Mungiu e colleghi cercano il riso; sembrano dire “non eravamo cattivi, solo un po’ scemi, e ci alimentavamo a vicenda”; sono curate e talvolta furbette; guardano nello specchietto retrovisore, non sudano per l’urgenza. Eppure riescono a ridisegnare un mondo, mettendo in scena generazioni diverse e differenti reazioni, plaudendo in silenzio alla sana ironia dei giovani e scuotendo talvolta troppo affettuosamente la testa rispetto alla follia dei vecchi, spesso masochista.
Contenitore ideale e raccordo tra gli episodi è l’immagine delle scale interne di un condominio, riprese da un’angolatura affacciata sul vuoto che suggerisce la vertigine di chi osserva e la distanza di chi si muove in senso contrario, in salita, sotto sforzo.
L’immagine che questi Tales of the golden age restituiscono del loro paese di provenienza è in molti modi “corretta”, come la fotografia di Ceausescu: il colore della disperazione è stato limato fino a sparire, il carattere popolare enfatizzato. Ma la capacità di (far) sorridere è assodata e anche quella dietro la macchina da presa.

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Cosmonauta

In programmazione: 07/01/2010

Descrizione

1957. Roma. Luciana ha nove anni e abbandona la chiesa durante la cerimonia della prima comunione. Motivazione: è comunista. Perché il padre lo era e perché il fratello, che soffre di epilessia, è un appassionato cultore delle imprese spaziali sovietiche. La cagnetta Laika è stata inviata in orbita sopra la Terra e Gagarin, primo cosmonauta della storia, la seguirà battendo sul tempo gli odiati americani. Intanto Luciana è cresciuta (siamo nel 1963) e deve vedersela con un patrigno detestato, con un fratello il cui handicap si fa sempre più ingombrante, e con i ‘compagni’. Nel Partito vigono regole che la ragazza sente strette così come quelle di casa. Cercherà, a modo suo, di trovare una sua orbita in quello spazio profondo che è l’adolescenza.
Susanna Nicchiarelli, alla sua opera prima, si assume il compito, più che mai rischioso in tempi ‘mocciani’, di parlare di adolescenza al cinema per di più partendo da un passato che sembra ormai sepolto anche nell’immaginario collettivo. Nel mondo c’era la Guerra Fredda e la corsa allo spazio ne rappresentava in qualche misura le tensioni trasponendole su un piano da leggenda contemporanea.
In un’epoca come la nostra in cui le ideologie si sono dissolte la regista ci racconta di una ragazzina che ad una di quelle ideologie si aggrappa per cercare di trovare un senso al proprio esistere. Lo fa in modo confuso (come i suoi coetanei del presente che non hanno più neppure quell’appiglio) provando a individuare una traiettoria tra riunioni in sezione, vendette contro i socialisti ‘traditori’ e, come tutti, nel tentativo di guardare dentro se stessa per capire i piccoli slittamenti del cuore. Susanna Nicchiarelli ama il personaggio che mette in scena. La segue nelle sue improvvise, e talvolta crudeli, ribellioni senza mai giudicarla alternando dramma e commedia dai toni lievi.
Dalla base del suo fare cinema (che vuole essere anche memoria di un passato non così remoto) segue il volo di questa Valentina Tereskova lanciata nella vita. Ricordandoci che, anche se viviamo in un mondo in cui i miti si sono dissolti per farsi sostituire da ectoplasmi evanescenti, i ragazzi hanno più che mai bisogno di modelli e di regole. Con cui magari scontrarsi. Per poter crescere.

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Videocracy – Basta apparire

In programmazione: 17/12/2009

Descrizione

Un documentario che, a partire dalla trasmissione di uno strip casalingo di una delle prime televisioni private, affronta il tema del potere della televisione in Italia grazie a materiale di repertorio, a interviste esclusive a Lele Mora e a Fabrizio Corona e alla storia di un giovanotto fortemente intenzionato a diventare il Van Damme cantante della televisione.
Diciamolo subito a scanso di equivoci: per il pubblico italiano (sia che sia favorevole o sia che sia contrario a Berlusconi e al suo mondo) non c’è nulla di nuovo sotto il sole tranne qualche gustoso particolare di cui diremo. La vetrina veneziana diventa invece importante come trampolino di lancio per un reportage che batte bandiera svedese e che, quindi, può circolare all’estero. In quelle sedi oltre confine Videocracy potrà trovare la sua giusta collocazione e contribuire a un dibattito sulla situazione italiana.
Per quanto ci riguarda più da vicino, più che il Berlusconi sempre più orgogliosamente autoreferenziale che gli schermi televisivi ci propongono quotidianamente, risultano interessanti le vanità svelate con la guardia più abbassata del solito (si tratta di una produzione ‘nordica’ no?) di Mora e Corona. Mora, dal candore che lo circonda (tutto è bianco intorno a lui nella sua villa in Sardegna) tira fuori l’anima nera che ha dentro con grande semplicità. Il suo cellulare di ultima generazione non solo suona “Faccetta nera” ma propone un video di montaggio in cui a immagini di Mussolini si alternano svastiche e altri aberranti simboli. Visto che vanta, non smentito, una grande amicizia con il premier c’è materia su cui meditare.
Corona invece si dichiara, con quella spavalderia proterva che gli si legge nello sguardo, un “Robin Hood” di nuova generazione. Ruba ai ricchi per dare a se stesso. Si esibisce nudo allo specchio e si fa riprendere mentre conta centinaia di euro. C’è poi l’illuso di turno che troverà meno del quarto d’ora di celebrità di warholiana memoria a “X-Factor”. Ma il ritornare su di lui a più riprese finisce con il far perdere di mordente all’intera operazione. Perché di suoi epigoni è ricco l’universo mediatico europeo e mondiale. I “Grandi Fratelli” (purtroppo) non esistono solo in Italia.

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Ti amerò sempre

In programmazione: 10/12/2009

Descrizione

Sono 15 anni che Juliette non ha alcun contatto con la sua famiglia che l’ha ripudiata dopo la condanna per omicidio. Uscita finalmente di prigione viene ospitata dalla sorella minore Léa che vive a Nancy con il marito, le due bambine adottive e il suocero malato, e con la quale Juliette ha sempre avuto un rapporto molto bello. Il ritorno alla vita però non è facile, tutti le fanno domande sul suo passato e tentano di capire il perché di quel gesto orribile, ma Juliette ha costruito un muro troppo alto intorno a sé e niente sembra più scalfirla. L’affetto di sua sorella e delle sue nipotine la riporterà lentamente a contatto con la realtà e con un mondo che per troppo tempo è andato avanti benissimo anche senza di lei. Il dilemma rimane, come può una donna così dolce e premurosa aver commesso un reato così orribile?
Philippe Claudel, uno dei più celebri e apprezzati scrittori francesi contemporanei, grande appassionato di pittura e di cinema, fa il suo esordio dietro la macchina da presa presentando il suo primo film in concorso alla 58ma Berlinale. Ti amerò sempre è una storia di donne, sulle donne, sulla loro forza interiore, sulla loro capacità di ricostruirsi e di rinascere anche dopo eventi tragici come quello che accade alla protagonista del film, interpretato da un’efficace Christine Scott-Thomas.
Claudel segue giorno dopo giorno il processo di ritorno alla normalità di una donna quasi aliena, che apprende con indifferenza della morte del padre e dell’Alzheimer in stadio avanzato della madre e, quel che è peggio, non sembra vergognarsi affatto del crimine che ha commesso.
I dialoghi sono rarefatti, i silenzi quasi necessari. Le atmosfere molto malinconiche lasciano spesso il posto a qualche perla di umorismo (la più divertente riguarda niente meno che il cinema di Rohmer) e conducono verso un finale risolutore (narrativamente un po’ forzato) che fa finalmente luce sul passato della protagonista. Un buon esordio, anche frutto dell’intelligenza di Claudel, sempre equilibrato e attento a non strafare.

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Frost/Nixon – Il duello

In programmazione: 03/12/2009

Descrizione

1974. Il Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon si dimette dalla carica in seguito all’inchiesta sullo spionaggio condotto ai danni del partito democratico in campagna elettorale, il cosiddetto ‘Watergate’.
1977. Dopo tre anni di silenzio Nixon accetta di farsi intervistare, dietro lauto compenso, da David Frost, giornalista britannico. Per l’uomo politico e il suo staff l’occasione è straordinaria. Frost ha fama di abile intervistatore ma è considerato più affine al mondo dell’entertainment che non a quello di cui Nixon ha fatto parte. Il giornalista è invece così convinto della possibilità di sfondare sul piano della notorietà mondiale, grazie a questa occasione, che è pronto ad intervenire con i propri fondi per coprire le spese. Il rapporto tra i due si rivelerà complesso e non sempre facile ma le loro conversazioni rimarranno nella storia della televisione e non solo.
Ron Howard si dimostra, ancora una volta, in grado di fare spettacolo partendo da una materia che sulla carta non si dimostra particolarmente adatta. Perché lo script del film è di Peter Morgan, il quale ha portato la vicenda sui palcoscenici di Broadway e di Londra con successo grazie ai due protagonisti (Langella premiato anche con un Tony Award). Ma, appunto, di teatro si tratta. Trasformare delle interviste televisive, per quanto storiche, in cinema non è un’impresa facile ma Howard ha centrato il bersaglio. Lo fa grazie a una struttura narrativa che fa tesoro di Cinderella Man e con la consapevolezza che la figura di Nixon ha già goduto del ritratto in nero realizzato da Oliver Stone (un regista esperto in presidenti) grazie alla performance di Anthony Hopkins.
Howard non si concentra solo sui due protagonisti ma costruisce il film su ciò che sta intorno a un’intervista importante. Ecco allora che Frost/Nixon assume le connotazioni di un match di pugilato ad alto livello. A partire dagli allenamenti (la documentazione da una parte, le precauzioni dall’altra) passando per il peso (il primo incontro tra i due in cui iniziano a scrutarsi) fino ai round. Frost apre con un colpo basso a cui Nixon, dopo un attimo di smarrimento, reagisce in modo efficace. Non andrà sempre così e il giornalista dallo sguardo sempre all’erta riuscirà alla fine a mettere alle corde l’avversario a cui gran parte del popolo americano aveva imputato il fatto di essersi dimesso senza ammettere la propria colpa e fare ammenda. Howard però, senza ombre di giustificazionismi a posteriori o di falso pietismo, è interessato non solo ai ruoli e alle dinamiche della politica e dei mass media ma anche all’umanità dei suoi protagonisti. A cui regala un’uscita di scena che si fa ricordare.

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Milk

In programmazione: 26/11/2009

Descrizione

Harvey Milk è omosessuale, è laureato in matematica e lavora presso una Società di Investimenti a Wall Street. A un soffio dagli anni Settanta e dal suo quarantesimo compleanno, Harvey incontra e ama (per sempre) Scott Smith. Trasferitisi a San Francisco con un sogno di amore e di emancipazione, Harvey e Scott aprono un negozio di fotografia nel quartiere Castro. Davanti e dentro il Castro Camera si raccoglierà presto un gruppo di giovani attivisti omosessuali, emarginati (dalla società) e diseredati (dalle famiglie) alla ricerca di un sogno promesso e dei loro diritto contro la campagna di intolleranza avviata dagli ultraconservatori. Sostenuto dai suoi guys e da eterosessuali illuminati, Harvey si candida alla carica di consigliere comunale per una, due e tre volte. La sua terza campagna gli regala l’agognato incarico. Promotore della storica ordinanza sui diritti dei gay e trionfatore sulla Proposition 6, che voleva bandire gli omosessuali dall’insegnamento nelle scuole pubbliche della California, Milk verrà assassinato dal livore e dalla frustrazione di un ex consigliere. Trentamila persone marceranno da Castro al Municipio in una veglia pacifica che dal Settantotto alimenta e sostiene il sogno di Harvey.
Arrivano da una mala noche, dai drugstore rapinati, da uno squat gotico di Portland o da un malfamato skate park, i guys di Gus van Sant, raccolti e accolti nella Castro Camera di Harvey Milk, centro sociale e umano prima che redditizia attività commerciale. Sono i belli e dannati stroncati dalla morte sulle strade lontane da casa della sua filmografia ma sono pure i cowboy fragili e consapevoli del Wyoming di E. Anne Proulx o i mysterious boys di Gregg Araki, giovani vite in irrevocabile rottura con l’universo familiare e rassegnati alla forza di un destino già marcato. Disorientati e alla deriva, “mai pronti per Paranoid Park” e per le rampe e i dossi della vita, i nati perdenti di Van Sant si trasferiscono a San Francisco, dove questa volta diventano adulti e maturi sfidando i “grandi”. Quelli che nei film del regista americano ci sono senza esserci. Genitori divorziati, istruttori, insegnanti, poliziotti, presenze sfocate che si offrono di spalle, incapaci di ascoltare e di intendere, di esprimere e di comunicare. Il corpo giovane dell’America, inghiottito dalla noncuranza degli “educatori”, incontra Harvey Milk, politico e attivista negli anni Settanta, adolescente sensibile e in fuga da un quotidiano ottusamente crudele negli anni Quaranta. Harvey ha vissuto in una clandestinità “volontaria” la sua omosessualità, fino a quando non ha incontrato Scott e poi Clive e poi Jack, Dick, Jim, Danny. Folgorato da persone che versano in condizione di svantaggio (l’omosessualità, ma anche l’etnia, l’origine ambientale, il colore della pelle), le spinge a uscire dalla marginalità cui sembrano obbligate e a lottare per i loro diritti.
Milk affronta l’età adulta del cinema di Van Sant, anticipata da Will Hunting e Scoprendo Forrester. Un dittico, che nonostante l’evidente riduzione dello spessore poetico dell’autore e il linguaggio mainstream con il quale allestisce la rappresentazione, mantiene ugualmente le caratteristiche peculiari della sua scrittura. Come lo psicologo di Robin Williams e lo scrittore di Sean Connery, Harvey Milk è l’adulto che interviene a mediare l’integrazione di eroi socialmente deboli, trovando in quell’esperienza il coraggio di affrontarsi e affrontare i propri fantasmi. L’elezione a supervisor di Milk è il riconoscimento sociale del loro padre di adozione, “doppio” e “simile” che ricopriva nella società un ruolo marginale. Sean Penn e James Franco, coppia poetica che rievoca quella “da marciapiede” di River Phoenix e Keanu Reeves, interpretano la libertà morale delle immagini di Van Sant, indossando cravatta e norme sociali, e vivendo la loro storia “in legittimità”. Rinunciando al disordine mentale e al mondo capovolto abitato dai suoi adolescenti, alla singolarità del suo sguardo e a porsi in netta contraddizione con l’industria cinematografica e la società intera, il regista affronta un tema strettamente personale in un film dal sapore convenzionale e raffinato. Scartando ogni scivolamento nel pruriginoso per farsi ascoltare e frequentando un cinema ampiamente battuto per farsi vedere, Milk riconosce ai cowboy e alle cowgirls il diritto di esistenza e di replica.

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Cherì

In programmazione: 19/11/2009

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Parigi. Inizio del ventesimo secolo. Le arti dominano la vita sempre più intensa della capitale francese. Uno degli elementi catalizzatori delle nuove energie sono (come peraltro in passato) le cosiddette cortigiane. Prostitute di alto livello, partecipano della vita delle classi più elevate. Tra di loro ha un ruolo particolare Léa che, ancora assolutamente attraente, si è ritìrata a vita privata senza alcun rimpianto. Un giorno Madame Peloux, un tempo seducente collega e ora donna priva di fascino, le presenta il figlio che non sembra avere altro nome se non l’appellativo materno “Cherie”. Il giovane è inesperto e Léa dovrebbe, per così dire, ‘svezzarlo’. Ma lo svezzamento si trasforma in una relazione che dura sei anni. Finché, un giorno…
Stephen Frears sembra ormai aver trovato gusto nel lasciare nell’asciugatoio di un prezioso passato della My Beautiful Laundrette le descrizioni del presente per andare a ricercare con caustica ironia le radici dell’oggi nelle pieghe di un mondo apparentemente dorato. Che si tratti di Buckingham Palace (The Queen) o delle audaci proposte di Lady Henderson l’ormai quasi settantenne volge lo sguardo indietro senza spingersi troppo oltre come fece ai tempi di Le relazioni pericolose.
Se all’epoca il riferimento letterario era ‘alto’ oggi Frears può permettersi di andare a rileggere una scrittrice, Colette, che sicuramente non si rivolgeva alle classi più elevate culturalmente. Sa di poterselo permettere grazie alle prestazioni del duo Pfeiffer/Bates che rappresentano, sia sul piano fisico che su quello dei ruoli, degli opposti assolutamente complementari. Nel mezzo, con un volto che ricorda quello di Louis Garrel (ma liberato da un esistenzialismo ostentato), l’oppresso (sin dall’appellativo materno) ma bisognoso di affermazione individuale, Cherie.
È intorno al suo ruolo di maschio sempre più incerto tra il sentimento vero e le convenzioni sociali che entrano in campo le dinamiche di una società incapace di presagire un futuro destinato a ben altri conflitti. Una notazione a margine: la nomination per l’Oscar 2010 almeno per i costumi ci sembra dovuta.

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Vincere

In programmazione: 12/11/2009

Descrizione

Siamo agli inizi del secolo e un giovane socialista rivoluzionario incontra casualmente una donna passionale come lui, Ida Dalser. Quel giovane si chiama Benito Mussolini. Lei lo seguirà nella sua azione politica, assecondandone i cambiamenti di rotta e giungendo fino a spogliarsi di tutto per consentirgli di fondare il proprio giornale, «Il Popolo d’Italia». Gli darà anche un figlio che verrà chiamato Benito Albino e sarà riconosciuto dal padre. Ida però dovrà scoprire che il suo matrimonio, avvenuto in chiesa, ha molto meno valore di quello che Mussolini ha contratto civilmente con Rachele Guidi da cui ha avuto la figlia Edda. L’ascesa dell’uomo politico è inarrestabile così come la sua decisione di escludere dalla propria vita sia Ida che il bambino. La donna cercherà di autoconvincersi che si tratti solo di una messa alla prova che non potrà che risolversi in senso positivo. Invece significherà per lei e suo figlio la morte in ospedale psichiatrico circondati da una cortina di oblio.
Marco Bellocchio affronta una pagina di storia italiana misconosciuta. La notizia era apparsa negli anni Cinquanta su «La Settimana INCOM Illustrata» ma pochi vi avevano prestato credito perchè in quell’epoca i falsi memoriali su malefatte degli esponenti del fascismo inondavano le redazioni. Due giornalisti Rai, Novelli e Laurenti, riprendono di recente le ricerche e realizzano un documentario che va in onda su RaiTre nel gennaio 2005. Da esso emerge una fitta serie di testimonianze sulla veridicità di quanto all’epoca denunciato..
Si può affermare che Bellocchio non poteva non essere attratto da una vicenda che coniugava il tema del potere con le dinamiche della psiche. Ne emerge un film come al solito molto personale che denuncia però una costrizione in cui il regista non si trova a suo agio. La camicia di forza della Storia, con le sue date e i suoi avvenimenti, vincola la narrazione che tenta di liberarsene non riuscendovi sempre. Certo Bellocchio aveva già affrontato di recente la Storia con Buongiorno, notte ma lì aveva potuto lavorare da Maestro ri-costruendo. Qui non può farlo liberamente e se ne avverte la consapevolezza nella scelta stilistica di ricorrere a una modalità narrativa che gli sta particolarmente a cuore: l’opera lirica. L’intero film è costruito come un melodramma sia sul piano musicale che su quello della struttura, con la passione dominante all’inizio a cui seguono la disillusione e la morte.
Su tutto questo prevale però una lettura decisamente interessante e che mette in gioco la psichiatria e, ancor più, la psicoanalisi che studia il rapporto tra il potere e le masse. Mentre la follia diviene sempre più collettiva e partecipata nel Paese, ci suggerisce Bellocchio, diviene quasi indispensabile che la normalità (Ida) venga trattata come devianza. Mentre l’Italia corre verso il baratro della Seconda Guerra Mondiale la Dalser e suo figlio vengono fatti precipitare nella clausura degli Istituti. Dove non basterà l’ammonimento dello psichiatra: «Questo non è il tempo di gridare la verità. È il tempo di tacere, di recitare una parte». Chi non è disposto a piegarsi non può che essere stroncato oppure, come accade nell’immagine più intensa del film, non può che arrampicarsi su sbarre senza via d’uscita per gettare nella neve lettere che mai nessuno leggerà.

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