Zona del lago di Como, inverno 1944. Silvio Magnozzi, partigiano romano, sul punto di essere ucciso da un tedesco, viene salvato da Elena, figlia della proprietaria di un albergo. Silvio si nasconde per qualche tempo in un mulino abbandonato, Elena gli porta da mangiare, nasce una relazione. Una notte l’uomo sparisce e lo ritroviamo a Roma dopo la Liberazione. Lavora in un giornale comunista e un giorno viene incaricato di fare un servizio sull’oro di Dongo, che è molto vicino al paese di Elena. Silvio telefona, Elena lo insulta, ma poi si presenta all’appuntamento e i due vanno a Roma insieme. Da quel momento l'”idealista” Magnozzi vivrà tutte le vicende chiave dell’Italia di quegli anni: il referendum che vede la vittoria della Repubblica, le elezioni del 18 aprile ’48 (quelle della paura comunista), le lotte di classe che lo porteranno in prigione, l’integramento nella ditta del suo vecchio, ricco nemico. Nel frattempo il matrimonio con Elena, donna pratica, ha avuto i suoi problemi. Titolo chiave di un’epoca del nostro cinema. La guerra e il dopo immediato visti quindici anni più tardi. Altri grandi film sulla guerra, come Tutti a casa e Il generale della Rovere, sono di quel periodo. Non ci sarebbe mai più stato un Risi come quello (ricordiamo Il sorpasso e I mostri). Alcuni episodi della Vita sono nel grande libro del cinema italiano: la cena in casa dei principi proprio al momento dell’annuncio che il re ha perso il referendum; Sordi che cerca di dare, disastrosamente, un esame di ingegneria, oppure ubriaco, a Viareggio, che sputa alle macchine che gli passano vicino; e ancora la scena finale del solenne schiaffo dato al commendatore che finisce in piscina. Magnifica stagione, corale, del cinema italiano (dei Monicelli, Risi, Comencini). Certo, più tardi ci sarebbero state le grandi individualità degli autori e dei “poeti” come Antonioni, Fellini e Pasolini, ma Silvio Magnozzi è il magnifico rappresentante delle cose che noi italiani abbiamo fatto, non solo sognato.
2008, Mato Grosso do Sul (Brasile). Le attività economiche della zona sono legate allo sfruttamento in coltivazioni transgeniche dei terreni che in passato appartenevano agli indios e nelle visite guidate a turisti interessati al birdwatching. Lo status quo viene bruscamente interrotto quando Nádio, la guida ascoltata di una comunità indio decide di non poter sopportare lo stillicidio di suicidi di giovani senza più speranza. Inizia così una ribellione pacifica finalizzata a ottenere una restituzione delle terre indebitamente confiscate. Accanto a lui ci sono suo figlio e il giovane apprendista sciamano Osvaldo. I fazenderos inizialmente reagiscono cercando di frenare le spinte più estremiste del loro campo ma comunque ben decisi a non cedere neppure un ettaro di terra agli indios.
I Guarani Kaiowá sono un popolo indio che fin dal ‘600 (ricordate Mission?) hanno subito persecuzioni per non aver accettato l’opera di evangelizzazione dei gesuiti. Ancora oggi, nel Brasile di Lula, la loro sorte è quella di sopravvivere nel degrado delle riserve senza alcuna speranza nel futuro. Così come nelle riserve vivono gli splendidi neoattori di questo film che Bechis ha realizzato con la consueta passione civile unita a una grande lucidità intellettuale.
Il futuro che rischia di trasformarsi per molti giovani in un corpo che penzola da un cappio appeso a un albero sta all’origine di una vicenda che ha nella prima sequenza la sua chiave di lettura. Dei birdwatchers percorrono un fiume su una barca a motore quando, all’improvviso, su una riva compaiono degli indios con archi e frecce. Una volta che i turisti si sono allontanati quegli stessi indios…(Non è bene togliere la sorpresa su quanto accade ma chi vedrà il film potrà comprendere quanto il senso che deriva dal prosieguo dell’azione offra al film una marca molto forte). Bechis osserva sia i fazenderos che gli indios quasi come se fosse a sua volta un birdwatcher, cioè qualcuno che guarda da lontano. L’intento è evidentemente quello di non voler forzare la mano sul piano di una facile adesione emotiva richiedendo allo spettatore un più complesso lavoro di adesione alla lotta contro un’ingiustizia che si perpetua da secoli.
La terra degli uomini rossi diventa così un film di forte denuncia morale e politica senza assumere mai la dimensione del pamphlet. Proprio in questo procedere, che permette alla ragione di prevalere sulla passione, sta la forza di un film che Bechis ha saputo costruire ‘ascoltando’ nel senso più pieno del termine coloro che ogni giorno vivono l’umiliazione di non possedere più una terra che per loro non significa solo cibo ma anche (e soprattutto) radici e cultura.
Angela è appena giunta in Italia dalla Romania avendo trovato un posto come badante a Firenze. La donna anziana di cui si deve occupare è Gemma che ha un figlio sposato che vive a Trieste. Il marito le è appena morto e ha bisogno di aiuto. È però una donna dal carattere molto rigido e autoritario e fa fatica ad accettare che una sconosciuta le giri per casa. Progressivamente però si affeziona alla giovane romena che desidera mettere da parte un po’ di soldi per poi poter avere un figlio dal marito Adrian. Il quale però, durante le festività natalizie, smette di rispondere alle sue telefonate. Angela, che ha saputo che l’uomo è stato licenziato, vuole tornare in Romania per affrontare la realtà .
“Gemma è mia nonna e Angela è stata la sua ‘badante'”. Così dichiara Federico Bondi. È quindi dalla costante osservazione del rapporto instauratosi tra due persone reali che nasce una sceneggiatura riveduta poi da Ugo Chiti. Alla sua opera prima il giovane regista toscano rivela già una notevole propensione alla sobrietà stilistica e, al contempo, si mostra assolutamente in grado di lavorare con gli attori ottenendo da essi il massimo. Ogni singolo gesto di quella grande attrice che è stata ed è Ilaria Occhini rivela la fiducia reciproca che è intercorsa tra regista e attrice. Qualcuno potrà trovare l’argomento un po’ d’occasione ma non è così. Lo si avverte soprattutto nell’attenzione che viene prestata all’evoluzione della dinamica del rapporto tra le due donne. Gemma rivede se stessa giovane in Angela, un po’ alla volta e superando i pregiudizi. La Romania odierna ricorda ancora troppo da vicino l’Italia del secondo dopoguerra per non indurre raffronti e la volitiva fiorentina finisce con l’apprezzare la quieta determinazione della romena che finisce con il considerare come una figlia. Il pudore dei sentimenti che si nasconde dietro un’iniziale ruvidità lascia progressivamente il passo a un’intimità che non si avvale mai della retorica dei buoni sentimenti. Un film d’esordio quindi come ce ne vorrebbero tanti nel panorama del cinema italiano.
Silvana Boarin è la moglie di Giovanni, un industriale bresciano, spesso assente per motivi di lavoro che coprono anche l’esistenza di un’amante. Silvana ha un acceso scontro con la figlia adolescente che difende Maria, la colf rumena accusata dalla madre del furto di un paio di orecchini preziosi. Maria cerca alloggio presso Ianut, suo ex fidanzato appena uscito dal carcere il quale abita in un edificio degradato insieme a Victor, il fratello più giovane. Ianut ha trovato un complice in Marco, un tossicodipendente a cui è stata tolta la custodia del figlio di otto anni. I due, venuti a conoscenza della refurtiva di Maria decidono di andare oltre e di tentare un colpo nella villa dell’industriale.
Una prima premessa necessaria: chi scrive ha talmente apprezzato il primo lungometraggio di Munzi Saimir da inserirlo nella competizione di un festival.
Una seconda premessa ancor più necessaria: le conferenze stampa e i pressbook servono a spiegare le intenzioni del regista ma poi i film debbono parlare da soli e a volte capita che le intenzioni siano una cosa e i risultati un’altra.
È quanto accade con Il resto della notte che parte dalla buona intenzione di voler descrivere il complesso quadro del Nord Italia e finisce con il diventare una descrizione stereotipa della borghesia arricchita e un ritratto in nero di qualsiasi tipologia di immigrato. Intendiamoci: non penso che il cinema debba edulcorare i dati reali sui problemi dell’immigrazione. Quando l’ha fatto mi sono dichiarato contrario (vedi Lettere dal Sahara). Il problema si pone però anche in senso opposto. In questo film gli immigrati rappresentano una minaccia sin dall’inizio, quando Silvana viene circondata da un nugolo di bambini rom che hanno l’unico scopo di derubarla. A costoro fanno seguito la faccia d’angelo di Maria (nei confronti della quale solo la padrona di casa un po’ nevrotica nutre sospetti) che si rivelerà una ladra così come il suo rude compagno il quale trova in un microcriminale italiano un degno partner. L’unico che potrebbe rappresentare un segno di speranza nell’ambito degli immigrati è il giovane Victor inserito in un gioco tragico più grande di lui. Sul versante dei ‘ricchi’ troviamo la positiva figlia dei Boarin quasi che in fase di sceneggiatura ci si fosse sentiti in dovere di lasciare un briciolo di speranza.
Questo però non è il ritratto del Nord con le sue luci e le sue ombre è, molto più banalmente, il confronto tra due amoralità che si confrontano e si scontrano pregiudizialmente e con una delle due (quella degli immigrati alleati con schegge impazzite locali) decisamente più minacciosa. Piacerà sicuramente molto proprio agli spettatori da cui il regista sembrerebbe (secondo le sue dichiarazioni) essere più lontano.
Lorna è una giovane immigrata albanese a Liegi. Per ottenere la cittadinanza si è messa nelle mani del malavitoso Fabio. Costui le ha procurato un matrimonio con Claudy (un tossicodipendente) e Lorna ha ottenuto ciò che desiderava. Ora vorrebbe poter aprire un bar con il suo fidanzato Sokol che fa il pendolare da una frontiera all’altra. Per ottenere la somma necessaria deve però portare a compimento il piano di Fabio. Deve cioè poter ottenere un rapido divorzio per poter così sposarsi nuovamente. Questa volta con un mafioso russo che ha, a sua volta, bisogno della cittadinanza belga. Le procedure rischiano però di essere troppo lente e allora Fabio mette in atto la soluzione che già aveva in mente: elimina Claudy con un’overdose. Lorna mantiene il silenzio ma c’è qualcosa di nuovo nella sua vita.
Qualcosa è cambiato anche nel cinema dei Dardenne. Noti agli appassionati (e vincitori di ben due Palme d’oro con Rosetta e L’enfant) per il rigore di un cinema da sempre attento a scavare nelle cause del dolore delle persone più vulnerabili, i due fratelli vantano caratteristiche stilistiche ben definite. La camera a mano, la scelta del super 16 mm, l’assenza di qualsiasi commento musicale hanno sempre costituito gli elementi identificativi del loro cinema unitariamente a uno stile teso a non aggiungere al film un’inquadratura in più del necessario.
In questa occasione la forma (camera molto meno mobile e scelta del formato 35 mm) sembra avere avuto il suo influsso anche sul contenuto. Lo sguardo che i due fratelli belgi proiettano sul grave problema dell’immigrazione, legalizzata attraverso percorsi illegali, si lascia andare con maggiore disponibilità a un’indagine sui sentimenti venata da un accenno di patetismo. Lorna ha un volto dolcissimo ma è entrata in un’arena in cui dominano i lupi. Se vuole realizzare i propri sogni non può e non deve affezionarsi in alcun modo a Claudy con il quale è costretta a convivere per rispondere ad eventuali controlli delle autorità belghe. Ma Lorna non è un lupo. È una giovane donna che finisce col provare una pietà che sconfina nell’amore per quel relitto umano che le chiede costantemente aiuto per uscire dal tunnel in cui si è infilato. La scoperta di questo sentimento precede di poco l’eliminazione fisica del ragazzo. Il quale muore ma continua a viverle ‘dentro’ al punto da farla sentire in attesa di una nuova vita.
Come sempre i Dardenne offrono nel finale ai loro protagonisti una luce (per quanto fioca) di speranza. È quanto accade anche a Lorna, protagonista dell’inizio di un nuovo corso del loro cinema.
Teheran, 1978: Marjane, otto anni, sogna di essere un profeta che salverà il mondo. Educata da genitori molto moderni e particolarmente legata a sua nonna, segue con trepidazione gli avvenimenti che porteranno alla Rivoluzione e provocheranno la caduta dello Scià .
Con l’instaurazione della Repubblica islamica inizia il periodo dei “pasdaran” che controllano i comportamenti e i costumi dei cittadini. Marjane, che deve portare il velo, diventa rivoluzionaria.
La guerra contro l’Iraq provoca bombardamenti, privazioni e la sparizione di parenti. La repressione interna diventa ogni giorno più dura e i genitori di Marjane decidono di mandarla a studiare in Austria per proteggerla.
A Vienna, Marjane vive a 14 anni la sua seconda “rivoluzione”: l’adolescenza, la libertà , l’amore ma anche l’esilio, la solitudine, la diversità .
Sono rari i film di animazione in grado di far percepire al pubblico le difficoltà dell’esistenza di chi li ha ideati. Spesso impegno in difesa dei diritti e qualità grafica non convivono. In questo caso il connubio è perfettamente riuscito. Marjane Satrapi è riuscita a trasformare i quattro volumi di fumetti in cui raccontava, con dolore e ironia, la propria crescita come donna in un Iran in repentina trasformazione e in un’Europa incapace di accogliere veramente il diverso, in un lungometraggio di animazione di qualità . Ha anche un altro merito che le va attribuito: è riuscita a sfuggire alle sirene hollywoodiane che la volevano sedurre con la proposta di film in cui Jennifer Lopez sarebbe divenuta sua madre e Brad Pitt suo padre. Ha tenuto duro e ne è nata un’opera in bianco e nero (con lampi di colore) capace di raccontare un’infanzia e un’adolescenza al femminile comune e differente al contempo. Comune perchè tante giovani donne si potranno ritrovare nel suo percorso di crescita. Differente perchè la donna in Iran è (per chi ha dettato e detta le leggi) meno donna. Per una volta ci venga concessa una citazione diretta: vedere questa giovane regista non riuscire più a trattenere le lacrime nel corso di una standing ovation durata 15 minuti a Cannes dava la misura della difficoltà di una vita ma anche della necessità di non dimenticare lo springsteeniano “No retreat no surrender”.
Quando scende la notte Stoccolma si scopre intollerante e violenta. Dentro le case e fuori, sulle strade, esplode l’odio incontrollato di padri, mariti, fratelli. In una di queste notti si incrociano i destini di Leyla, figlia di una numerosa famiglia mediorientale, cresciuta secondo un rigido codice morale e religioso, Carina, madre generosa e giornalista di talento, umiliata dalle parole e dalle percosse di un marito meschino e geloso, e Aram, giovane proprietario di un locale, innamorato di uno degli uomini della sicurezza. Con modi e tempi diversi, Leyla, Carina e Aram impareranno a difendersi e a reagire ai soprusi. Il mondo è duro con tutte le donne che cercano di adattarlo alle proprie esigenze e alle proprie inclinazioni invece di lasciarsi condizionare dai genitori, dai mariti, dai fratelli o dalla persona amata.
Di questo riferiscono I racconti di Stoccolma di Anders Nilsson: delitti d’onore, violenze domestiche e tentati omicidi. Il regista scandinavo affronta (nel primo episodio) il problema dell’automatizzazione religiosa e culturale eretta a sistema, fondata sul culto della differenza, della gerarchizzazione e della categorizzazione. Leyla e la sorella maggiore Nina non sono definite a partire dalla loro individualità ma secondo legami di dipendenza all’interno della struttura familiare: sono figlie, sorelle e, se non verranno meno alle aspettative sociali e religiose sul ruolo che sono chiamate a ricoprire, saranno mogli.
In caso di trasgressione (anche solo presunta) la donna assume una posizione di irregolarità nella comunità , che provoca una rappresaglia feroce da parte del gruppo “disonorato”. Lo schema concettuale non cambia per Carina o per Arem, a cui vengono negate l’identità e la possibilità di essere felici. Quelle di Leyla, Nina e Arem sono vite “interrotte”, vite “chiuse in casa” che il regista osserva al microscopio, soddisfacendo il bisogno voyeuristico dello spettatore, mostrando i fatti, svelando e raccontando davvero troppo. Una storia, meglio, tre storie così impongono un obbligo: quello di avere uno sguardo morale. Sguardo che difetta al regista.
Anders Nilsson esplicita tutto il senso del sotteso a una violenza, a un sopruso, a un abuso. I racconti di Stoccolma prestano il fianco al gioco dei buoni e dei cattivi senza considerare che l’infamia è sempre il prodotto delle istituzioni più che delle personalità che in esse operano.
Un’occasione sprecata per ribadire le ragioni profonde di un’ingiustizia: la pratica del dominio che gli “uomini” esercitano sulle donne. Una riflessione perduta per denunciare la scarsa coscienza collettiva e i limiti culturali di tutti quelli che considerano la vita di una donna come un’appendice a quella dell’uomo e la sua morte un’occasionale violenza fisica e non la cancellazione dell’identità e del diritto a una vita indipendente. Peccato.
John e Wendy sono un fratello e una sorella che vivono lontani e si sentono raramente, alle prese con gli stessi problemi: entrambi insoddisfatti della propria vita sentimentale e professionale si trovano all’improvviso a doversi prendere cura dell’anziano padre, non particolarmente amato, sprofondato negli abissi della demenza senile e cacciato dalla casa in cui si trovava dopo la morte della sua compagna. Passando da una casa di cura all’altra, i due impareranno a conoscersi e a conoscere meglio il proprio genitore…
Trattare il tema della vecchiaia, della famiglia e della morte senza scadere nel melodramma è cosa ardua: ci riesce brillantemente Tamara Jenkins che, prodotta da Alexander Payne (che aveva già trattato il tema nel riuscito A proposito di Schmidt, anni fa), firma uno dei film più interessanti, coinvolgenti e sinceri degli ultimi anni. La parabola dei due loser (lei continua per forza d’inerzia una storia di sesso con un uomo di mezza età coniugato, lui è un professore frustrato e abbandonato dalla partner che non vuole sposare), è raccontata senza concessioni alla retorica e il loro rapporto con il padre morente è quanto più realistico, crudo ed essenziale visto da parecchio tempo a questa parte. Efficace sulla carta, La Famiglia Savage diventa memorabile, una volta messo in scena, grazie all’interpretazione “definitiva” di tre attori eccezionali: se Philip Seymour Hoffman e Laura Linney, tra i migliori della propria generazione, sono ormai da anni sulla cresta dell’onda e riconosciuti anche dal grande pubblico, un nota particolarmente felice viene da Philip Bosco, anziano caratterista di straordinario talento ma poco noto da noi, che cesella finemente, con una vena grottesca e ironica, un uomo cui restano pochi giorni da vivere, scorbutico e ben lontano dallo stereotipo di “nonnino gentile e affabile” cui il cinema americano ci ha abituato fin troppo spesso.
Efficace nei dialoghi, incredibilmente ben musicato dall’ottimo Stephen Trask e graziato da uno dei finali più coerentemente ottimistici degli ultimi anni, La Famiglia Savage è un tragico, comico, romantico, piccolo, grandissimo film da non perdere.
Romania 1992. Tre anni dopo la caduta del regime di Ceausescu Miloud Oukili, clown di strada francese di origini algerine, giunge a Bucarest. Qui si trova di fronte a una realtà terribile. Centinaia di bambini dai tre ai sedici anni vivono nel sottosuolo della città , sopravvivono grazie a furti, accattonaggio e prostituzione. Si tratta di bambini scappati da squallidi orfanotrofi o da altrettanto deleterie situazioni familiari. Miloud ha un sogno: vincere la loro indifferenza a tutto (causata anche dai vapori di colla o di vernici che inalano come droga). Ci riesce con lavoro lungo e faticoso conquistandone la fiducia e trasformandoli in artisti di strada che oggi sono noti in tutto il mondo.
Marco Pontecorvo, noto direttore della fotografia, prosegue la ricerca appassionata nei confronti delle storture della società che già era propria dell’indimenticato padre Gillo (a cui il film è dedicato). Lo fa con rispetto per la materia, consapevole com’è della difficoltà di raccontare una realtà che ha i suoi protagonisti (Miloud in testa) tuttora attivi e riconoscibili. Pontecorvo tocca inevitabilmente le corde della commozione (in particolare grazie alla bravura del giovanissimo neoattore che interpreta Cristi) ma lo fa con pudore, attento com’è a non realizzare un’agiografia dal tono un po’ favolistico ma consapevole di una tragica condizione umana ancora non sanata (a Bucarest come in altre, troppe parti del mondo). La clownerie, così come nella vera storia dei ragazzi, diventa l’occasione di sorriso in mezzo al dolore. Si tratta però sempre di un sorriso amaro in cui però una regola domina: quella del rispetto per la parola data e per le persone. Una regola che troppo spesso la società dimentica.
India. Un malinconico uomo di mezza età scende frettolosamente da un taxi e insegue un treno in partenza. Durante la corsa si accosta a lui un individuo allampanato, più giovane, che gli lancia un’occhiata fugace e lo supera riuscendo a salire al volo sul treno. Da questa pittoresca corsa al ralenti inizia il viaggio del “Darjeeling Limited”, lo sgangherato convoglio che ospita i tre fratelli Whitman durante il loro tragicomico viaggio indiano. Dopo uno sguardo di rammarico verso l’uomo rimasto a terra, Peter (Adrien Brody), fuggito di casa un mese prima della nascita di suo figlio, raggiunge infatti i due fratelli in un colorato scompartimento, dopo un anno di silenzio seguito alla morte del padre: Francis (Owen Wilson), il maggiore, è la mente che ha ideato il viaggio dopo un brutto ma illuminante incidente stradale di cui porta ancora i segni sul corpo (in particolare sul viso, perennemente avvolto da bende), mentre Jack (Jason Schwartzman), il minore, è un buffo aspirante scrittore col cuore a pezzi, di ritorno da un prolungato, ozioso soggiorno parigino in un hotel di lusso (l’Hotel Chevalier che dà il titolo al cortometraggio con Natalie Portman, ideale prologo del film).
Un viaggio in un’India colorata e pittoresca, autentica (drammatica perfino) e surreale al tempo stesso, si trasforma nell’ennesimo confronto familiare all’interno del cinema di Wes Anderson: tre fratelli immaturi, aristocratici e dispettosi (un po’ come i capricciosi fratelli Tenenbaum) si ritrovano a distanza di tempo a fare i conti col presente, cercando di guardarsi dentro e provando a confrontarsi con la figura genitoriale. Ma oltre al padre, figura da sempre ingombrante nel cinema di Anderson, questa volta diventa fondamentale il confronto dei tre fratelli con la figura materna (la sempre raffinata Anjelica Huston, “mater familias” andersoniana fin dai tempi de I Tenenbaum), diventata suora attivista e ciononostante madre immatura e codarda. Significativa eccezione tra le donne forti e determinate dipinte da Wes Anderson, costanti guide di uomini immaturi e poco affidabili.
Ancora una volta il regista texano d’adozione newyorkese si confronta con una famiglia problematica e disfunzionale, affetta da una noia aristocratica e da uno spleen salingeriano curato con gocce e pozioni indiane, shopping tra spezie e serpenti velenosi, e fugaci rapporti sessuali consumati frettolosamente nella toilette di un treno. Per la prima volta la sessualità si fa spazio in maniera più esplicita tra i casti e pudichi sentimenti provati dai teneri personaggi andersoniani: segno di un’avvenuta maturazione all’interno del percorso di crescita del regista. Idealmente iniziato con la formazione adolescenziale di Max Fischer in Rushmore, il viaggio esistenziale di Wes Anderson prosegue, dopo Le avventure acquatiche di Steve Zissou, con un altro viaggio, fisico ed emotivo, a bordo di un treno che è la versione ferroviaria della Belafonte, la vecchia nave naif del team Zissou. Il treno per il Darjeeling inizia là dove finiva I Tenenbaum, dopo la morte del padre, e porta avanti l’elaborazione del lutto da parte dei figli con spirito comico e funerario, una surreale commistione di dolore e divertimento degna di Harold e Maude.
Con spirito forse meno comico, emotivamente più distaccato, ma sicuramente più maturo, Wes Anderson costruisce ancora una volta un’opera personale ed eccentrica, facendosi aiutare per la prima volta nella sceneggiatura da Jason Schwartzman (suo amico fin dai tempi di Rushmore) e dal cugino Roman Coppola, per mettere in piedi un nostalgico road movie familiare su tre fragili e vulnerabili uomini a zonzo. I capisaldi del cinema di Anderson ci sono tutti: dall’eccentricità dei personaggi ai colori accesi delle scenografie, fino al corredo sonoro anni ’70 (i Kinks, i Rolling Stones), supervisionato ancora una volta da Randall Poster. Ma il suo meticoloso perfezionismo visivo, a tratti quasi maniacale, pur non mancando di raffinati dettagli scenografici a bordo del treno – dai costumi della brava Milena Canonero alla boccetta retrò di “Voltaire n. 5”, fino ad arrivare all’onnipresente set di valigie (disegnate da Marc Jacobs per Louis Vuitton e ornate dai disegni naif del fratello Eric Anderson, già illustratore della camera di Richie Tenenbaum) – lascia spazio a una fotografia più autentica del reale paesaggio indiano, fotografato da Robert Yeoman nella sua imprevedibile e imperfetta naturalezza. Altro segnale di crescita nel mondo ovattato e perfezionistico solitamente dipinto dal regista, un mondo di teneri, viziati antieroi che alla fine del loro peregrinare, fanno sempre un passo in avanti. Proprio come i tre fratelli Whitman, che concludono il loro viaggio circolare così come è iniziato, aprendosi però all’imprevedibilità della vita liberi del simbolico fardello delle valigie. Ancora una volta a bordo di un treno in corsa. Un treno che può perdersi pur viaggiando su dei binari.