Sinfonia d’autunno

In programmazione: 24/04/2008

Descrizione

In un villaggio tra i fiordi della Norvegia, Charlotte, affermata pianista, si reca dopo sette anni a far visita alla figlia Eva, sposata con un pastore protestante. La madre non sa di trovare anche l’altra figlia, Helena, malata da tempo, e che in passato aveva relegato in una clinica. Il dialogo tra Eva e Charlotte finirà col vertere su un doloroso passato di incomprensioni e mancanze, fino al momento in cui la madre deciderà di andarsene senza una reale conciliazione.
Di produzione norvegese, Sinfonia d’autunno appare probabilmente come il film più manierista di Ingmar Bergman, fu lo stesso regista ad ammetterlo, un dramma da camera a porte chiuse il cui obiettivo è spingere lo spettatore al dialogo con i propri fantasmi, alla pacificazione con se stessi attraverso l’altro. Da grande drammaturgo qual è, il cineasta orchestra una sonata d’autunno (nel titolo originale non compare la parola “sinfonia”) per due strumenti da sempre male accordati tra loro, posti su due lunghezze emotive diverse. In certo modo, la loro divergenza nel percepire l’essenza delle cose è rintracciabile per intero nella splendida sequenza in cui Charlotte suona al piano il Preludio n. 2 di Chopin invitando, poi, la figlia ad eseguire lo stesso pezzo per finire col criticarne, in maniera sottile quanto ferma, l’esecuzione. Come per il precedente L’uovo del serpente, realizzato sempre fuori patria, in Germania, l’ispirazione sembra essersi gelata in una concezione di spettacolo troppo chiusa, senza particolari slanci creativi, quasi fossimo spettatori di un riflusso di vecchie ossessioni. Tra i critici c’è stato anche chi si è intelligentemente chiesto se, nel rapporto dialogico tra le due donne, non vi fosse il desiderio di descrivere una sola unità: «Non potrebbe trattarsi di un esame di coscienza fatto dalla madre in forma allegorica? Le figlie allora rappresenterebbero l’una il suo fallimento come pianista, l’altra il suo fallimento come donna» (Alfonso Moscato, Ingmar Bergman. La realtà e il suo doppio, Edizioni Paoline, p. 68).
Come accade per quasi tutti i lavori del grande cineasta, i singoli contributi sono di primo piano, dalla fotografia di Sven Nykvist alla prova di due fuori classe della recitazione, sebbene un’insistita linearità, specie nell’organizzazione a flashback, tenda a licenziare un’opera senza particolare mordente espressivo. È il primo e unico film in cui Ingrid lavora con Ingmar: il loro rapporto lavorativo fu di grande stima, ma di non facile gestione.

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L’avventura

In programmazione: 17/04/2008

Descrizione

I protagonisti de L’Avventura sono sostanzialmente tre: Sandro (Ferzetti), architetto, Anna (Massari), ricca e viziata, legata a Sandro, e Claudia (Vitti), romantica e abbastanza per bene, e amica di Anna. Durante una crociera alle Eolie, Anna scompare. Tutto il gruppo di amici la cerca fra gli scogli e in mare, fino a notte. Nulla. La cosa è molto misteriosa, viene avvertita la polizia. Sandro e Anna decidono di cercarla per proprio conto. Arrivano in Sicilia e di paese in paese domandano di Anna. Ma continuano a non venire a capo di niente, la donna è come un fantasma imprendibile. Ritrovano i loro amici, tutti squinternati, senza morale, senza vocazioni, senza niente, solo con un po’ di soldi: una del gruppo seduce un giovane artista nel suo studio, praticamente davanti agli occhi di Claudia. Nel frattempo qualcosa è nato fra Sandro e Anna: un sentimento indecifrabile e indefinibile, che comunque si consuma in un campo vicino a una ferrovia. Anna ne è abbastanza felice, ma anche impaurita: ha tradito la sua amica. Sandro, su un campanile, improvvisamente chiede a Claudia di sposarlo, poi si lamenta del proprio lavoro: lui, architetto che fa i calcoli per i progetti degli altri. Nella piazza di una chiesa rovescia di proposito un calamaio sul disegno di una giovane. Li ritroviamo in una piazzetta di Taormina, all’alba. Lui è seduto su una panchina, lei gli si avvicina e, faticosamente, lo accarezza. Questo film consacrò Antonioni a livello internazionale. Il regista aveva trovato un equilibrio esatto e suggestivo, fotografando paesaggi e sentimenti con pulizia e rigore e lasciando trasparire nelle possibilità di comportamento dei personaggi cose che potevano anche essere sconvolgenti. Niente era dipendente da una volontà, non c’erano onestà, coerenza, umanità, logica, speranza, al massimo poteva esserci convenzione. Sandro è tutto questo, capace di fare qualsiasi cosa, di prendere tutte le decisioni in quel momento. Non ha morale, non ha talento, non ha volontà, parla e non si fa capire, ascolta e non capisce. È solo educato, com’era, come continua ad essere la borghesia che interessa ad Antonioni. Nel precedente Il grido il regista si era assunto responsabilità minori, tutto era determinato dalla necessità e dal piccolo sentimento, quasi dalla biologia. Per questo L’avventura mantiene minore vedibilità rispetto al primo, che è un’opera d’arte totale e perfetta, anche se, appunto, di respiro più corto. Certo, c’è sempre il gesto finale di Claudia, che può essere un richiamo di tenerezza e di speranza. Il film ebbe un clamoroso successo a Cannes (1960) anche se non vinse la Palma: è ormai tradizione consolidata che il film migliore non vinca la Palma ma ottenga premi speciali della critica. I temi deL’Avventura, distruttivi e senza speranza, indussero la magistratura a sequestrare il film per oscenità e offesa al pudore. Del resto l’incomprensione fa parte della liturgia del mito. Da secoli.

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Nightwatching

In programmazione: 03/04/2008

Descrizione

Rembrandt insieme a Caravaggio e Vermeer, è sicuramente uno dei pittori più cinematografici di tutti i tempi, quello che più ha ispirato il cinema grazie al suo sapiente uso della luce. Un film che “dipingesse” la sua storia e il suo mondo di luci e ombre non poteva che essere girato da un regista dallo spirito pittorico ed estetizzante come Greenaway, studioso di arte e pittore prima ancora che regista.
Forse anche per affinità ideologiche e personali, il regista gallese ha scelto di raccontare un particolare periodo della vita di questo mugnaio di provincia diventato in poco tempo, a soli 23 anni, una celebrità nell’Olanda del ‘600: un “mélange tra Mick Jagger e Bill Gates” (parole di Greenaway), se avesse vissuto nella nostra epoca. Nightwatching indaga proprio sul punto di rottura, sul momento di passaggio in cui la carriera di questo artista all’apice del successo ricevette una scossa, portandolo sul lastrico non solo a livello economico, ma anche sociale e personale.
Ambientato nel 1642, il film racconta la genesi del suo più celebre dipinto, “Nightwatching” (“La ronda di notte”) appunto, inizialmente intitolato “La milizia”, ritratto di gruppo di una milizia civica di Amsterdam. Lavorando al dipinto, Rembrandt scoprirà la cospirazione che i suoi committenti stanno orchestrando, e ciò lo spingerà a trasformare coraggiosamente il dipinto in un vero e proprio atto d’accusa contro i potenti.
Da qui l’inizio delle sue sventure, che Greenaway ha voluto indagare, costruendo una vicenda che si muove tra misteri criminali, satira politica e passioni amorose, e ripercorrendo la vita del pittore e di chi gli stava attorno all’epoca.
Il racconto di un crollo, del decadimento di un uomo che, a differenza dei tanti ritratti di artisti sregolati visti al cinema, è dipinto da Greenaway innanzitutto come un uomo comune, carnale e con i piedi per terra. Un uomo semplice, di provincia, ritratto anche nel suo lato più materiale e sgradevole, ma proprio per questo più autentico e ironico (merito anche dell’interpretazione dell’appesantito Martin Freeman, lontano dai suoi consueti ruoli comici, british e un po’ “sfigati”). Quasi mai ritratto nell’atto del dipingere, come ci si potrebbe invece aspettare da una biografia d’artista, il personaggio di Rembrandt trova la sua forza nei comportamenti quotidiani, nel rapporto con la moglie, nei suoi sogni visionari, ma soprattutto nell’abilità del regista di costruire in ogni immagine dei veri e propri tableaux vivant, dei giochi chiaroscurali di luci e ombre che sono la perfetta trasposizione in movimento dei dipinti/fotogrammi di Rembrandt, autentico anticipatore della settima arte.
Il movimento dei personaggi nel campo non fa che arricchire la sua pittura. E, a differenza che in altre opere di Greenaway, qui il suo stile intrinsecamente pittorico, curatissimo ed estetizzante, non scivola mai nel freddo manierismo, ma è funzionale alla messa in scena e al contenuto di un profondo e coinvolgente ritratto d’artista. Un artista che probabilmente è stato, senza saperlo, il primo uomo di cinema della storia.

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Cous Cous

In programmazione: 27/03/2008

Descrizione

Beiji, 60 anni, lavora alla riparazione delle imbarcazioni nel porto di Sète, vicino a Marsiglia. Poco disposto alla flessibilità che la nuova organizzazione impone, viene licenziato. Beiji è divorziato e ha una nuova compagna ma non ha perso i contatti con la famiglia. Ora l’uomo vuole realizzare un sogno: ristrutturare una vecchia imbarcazione e trasformarla in un ristorante in cui proporre come piatto forte il cuscus al pesce. Nonostante le difficoltà economiche Beiji trova l’aiuto di tutti i familiari e l’impresa pare destinata al successo. Abdel Kechiche, dopo quel film particolarmente interessante e ‘nuovo’ che è stato La schivata, torna a parlare del mondo che conosce meglio e cioè di quello degli arabo-francesi integrati da decenni nella società dell’area marsigliese ma comunque, in qualche misura, visti sempre come ‘diversi’. Non c’è però alcun pietismo buonista nel suo cinema. C’è piuttosto, in particolare in questo film, la voglia di raccontare le dinamiche familiari in un ambito in cui gli uomini pongono problemi ma non li risolvono. Sono le donne, pur con le loro invidie reciproche e le frustrazioni più o meno espresse, a prendere in mano le situazioni anche nei momenti di maggiore crisi cercando una via d’uscita, talvolta traumatica e talaltra propositiva.
Kechiche si muove in un contesto sociale che è giä stato ampiamente analizzato da Robert Guediguian (il porto in area marsigliese) ma lo fa con una grande leggerezza che non permette di avvertire la lunghezza del film offrendo un racconto corale che parla di uomini e donne, della loro fatica di vivere ma anche del desiderio di riscatto e dell’imprenditorialità familiare che lega le persone con i sentimenti e con un obiettivo da raggiungere insieme nonostante i contrasti personali. Nello sguardo di Beniji si può leggere un’intera vita fatta di lavoro, un passato che però non conta più nulla dinanzi ai nuovi ritmi produttivi e alle esigenze del ‘mercato’. Ma Beniji non vuole,come gli suggerisce il suo capo, ‘avere più tempo per i nipotini’ (che pure adora). Vuole sentirsi un uomo che ha ancora da dare qualcosa alla società. Il cous cous potrebbe essere la soluzione. Potrebbe.

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Redacted

In programmazione: 20/03/2008

Descrizione

Iraq 2006. Una pattuglia di soldati americani, soffocati dal caldo e annoiati dalla ripetitività della missione, decide durante una partita a poker di appagare i propri appetiti sessuali stuprando un’adolescente. Rush e Flake, imbottiti di droga, fanno scempio della ragazza e della sua famiglia, McCoy, contrario sin dal principio all’iniziativa, fa la guardia alla casa mentre Salazar registra l’evento sognando di entrare nella scuola di cinema.
Il soldato McCoy è blandito dal grasso e ottuso Rush, che cerca di convincerlo della legittimità dell’accaduto. Non prende una posizione netta ma col tempo l’indignazione lo condurrà a denunciare alle autorità militari i compagni d’armi, confessando lo stupro che non ha consumato ma nemmeno impedito. L’ostinazione del soldato si spingerà fino alla “pubblicazione” in Internet del video incriminante di Salazar.
Il pessimismo di De Palma sulle possibilità concrete di vittoria del singolo sul Sistema era già stato dichiarato, se pure in maniera più accattivante e con la propensione tutta hollywoodiana al lieto fine, in Vittime di guerra e nel Falò delle vanità. Rispettivamente un morality play e una commedia grottesca sulla bassezza della natura umana e sull’involuzione del sistema capitalista. La questione morale, al centro di queste opere, torna a farsi urgente in Redacted, ispirato a un fatto di cronaca ignorato e passato sotto silenzio.
De Palma rinuncia a fare un cinema politico nel senso hollywoodiano, coniugato a una massiccia dose di spettacolarità, preferendo questa volta una narrazione piana e fluida. In primo piano rimane unicamente il desolante paesaggio umano e morale di un gruppo di ragazzi convinti che l’Iraq sia un pianeta sconosciuto, dove i valori possono essere ribaltati.
Lasciando inalterata o quasi la struttura narrativa di Vittime di guerra e abbandonando i virtuosismi linguistici e l’irrefrenabile inquietudine della macchina da presa, il regista del New Jersey torna a denunciare, o meglio “a mostrare”, i vizi del sistema.. Cercando nei blog, nei siti e nei post dei soldati americani in Iraq, De Palma ha recuperato e messo insieme un materiale sconvolgente e scomodo, che ha riversato sullo schermo per sottoporlo a un pubblico più vasto.
Redacted esprime l’avvenuta azione (legale) di “ripulitura” di documenti, foto, lettere, prima della pubblicazione. Il redacting di De Palma monda il “ripulito” restituendo i volti cancellati, recuperando la parola depennata, girando il già girato. La forma del suo cinema muta con la maturazione individuale del regista e in pari misura è determinata dall’evoluzione dei nuovi “formati” di riproduzione della realtà. A partire da queste modalità costruisce un racconto fatto ad arte, scrivendo un documentario francese a cui applica l’Händel kubrickiano. L’ultima ripresa è dedicata al racconto di guerra del soldato McCoy, reduce disperato e morente come il Cavaradossi di Puccini, che suona sul frame stop (melo)drammatico dell’epilogo.

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Sogni e delitti

In programmazione: 13/03/2008

Descrizione

Colin Farrell e Ewan McGregor sono due fratelli di origine proletaria. Il primo fa il meccanico, ha il vizio del gioco e un’attrazione fatale per il whisky, il secondo aiuta il padre al ristorante e coltiva confuse ambizioni di riscatto sociale. Quando il ricco zio, trasferitosi in Cina per affari, va a trovarli, i due si precipitano a chiedergli un prestito per uscire dai rispettivi impasse: uno è infatti nei guai con i creditori per aver contratto un debito di gioco, mentre l’altro ha perso la testa per una sensuale, misteriosa e volubile attrice dilettante, con la quale sogna di trasferirsi a Los Angeles. Lo zio si rivela disponibile ad aiutarli, ma pone una condizione pesante come un macigno: sarebbero disponibili a uccidere un suo nemico in affari, le cui rivelazioni potrebbero costargli la galera? Terzo capitolo della trasferta londinese di Woody Allen dopo Match Point e Scoop, Sogni e delitti, presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia del 2007, non aggiunge né toglie un granché alla filmografia del cineasta newyorkese. Temi e suggestioni sono dalle parti di Match Point: ancora scellerati sogni di ascesa sociale, soglie morali di non ritorno, delitti e castighi. Il registro è nero, secco, senza concessioni né alla famigerata ironia del regista né al mélo passionale del primo film della trilogia londinese.
McGregor e Farrell, alla prima esperienza con Woody, si mettono efficacemente al servizio della mediocrità e del vuoto esistenziale dei personaggi, a loro agio nei grigi sobborghi di una città che lavora per vivere, lontano mille miglia dall’upper class cara ad Allen. Ma la buona prova del cast, così come le musiche di Philip Glass e la fotografia superlativa di Vilmos Zsigmond, non basta a riscattare il film da una manierata patina di già visto: Woody stenta a risultare incisivo sia sul piano della satira sociale che su quello del noir etico ed esistenziale. In attesa del prossimo film girato in quel di Barcellona, non resta che gustarsi questo gradevole ma evanescente esercizio di stile.

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Guido che sfidò le Brigate Rosse

In programmazione: 06/03/2008

Descrizione

Nella Genova degli anni di piombo Guido Rossa, un sindacalista dell’Italsider, si oppone al tentativo da parte delle Brigate Rosse di coinvolgere la classe operaia nell’abbattimento dello Stato Imperialista delle Multinazionali. Guido (Massimo Ghini) è un uomo rispettato e stimato, non si risparmia nell’aiutare il prossimo ed è deciso a combattere le azioni propagandistiche del movimento terroristico. Nel frattempo la cellula brigatista genovese che fa capo al Vecchio (Mattia Sbragia), nella quale militano l’ambizioso Roberto (Gianmarco Tognazzi) e l’agguerrita compagna Nora (Elvira Giannini), ha preso di mira l’Italsider cercando di fare proseliti. Il film di Giuseppe Ferrara ripercorre alcune tra le pagine più buie della nostra storia attraverso le gesta di un uomo coraggioso, intrecciando alla sua vita pubblica e privata i crimini commessi dalle BR. La vicenda di Guido Rossa – Medaglia d’Oro al valore civile – rischiava di finire nel dimenticatoio di un’Italia che “non cerca gli scheletri negli armadi”, e per ricostruirla il regista ha fatto un lavoro accurato, raccogliendo le testimonianze di chi era stato al suo fianco e aveva combattuto con lui. Gli operai da una parte e i brigatisti dall’altra, la speranza e il terrore, la vita e la morte. Ferrara non si trattiene dal condannare e giudicare le azioni di coloro che non erano “compagni che sbagliavano”, ma veri e propri sicari che, come citato nei titoli di coda, “hanno contribuito allo spostamento a destra del Paese”. La forma narrativa elementare, scelta probabilmente per rendere il film accessibile a tutti, si presta più a un utilizzo televisivo che non cinematografico. Nonostante ciò, mentre la prima parte sembra mettere insieme i punti salienti di una serie a puntate, creando nella trama un effetto a “singhiozzo”, la seconda si fa più fluida e coinvolgente. La fotografia di Riccardo Gambacciani (La cosa di Nanni Moretti) ritrae alla perfezione il periodo storico contemplato e l’inserimento di filmati d’epoca, nonché il riutilizzo di uno spezzone da Il caso Moro, fa scorrere il film sul filo documentaristico senza modificarne il linguaggio. Realizzato con il patrocinio dell’associazione per il Centenario della Cgil, Guido che sfidò le brigate rosse è un’opera necessaria. Per non dimenticare.

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Gli amori di Astrea e Celadon

In programmazione: 28/02/2008

Descrizione

Gallia al tempo dei druidi (V secolo d.c.). Il pastore Céladon è innamorato della pastorella Astrée la quale, per un equivoco, crede di essere stata tradita e intima all’amato di non farsi più vedere. Céladon, disperato, si getta in un fiume ma non muore. Viene salvato dalle ninfe alle quali giurerà di non ripresentarsi mai più ad Astrée. Il desiderio però è troppo forte e il giovane farà di tutto per rivedere la fanciulla senza infrangere la promessa.
Eric Rohmer torna a rileggere cinematograficamente un testo del passato, dopo le ormai lontane esperienze di Perceval le Gallois e de La marchesa von…. Lo fa con un testo di un romanzo del XVII secolo di Honoré d’Urfé nel quale trova materia per continuare, in altri termini, la sua ciclicamente ritornante riflessione formale sul ‘sentire’ della giovinezza. Interviene sul testo con una scelta di regia in cui la finzione è molteplice e dichiarata. La didascalia iniziale ci informa che non si è potuto girare nei luoghi in cui il romanzo era ambientato perché ormai deturpati dalla modernità (e subito torna alla memoria il polemico film L’albero, il sindaco e la mediateca). Inoltre ci ricorda che i costumi di scena non si rifanno al V secolo dopo Cristo in cui la vicenda si sviluppa ma al modo in cui nel XVII secolo si immaginava che i romani si vestissero. Tutto quindi ri-costruito. A quale scopo? Sembrerebbe che l’ormai anziano e sempre schivo Rohmer non si senta più in grado di raccontare i giovani d’oggi come se il gap generazionale fosse per lui ormai incolmabile. Ecco allora che si ‘rifugia’ nella rilettura ormai ‘antica’ dei miti e di un’epoca che sembra distante anni luce dal mondo odierno e chesicuramente lo è.
Però in definitiva il gioco del desiderio, del rapporto tra i sessi, dell’accecamento prodotto dall’eccesso di desiderio di possesso finiscono col ripresentarsi, anche se sotto forme diverse. Lontano dal cinema spettacolare così come da quello dell’impegno sociale Rohmer continua in perfetta solitudine la sua indagine. Con il sorridente rigore che gli è proprio.

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I Vicerè

In programmazione: 21/02/2008

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Sicilia. Ultimi anni di dominazione borbonica prima della nascita dello stato italiano. La morte della principessa Teresa introduce la famiglia Uzeda discendente dei vicerè di Spagna. Le vicende degli Uzeda e i loro intrighi, raccontati negli anni attraverso gli occhi di Consalvo, l’ultimo discendente, rappresentano la società dell’epoca in rapido divenire, in cui sopravvivere significa innanzitutto essere schiavo di regole e tradizioni.
Liberamente tratto dall’omonimo romanzo del 1894 di Federico De Roberto, il film di Faenza è innanzitutto un quadro famigliare. I luoghi, le abitudini, le parentele, l’invidia, l’onore e il denaro, sono introdotti in modo impietoso, nella prima parte del film. L’insieme e il singolo sono descritti efficacemente attraverso momenti chiave in cui gli Uzeda si ritrovano: le esequie della principessa, la lettura del testamento, la nascita di un figlio, la caduta dei Borboni. Sono questi gli attimi in cui il film riesce a convincere, grazie anche alle credibili ambientazioni, alla fotografia di Maurizio Calvesi (che utilizza luci e ombre, alternando teatralità e realismo), ai costumi di Milena Canonero, e all’ottima interpretazione di Lando Buzzanca, arrogante pater familias.
Quando la storia si sposta però sulla crescita e sulla vita di Consalvo (Alessandro Preziosi), I vicerè abbandona il ritratto d’insieme e mostra un personaggio in bilico fra perfida anarchia e celata redenzione, che non riesce ad affascinare, paradossalmente perchè esce dagli stereotipi dell’eroe, sia esso positivo o negativo. Consalvo, potenzialmente un paladino di un’Italietta cha già allora era fondata sui compromessi, disorienta, e si manifesta in molteplici situazioni che dovrebbero servire a descrivere il suo essere, e che creano tuttavia un senso di ripetitività. È necessario sottolineare come il progetto di Faenza sarà sviluppato, in seguito, in versione estesa per la televisione (i campi infatti sono spesso molto stretti), e, di conseguenza, il percorso del protagonista, così come messo in scena, si adatterà meglio al piccolo schermo.
Se, infine, I vicerè vuol essere un parallelo fra la società attuale e quella dell’epoca (la politica entra in scena nell’ultima parte), il rischio che affronta è quello di puntare su concetti semplici e diretti, che sfiorano il didascalismo, con la coscienza di saper trasferire il messaggio quando è la famiglia a parlare, eterno manifesto di ciò che siamo. Sia ieri che oggi.

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Lussuria – Seduzione e tradimento

In programmazione: 14/02/2008

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Hong Kong, anni ’40. Wang Jiazhi, giovane donna militante nella resistenza cinese, con le sue grazie deve sedurre Mr. Yee, potente politico che collabora con i giapponesi, per tendergli un’imboscata e ucciderlo. La ragazza non ha previsto però che giocare con la passione può essere molto, molto pericoloso.
Il dramma sentimentale di Ang Lee, che si immerge in un mondo, quello di Hong Kong e Shangai, trait d’union fra Oriente e Occidente (che rispecchia anche la doppia anima del regista), è una profonda analisi dell’amore e dell’educazione sessuale di una donna che si trova coinvolta in un intricato groviglio di obbligo e passione. In uno scenario di collaborazionismo e di dominio giapponese, le vicende, che potrebbero essere un parallelo dell’epopea della resistenza in Europa durante il secondo conflitto mondiale (Gioco di donna, Black Book), accennano solo a una mera critica al periodo. Sono gli sguardi e la relazione impossibile fra Wang Jiazhi e Mr.Yee a coinvolgere e dare vita al film, dopo una primissima parte fredda e a tratti complessa da seguire. Le giocate al Mahjong, tutte al femminile, sono il contraltare della prima cena fra i due protagonisti che si scrutano e si provocano con scopi diversi e opposti. Per poi compiere il primo passo con l’acquisto dell’abito nel negozio di stoffe, e assurgere alle scene di sesso, plastico, in cui i corpi si fondono in quadri di carne. Il percorso di passione di donna mostrata da Ang Lee (che ha la capacità di costruire un sentimento tanto vero quanto profondo), e interpretata magistralmente con estrema sensualità da Tony Leung e Wei Tang, si concretizza in un gioco a due, in cui preda e cacciatore, si alternano in modo repentino, per concludersi in una scelta dovuta e dolorosa: cedere alla passione dell’oppressione o credere nell’amore per la resistenza?

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Giorni e nuvole

In programmazione: 07/02/2008

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Elsa e Michele sono felicemente sposati, hanno una figlia e una splendida casa dove coltivano il loro amore e ricevono amici affettuosi. Elsa si è appena laureata in Storia dell’Arte e lavora al recupero di un affresco attribuito al Boniforti, Michele è stato invece estromesso dall’azienda dai suoi stessi soci, che ritenevano la sua gestione poco competitiva. Dopo la confessione del licenziamento, Elsa e Michele sono costretti a riconsiderare e ridimensionare il loro (alto) tenore di vita. A quarant’anni si confronteranno drammaticamente col mutato mercato del lavoro.
Con Giorni e nuvole, Silvio Soldini dimostra ancora una volta l’originalità dello sguardo e una straordinaria capacità di sapere tradurre questioni esistenziali in metafore estetiche. Dopo la leggerezza di Agata e la tempesta che, insieme a Pane e tulipani, in molti e forzatamente hanno letto come deviazione dal corso del suo cinema, Soldini sceglie di raccontare una storia dolorosa dentro un paesaggio sociale popolato dal disagio e dall’insicurezza.
Secondo un procedimento ripreso in tutti i suoi lavori, Soldini fa (sempre) accadere qualcosa ai personaggi che genera nella loro esistenza un vuoto, una disponibilità di tempo sgombro dalle occupazioni consuete. Questo intervallo permette ai protagonisti di guardare le cose con altri occhi e di considerare e sperimentare altre possibilità. Lo scarto temporale si accompagna a un’analoga dislocazione dello spazio: dopo aver perso il lavoro Elsa e Michele traslocano.
Ma se Nell’aria serena dell’ovest, in Un’anima divisa in due e ancora nelle Acrobate i personaggi scelgono spontaneamente di lasciare il lavoro e di abbandonare la propria casa per partire in cerca di un altrove, in Giorni e nuvole non ci sono fughe deliberate a sud o verso il Monte Bianco. C’è una città di mare (Genova) dove (re)stare, dove le nuvole “vanno, vengono e ogni tanto si fermano”, c’è un lavoro perso e un altro da trovare, c’è una vita a cui rinunciare e un’altra da “campare”.
Soldini riflette sull’equazione tra lavoro e tempo: il lavoro organizza il nostro tempo, se si lavora poco si perde tempo, se si lavora molto si guadagna tempo. Quando il Michele di Albanese perde il lavoro entra perciò in un tempo dell’attesa e dell’introspezione. Incapace di ri-organizzarsi la vita senza i ritmi dell’azienda, il protagonista vive una progressiva perdita di definizione. Michele appartiene alla borghesia alta e intellettuale, una classe che ha fatto del lavoro la misura di ogni cosa e la fonte della propria identità. Elsa, abituata a riflettersi nel lavoro del marito e a godere del prestigio sociale e delle opportunità (laurearsi e fare senza compenso la restauratrice) della loro condizione, trova uno, due, tre lavori per provare a rientrare nella “normalità” da cui sono usciti. I due protagonisti sono avvolti da un velo di sofferenza non detta, da una cortina impenetrabile che rende inutile qualsiasi contatto umano. Capiranno insieme, distesi a contemplare l’affresco del Boniforti, che è l’amore (e non il lavoro) a “produrre” valore e realizzazione personale.

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In memoria di me

In programmazione: 31/01/2008

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Dopo l’osannato esordio di Private, Saverio Costanzo torna dietro la macchina da presa con un film che conferma e loda le sue capacità registiche. Girato interamente in un convento gesuita (nell’isoletta veneziana di San Giorgio Maggiore) è la storia di Andrea, un uomo ricco e vincente che non si accontenta della sua esistenza materiale, andando alla ricerca di risposte che solo la meditazione e il ritiro spirituale possono soddisfare.
Nella confraternita, Andrea scopre il volto del silenzio e la forza della fede, continuando a dar sfogo ai dubbi che lo assalgono, dando loro voce e condividendoli con gli altri novizi. Sarà proprio l’amicizia con uno di loro, il ribelle Zanna, a convincere Andrea dell’inadeguatezza del luogo e dell’impossibilità del suo credo. Ma non necessariamente la (ri)scoperta di se stessi, è di per sé sufficiente ad assopire tutti i dubbi e far apprezzare la ritrovata libertà. Saverio Costanzo dimostra di saper gestire appieno le difficoltà legate a un tema ambizioso e usurato come quello della fede, evitando via via le trappole e le banalità nascoste nel percorso.
Tutt’altro. Il dovizioso lavoro in sceneggiatura non pecca in presunzione, restituendo un “testo” che si avvicina per forza spirituale a un trattato teologico, disseminato al proprio interno da brani e citazioni che non necessariamente pretendono di caldeggiare un punto di vista o una soluzione. Quello del regista romano non è un film religioso, ma un complesso tentativo di restituire alle immagini e allo schermo la forza della riflessione, abbandonandosi senza freni alle grandi domande dell’esistenza. Aiutato da un cast eccezionale – che va da Christo Jivkov a Filippo Timi – accompagnato da musiche che danzano al ritmo di valzer e dalla ritualità delle pratiche quotidiane che prendono vita nel convento, il film trova il tempo per insinuare il tema dell’amore, divino o carnale che sia, nella mistica e spesso dura ripetizione delle proprie omelie. Asciutto e delicato.

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Quattro minuti

In programmazione: 24/01/2008

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L’ottantenne Traude Krüger si reca ogni giorno presso il carcere femminile di Lickau dove insegna a suonare il pianoforte a un numero sempre più esiguo di allieve. Il corso rischia di essere chiuso ma la donna, grazie anche alla solidarietà di un guardiano, riesce a convincere il direttore. Un giorno però sarà la stessa guardia carceraria, massacrata di botte da una detenuta, Jenny, a cambiare idea. Jenny è infatti in carcere accusata di omicidio. Ha uno straordinario talento per il piano ma è preda di crisi di violenza che la gettano nello sconforto. Traude, inizialmente diffidente nei suoi confronti, deciderà di insistere riuscendo, nonostante i vincoli burocratici e non posti dal personale del carcere, a portarla fino alle soglie di un Concorso per giovani pianisti. C’è però un altro ostacolo che pare insuperabile: Jenny ama svisceratamente l’hip hop col quale riesce ad esprimere sulla tastiera la sua creatività e la sua rabbia. Traude invece lo detesta.
I film sul rapporto insegnante-allievo/a in cui l’uno cerca di spingere l’altro a esprimere il suo talento grazie al rigore rischiano sempre di fare la stessa fine: conflitti, incomprensioni, progressi e poi il trionfo che fa contenti tutti. Non è così in 4 minuti dove la dinamica narrativa è molto più complessa e affronta direttamente non solo il tema dell’arte e di chi ne è dotato ma anche quelli, altrettanto importanti, dell’influsso di un passato il cui peso è difficile da portare e della rieducazione in ambito carcerario.
Traude e Jenny non sono due personaggi da “romanzo di formazione” trasposto sullo schermo. Sono due esseri reali (la sceneggiatura ha vinto nel 2004 un importante premio in Germania) fatti di nervi, di rigidità, di scarsi abbandoni e di improvvisa (per Jenny) quanto incontrollabile violenza. Sono due donne ferite nel profondo che cercano (l’una chiudendosi in un rigore quasi ottocentesco e l’altra cercando la regola della nessuna regola) una via d’uscita. Che passa anche attraverso il rifiuto dell’altro come persona. Come se fosse possibile insegnare e apprendere senza mettersi in relazione al di là della ‘tecnica’. Le due protagoniste saranno costrette reciprocamente a scoprirsi ad accettare pregi e difetti dell’altra (anche quelli che sembrano non emendabili). Solo così potranno dare un senso a una ‘rieducazione’ che dovrebbe essere lo scopo di ogni carcerazione e che invece molto (troppo) spesso non lo è. A dare corpo e nervi a Traude e Jenny Monica Bleitbtreu e Hannah Herzsprung. Attrice notissima in patria la prima e figlia d’arte la seconda costituiscono un’ulteriore prova del fatto che il cinema europeo esiste ed è in buona salute. Ma i nostri schermi parlano quasi solo americano (doppiato).

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Il vento fa il suo giro

In programmazione: 17/01/2008

Descrizione

Quando si incontrano sul proprio cammino pellicole simili, vien da gridare che il cinema italiano non solo non è morto, ma si ha voglia di abbassare la testa e volgere lo sguardo altrove, vergognandosi persino di averlo pensato. Girato interamente nelle valli occitane del Piemonte, un ex professore decide di trasferirsi con tutta la sua famiglia – una moglie e tre figli – in un paesino di poche anime, sulle montagne, per poter vivere secondo natura. Nella diffidenza generale, Philippe e sua moglie vivono di pastorizia, cercando di raggiungere quel difficile equilibrio con le cose del mondo e con gli anziani abitanti del posto.
Il film di Giorgio Diritti vale almeno quattro stelle. Una per il coraggio, due per le difficoltà della distribuzione (il film fa la spola fra una sala e l’altra di Italia, dove il mercato non sembra accorgersene, mentre all’estero ha fatto incetta di premi e riconoscimenti), la terza per la prova corale di tutti gli attori, bravissimi e non professionisti (eccezion fatta per Thierry Toscan e Alessandra Agosti), la quarta per risarcirlo moralmente di tutto ciò che ha subito e per tutto ciò che subirà, nella cecità dei nostri critici e dei nostri speculatori culturali. “E l’aura fai son vir” – questo il titolo occitano del film – si riferisce al detto popolare che vuole il vento una metafora di tutte le cose, un movimento circolare in cui tutto torna, come rappresentato nel film dalla figura di uno scemo del villaggio che corre nei prati simulando il gesto del volo. Questa pellicola, senza scomodare miti e profeti, ha la forza di un trattato antropologico, ma senza perdersi nella retorica dei buoni sentimenti, sottolineando piuttosto come la vita si componga di sensazioni contrastanti e sgradevoli, in un cinismo che contagia, ma rende liberi da pregiudizi e ipocrisie. Tre aggettivi per descriverlo? Genuino, inaspettato, meraviglioso. Come le anime salve che descrive, uomini in cerca di un senso che l’esistenza stessa allontana ogni giorno di più.

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Soffio

In programmazione: 20/12/2007

Descrizione

Una giovane madre in crisi coniugale (il marito la tradisce) si innamora di un detenuto condannato a morte che ha tentato di suicidarsi. Riesce a incontrarlo nel parlatorio sconvolgendo i suoi sentimenti e suscitando reazioni nei suoi compagni di cella uno dei ne quali ne è geloso. Il marito scopre quanto sta accadendo e cerca di recuperare il rapporto.
Kim Ki-Duk ha ormai acquisito una capacità produttiva e realizzativa invidiabile. Riesce a realizzare in tempi brevissimi film che non mancano mai di stupire piacevolmente il pubblico del cinema di qualità anche se la critica internazionale, dopo averlo scoperto e promosso, sta progressivamente prendendone le distanze. Forse perché il suo è un cinema troppo personale (nel senso più pieno del termine) per continuare a piacere a lungo a chi cerca la novità per la novità. Il conflitto tra l’amore e la passione che si fa tutt’uno con il sesso, tra lo spirito e la carne che sembra a volte pretendere la violenza sono problemi che attraversano tutto il suo modo di fare cinema e che anche in questa occasione si ripropongono.
Ancora una volta l’irrazionale irrompe in una vita ‘normale’ così come in quella di qualcuno che ha la morte con sé per averla procurata ad altri e aver cercato di darla a se stesso. La donna offre al condannato quel respiro che lui si è sottratto ma di cui anche lei sente il bisogno. Un respiro che può però anche trasformarsi repentinamente nel suo contrario: la soffocazione.
L’interiorità di lei si è trasformata in un angelo con un’ala ripiegata che ha bisogno di spiccare il volo e che trova lo spazio nell’angusta dimensione di un carcere. Il regista sudcoreano sa bene come esprimere le tensioni interpersonali filtrandole attraverso l’uso delle immagini. L’uomo ha bisogno di immagini e di simulacri e questo film in particolare se ne occupa. La televisione, il circuito interno della prigione che registra gli incontri tra i due, i graffiti sul muro, le foto che la donna dona al condannato, gli stessi fondali iperrealistici che utilizza come sfondo con cui ‘ricreare’ il parlatorio sono tutti legati alla necessità di trasformare in immagini l’esperienza e al contempo fissarla per poterla in qualche modo possedere. Ma si tratta di un possesso fragile e reversibile. Come pupazzi di neve destinati a liquefarsi.

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Le vie en rose

In programmazione: 13/12/2007

Descrizione

La pellicola, ambientata in Francia e a Praga, ripercorre i drammi e le gioie di una delle leggende della canzone francese e internazionale, Edith Piaf. Nata nei sobborghi parigini, la diva diventa famosissima fin da giovane. La sua voce, caratterizzata da mille sfumature, era in grado di passare da toni aspri a toni dolcissimi. Molte le sfortune e i fatti negativi: incidenti stradali, coma epatici, interventi chirurgici, delirium tremens e anche un tentativo di suicidio. La pellicola di Dahan ricostruisce bene una delle sue ultime apparizioni pubbliche in cui appare piccola e ricurva, con le mani deformate dall’artrite e con radi capelli. Solo una cosa era rimasta inalterata e splendida: la sua voce.
Il fatto che il regista abbia preso come spunto iniziale per il film una fotografia della cantante e non la sua musica non ci sorprende affatto. Conferma, anzi, il taglio pienamente cinematografico dell’opera. Partire da questo punto è sinonimo di un omaggio che rifiuta il didascalismo e una ricostruzione strettamente biopic. Il termine corretto è ritratto che, oltre a esaltare il talento artistico della Piaf, si addentra nel cuore della sua complessa umanità. Il regista, pur documentandosi a lungo, ha preferito seguire le proprie idee senza farsi influenzare da qualcuno in particolare (amici, conoscenti) o da letture intraprese.
La scelta di evitare il taglio biografico si sviluppa attraverso un doppio binario. L’ottima interpretazione di Marion Cotillard che fugge qualsiasi tentativo imitatorio e nasconde, sottilmente, il preciso intento di dare alla performance stessa una vita sua, lontana da condizionamenti o costruzioni esterne. In secondo luogo, il regista, consapevole di riduttive letture critiche, ripercorre alcuni dei fatti principali della sua esistenza senza rispettare l’esatta cronologia. Ogni frammento di vita sembra giustificarsi grazie a quello precedente. Il senso delle cose prende quota piano piano lavorando di addendi. Le molteplici facce della diva emergono con una soave naturalezza rendendo facile e scorrevole la lunga visione del film.

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Le vite degli altri

In programmazione: 06/12/2007

Descrizione

Berlino est, 1984. Il capitano Gerd Wiesler è un abile e inflessibile agente della Stasi, la polizia di stato che spia e controlla la vita dei cittadini della DDR. Un idealista votato alla causa comunista, servita con diligente scrupolo. Dopo aver assistito alla pièce teatrale di Georg Dreyman, un noto drammaturgo dell’Est che si attiene alle linee del partito, gli viene ordinato di sorvegliarlo. Il ministro della cultura Bruno Hempf si è invaghito della compagna di Dreyman, l’attrice Christa-Maria Sieland, e vorrebbe trovare prove a carico dell’artista per avere campo libero. Ma l’intercettazione sortirà l’esito opposto, Wiesler entrerà nelle loro vite non per denunciarle ma per diventarne complice discreto. La trasformazione e la sensibilità dello scrittore lo toccheranno profondamente fino ad abiurare una fede incompatibile con l’amore, l’umanità e la compassione.
All’epoca dei fatti, quando le Germanie erano due e un muro lungo 46 km attraversava le strade e il cuore dei tedeschi, il regista Florian Henckel von Donnersmarck era poco più che un bambino. Per questa ragione ha riempito il suo film dei dettagli che colpirono il fanciullo che era allora. L’incoscienza e la paura diffuse nella sua preziosa opera prima sono quelle di un’infanzia dotata di un eccellente spirito di osservazione. La riflessione e l’interesse per il comportamento della popolazione, degli artisti e degli intellettuali nei confronti del regime comunista appartengono invece a uno sguardo adulto e documentato sulla materia. Ricordi personali e documenti raccolti rievocano sullo schermo gli ultimi anni di un sistema che finirà per implodere e abbattere il Muro.
La stretta sorveglianza, le perquisizioni, gli interrogatori, la prigionia, la limitazione di ogni forma di espressione e l’impossibilità di essere o pensarsi felici sono problemi troppo grandi per un bambino. Le vite degli altri ha così il filo conduttore ideale nel personaggio dell’agente della Stasi, nascosto in uno scantinato a pochi isolati dall’appartamento della coppia protagonista. È lui, la spia, il singolare deus ex machina che non interviene dall’alto, come nella tragedia greca, ma opera dal basso, chiuso tra le pareti dell’ideologia abbattuta dalla bellezza dell’uomo e dalla sua arte. Personaggio dolente e civilissimo, ideologo del regime che in un momento imprecisato del suo incarico si trasforma in oppositore. Il “metodo” della sorveglianza diventa per lui fonte di disinganno e di sofferenza, perchè lo costringe a entrare nella vita degli altri, che si ingegnano per conservarsi vivi o per andare fino in fondo con le loro idee. Gerd Wiesler contribuisce alla riuscita dello “spettacolo” con suggerimenti, correzioni (alle azioni della polizia), aggiustamenti (dei resoconti di polizia) e note di regia che se non avranno il plauso dei superiori avranno quello dei sorvegliati. “Attori” che recitano la vita ai microfoni della Stasi e nella cuffia stereo dei suoi funzionari. La vita quotidiana fatta di paure ed espedienti è restituita da una fotografia cupa e bruna, tinte monocromatiche che avvolgono i personaggi decisi a sopravvivere, a compromettersi e a resistere. La Stasi aveva un esercito di infiltrati, duecentomila collaboratori, Donnersmarck ne ha scelto uno e lo ha drammatizzato con la prova matura e sorprendente di Ulrich Mühe. Il drammaturgo “spiato” è invece Sebastian Koch, l’ufficiale riabilitato di Black Book, intellettuale “resistente” per salvare l’anima del teatro e della Germania.

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Sicko

In programmazione: 29/11/2007

Descrizione

Michale Moore colpisce ancora. Questa volta il suo bersaglio è il sistema sanitario statunitense che costringe migliaia e migliaia di persone a morte certa perché prive di un’assicurazione. Ma questo argomento non è che il prologo di Sicko perché in un breve arco di tempo l’attenzione si concentra su quelli che invece una copertura assicurativa ce l’hanno ma scoprono che le grandi e piccole società del settore escogitano qualsiasi strategia per evitare di pagare il dovuto.
Moore conosce alla perfezione i meccanismi della denuncia e quando ci mostra persone rispedite a casa (con taxi pagato però) senza alcuna cura perchè non in grado di sostenere le spese di ricovero o un uomo che, essendosi tranciato falangi di due dita lavorando, ha dovuto scegliere quali farsi riattaccare e quali non sulla base del prezzo, colpisce il bersaglio. La situazione americana in materia ha superato il limite del sopportabile e l’accusa è precisa e circostanziata. Moore però mostra, ancora più che nei film precedenti, i suoi punti deboli. Non ama il contraddittorio se non per metterlo in ridicolo e in questa occasione ha deciso di escluderlo totalmente. Nessun dirigente delle Società di assicurazione compare nel documentario. Ciò che poi più colpisce è l’immagine da Alice nel Paese delle Meraviglie che ci propone delle società canadese, inglese e, in particolare, francese. In quei mondi tutto sembra essere perfetto e idilliaco in materia di assistenza medica. Sappiamo bene che non è così ma Moore non sa resistere alla tentazione di idealizzare rischiando così in realtà di indebolire un j’accuse assolutamente fondato.
Quando fa scorrere sullo schermo con la grafica di Star Wars l’elenco delle malattie escluse da copertura assicurativa si ride ma lo si fa con l’amaro in bocca. Quando poi ci mostra i volontari che l’11 settembre 2001 si precipitarono a Ground Zero per aiutare nei soccorsi riportando malattie croniche che nessuno si preoccupa di aiutarli a curare non si ride più. Si pensa solo al cinismo e alla retorica della dirigenza di una grande nazione che ‘usa’ i propri veri eroi. Moore risponde a tutto ciò con il grottesco che gli è proprio. Subissato come tutti i suoi compatrioti da informazioni tranquillizzanti sul trattamento (anche dal punto di vista medico) dei detenuti di Guantanamo decide di portare i suoi volontari malati nella base americana per garantire loro le cure che l’Amministrazione Bush dichiara di prestare ai membri di Al Qaeda arrestati. Ovviamente non riesce nell’impresa e li fa curare dai medici di Cuba nelle cui farmacie un medicinale che negli States costa 120 dollari può essere acquistato per 50 centesimi. Questo lo ha fatto mettere sotto inchiesta per espatrio illegale e altre violazioni dell’embargo nei confronti di Cuba. È il tipo di clamore che il regista cercava? Forse sì. Forse no. Nonostante le esagerazioni di cui sopra resta però nello spettatore la sensazione che Moore creda profondamente alla frase di Tocqueville che inserisce nei titoli di coda: “La grandezza di un Paese si misura sulla sua capacità di porre rimedio ai propri errori”.

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La ragazza del lago

In programmazione: 22/11/2007

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Una giovane donna, annegata in un lago della provincia friuliana, viene rinvenuta nuda lungo la sponda. Sulla morte misteriosa di Anna, studentessa e giocatrice di hockey, indaga il commissario Giovanni Sanzio, padre ruvido e introverso di Francesca. Affetto da una dermatite atipica e dimenticato dalla consorte che soffre di una malattia degenerativa del sistema nervoso, Sanzio ricerca con passione metodica le ragioni pubbliche del delitto e quelle private della vita. Procedendo in un’indagine investigativa ed esistenziale scoverà l’assassino e il principio dell’ordine nel perverso sconvolgimento dell’omicidio.
È stato già detto ma è bene ripeterlo. Esiste il cinema mistificatorio di fiction e il cinema della realtà, non necessariamente nelle forme del realismo. L’opera prima di Andrea Molaioli appartiene alla seconda categoria, che annovera già adepti illuminati e illuminanti: Marra, Garrone, Sorrentino, Gaglianone. È evidente che i due approcci non si possono accomunare: il primo è intrattenimento, il secondo è riflessione critica, è cinema che anticipa criticando l’esistenza.
Tratto dal romanzo della norvegese Karin Fossum e sceneggiato dal questa volta “scompagnato” Petraglia, il film di Molaioli mutua i fiordi nei laghi della Carnia proponendo nella forma del giallo tematiche solitamente scartate dalla fiction consolatoria. Sopra un cinema che promuove frammenti di felicità senza prezzo, La ragazza del lago si impone e fa la differenza. Cimentandosi col cinema di genere, il regista romano gira un film sull’Italia di oggi, sulla provincia omologata tanto a nord quanto a sud. Nel Friuli rinato dalle macerie dei terremoti di crollo, tipici dei terreni carsici, restano sepolti i tanti personaggi, ugualmente colpevoli e ugualmente innocenti, personaggi che hanno una qualche mancanza, a cui è accaduto qualcosa che impedisce loro di essere pienamente. I loro disagi non sono quelli della classe media-borghese (adulterio, crisi di mezza età, ambizioni economiche), perché a Molaioli non interessa l’approccio sociologico o statistico alle cose.
Il regista lavora “in togliere”, eliminando i dati di cronaca e tutto quello che avrebbe reso scabrosa la vicenda. Alla fine rimane la storia di un dolore insopportabile, formalizzato nelle convenzioni narrative e stilistiche del genere. Più il film si avvicina alle dinamiche profonde ed eterne dei rapporti umani, più riesce a fissare lo sfondo, la copertura, il dato quotidiano. La ragazza del lago rivela inoltre un lavoro di conoscenza e preparazione svolto a stretto contatto con gli attori. Su tutti le interpretazioni senza isteria di Toni Servillo, in grado di misurarsi con tutti i generi, le maschere e i registri, e Fabrizio Gifuni, troppo spesso confinato in ruoli indegni del suo talento, che possiede la raffinatezza della semplicità assoluta.

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4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

In programmazione: 15/11/2007

Descrizione

Otilia e Gabjta sono due studentesse universitarie che alloggiano nel dormitorio di una città romena. Siamo negli anni che precedono la caduta del regime di Ceausescu e Gabjta affitta una stanza d’albergo in un hotel di bassa categoria. Ha un motivo preciso: con l’assistenza dell’amica ha deciso di abortire grazie anche all’intervento di un medico che però rischia l’arresto, essendo l’interruzione procurata della gravidanza un reato. Otilia resta a fianco dell’amica soffrendo intimamente per quanto sta accadendo e scoprendo progressivamente la fragilità della sua condizione umana.
Il film di Cristian Mungiu si inserisce nel progetto “Tales from the Golden Age” che intende proporre in più film l’epoca che precede la fine del comunismo in Romania passando attraverso piccole storie individuali. Il regista nato nel 1968 conosce bene la materia che ha deciso di trattare e mostra una certa sicurezza nell’impianto stilistico del film. Gli manca però la capacità di inserire, magari anche solo per piccoli accenni, il clima politico dell’epoca con la sua progressiva marcia verso la dissoluzione. Ci troviamo quindi di fronte a una storia universale (in Romania o altrove l’aborto procurato è comunque e sempre un dramma) proposta con una sorta di distaccata partecipazione. In particolare è attraverso lo sguardo e la sofferenza di Otilia che partecipiamo al trauma. È lei, quasi più che l’amica, a divenire sempre più consapevole del vuoto che la circonda, della solitudine profonda da cui sembra impossibile uscire. Così quel feto che inizialmente il regista sembra non volerci mostrare ma che poi compare in tutta la sua fragilità è una sorta di ‘doppio’ della protagonista ormai priva di un futuro.

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