Senso

In programmazione: 03/05/2007

Descrizione

La contessa Livia Serpieri, moglie di un aristocratico filoaustriaco, parteggia segretamente per i patrioti italiani. L’incontro con un giovane ufficiale austriaco, Franz Mahler, è fatale. La contessa si innamora perdutamente del giovane, che sembra ricambiarla. In realtà l’uomo cerca di ottenere del denaro per comprare il suo esonero. È la vigilia della battaglia di Custoza. Avuto il denaro il giovane scompare. Accecata dalla gelosia, Livia, dopo un drammatico confronto con l’ex amante, lo denuncia. L’uomo viene fucilato sotto gli occhi della donna, ormai preda di una follia senza speranza. Senso è un film che rasenta la perfezione. Frutto di tutte le belle qualità del regista, messe assieme, la pellicola ha una carica espressiva di inestinguibile bellezza. L’inizio nel teatro, davvero travolgente, sembra dire che la realtà di quel momento storico non poteva che essere rappresentata con enfasi lirica. In questo caso con una grande intuizione che unisce il melodramma rappresentato sul palcoscenico alle vicende vissute dai protagonisti, con la medesima apprensione romantica. L’impeto del tenore, che intona il celebre Di quella pira, le uniformi bianche degli ufficiali austriaci e la pioggia di volantini tricolori dipingono con rapidi e magistrali tocchi il momento storico. Sequenza da incorniciare. Come i rumori delle battaglie e lo slancio passionale di Alida Valli. Franz Mahler, autentico angelo del male, doveva in un primo tempo essere interpretato da Marlon Brando. Per quanto Farley Granger sia bravo non possiamo che rimpiangere questa assenza. Unico punto debole, facilmente individuabile, è la collaborazione ai dialoghi di Tennessee Williams e Paul Bowles. Così lontani dalla materia che compone il film. La loro influenza si evidenzia soprattutto nella sequenza nella quale la contessa Serpieri scova il suo amante con una giovane prostituta. La violenza dei dialoghi sembra condurre il film nelle paludi tenebrose del sud degli Stati Uniti. L’uso del colore è strepitoso. Sorprendente l’omogeneità, nonostante la collaborazione di tre diversi direttori della fotografia. Morto in un incidente durante le riprese G. R. Aldo, fu sostituito da Robert Krasker. Mentre la fulminante sequenza della fucilazione è opera del quasi esordiente Giuseppe Rotunno. Senso, tratto da un racconto breve di Camillo Boito, può essere considerato il film più viscontiano del suo autore e vanta una perfetta aderenza al clima storico che rappresenta. La chiacchierata maniacalità del regista per i dettagli ha in realtà tutta l’aria di essere una lezione per il cinema italiano tutto, così incline negli ultimi trent’anni a una sciatteria di stampo politico, che rinnega i valori espressivi e culturali a vantaggio di contenuti evaporati per mancanza di un contenitore.

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Still life

In programmazione: 26/04/2007

Descrizione

Due tristi storie d’amore e lontananza. Nel villaggio di Fengjie, luogo desolato e sommerso dall’acqua a causa della costruzione della diga delle Tre Gole, Han Sanming è un uomo che giunge con l’obiettivo di ritrovare la figlia che non ha mai visto, ma si ritrova a lavorare come demolitore per potersi permettere il soggiorno. Shen Hong invece è un’infermiera alla ricerca del marito (ingegnere a Fengjie) che non vede da due anni e sul quale scoprirà verità poco piacevoli che la porteranno a un’importante scelta di vita. Due tristi storie d’amore narrate con uno stile essenziale e minimalista fanno da contrappunto a uno spaccato sulla realtà sociale della Cina odierna, ritratta dal regista cinese di Dong (documentario presentato a Venezia nella sezione Orizzonti) attraverso i toni spenti e opachi di un paesaggio grigio e umido, specchio delle due anime inquiete protagoniste del film. In questo scenario arido, quasi apocalittico, ritratto dal regista con timore e sentita partecipazione attraverso una macchina da presa delicata e spesso immobile, si consumano due storie sommesse, sussurrate e silenziose. La camera segue il tono emotivo, sempre contenuto, della vicenda, accordandosi ai sentimenti di due protagonisti che mai urlano il proprio dolore; ma l’impressione che deriva da queste immagini suggestive e poetiche (come quella finale che ritrae un equilibrista sospeso sullo sfondo di uno scenario desolato) è di generale e diffusa freddezza. Freddezza che, insieme all’acqua che ha sommerso il villaggio di Fengjie, pare aver investito il cuore dei suoi abitanti e dei due visitatori.

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Cuori

In programmazione: 19/04/2007

Descrizione

Nicole sta cercando un appartamento per un futuro matrimonio con Dan, il quale è stato di recente radiato dall’esercito ed è senza lavoro. L’agente immobiliare è l’anziano Thierry il quale è segretamente innamorato della religiosissima collega Charlotte la quale gli presta cassette di programmi cattolici al cui termine compaiono lunghe riprese di lei che si spoglia. Charlotte di sera fa la badante al vecchio e satirico genitore di Lionel che fa il barista in un locale di cui Dan è un assiduo frequentatore e in cui dà un appuntamento al buio a Gaëlle, sorella di Thierry.
Ancora una volta il Maestro Resnais affronta con il tocco che gli è proprio un nuovo (per lui) modo di fare cinema. Si tratta di teatro di un grande autore come Alan Ayckbourn che gli dà un copione da grande teatro londinese su cui Resnais interviene da par suo. “Le relazioni tra i protagonisti mi fanno pensare alla tela di un ragno drappeggiata tra due cespugli di ginestra spinosa e ricoperta dalla rugiada della notte. Thierry, Charlotte, Gaëlle, Dan, Nicole, Lionel e Arthur sono come insetti, che lottano per sfuggire alla trappola. Ogni volta che uno di loro si muove, lo spostamento si fa sentire anche altrove sulla tela, su qualcuno che tuttavia può non avere nessun legame con chi si è mosso per primo” afferma il regista. Resnais riesce nel miracolo di intervenire su un testo altrui conservandone intatto il fil rouge narrativo ma innervandolo al contempo di tutte le tematiche che da sempre percorrono il suo cinema. A partire dal baluginio di una possibile neve che faceva da interpunzione con forte significanza in L’amour à mort che qui diventa la neve ‘vera’ che cade inarrestabile sulla Parigi che fa da sfondo – a partire da quella Tour Eiffel immersa nelle nubi – alla vicenda. Mentre ci consente di entrare, a poco a poco, nelle vite di uomini e donne alla ricerca di qualcuno che colmi un vuoto enorme dissimulato dalle convenzioni sociali, Resnais riesce ad affrontare temi ancora più alti come quello del rapporto dell’uomo con la fede e, soprattutto, con un aldilà la cui parte ‘infernale’ molto probabilmente (e sartrianamente) sta in un aldiquà che ci costruiamo quotidianamente con le nostre mani. La levità del narrare (anche concedendo ampio spazio a un sorriso quasi sempre venato di malessere) gli consente un progressivo approfondimento dei temi al punto di lasciarci con una ‘fine’ che sembra davvero ‘chiudere’ le vite dei protagonisti in un mondo in cui nevica su cuori che vorrebbero uscire da quell’inverno in cui Sautet aveva chiuso un altro personaggio indimenticabile del cinema francese. Non è un caso che il titolo che Resnais dà al film sia proprio Coeurs.

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Le luci della sera

In programmazione: 12/04/2007

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Koistinen, guardiano notturno di un importante centro commerciale, conduce una vita solitaria. Non ha mai avuto una compagna e quindi il giorno in cui una bionda avvenente lo avvicina e sembra interessata a lui se ne innamora. La donna è però solo un’esca per consentire una rapina a una gioielleria di cui Koistinen sarà involontario complice.
Kaurismaki torna a fare l’unico cinema che sa fare. Il suo è uno sguardo costantemente alla ricerca di solitudini che cercano di colmare il vuoto della vita non sapendo mai bene da che parte cominciare. Lo fa con quello stile rarefatto che ne connota lo stile e con un’attenzione al cinema del passato che trasuda da ogni fotogramma. Alcune sue inquadrature in dettaglio (ci si perdoni il paragone azzardato) potrebbero provenire direttamente da un film di Chaplin tanto sono precise e cariche al contempo di segni emotivi.
Ancora una volta poi il regista finlandese si conferma (anche se non vi riveleremo nulla per rispetto nei vostri confronti) l’unico regista al mondo capace di realizzare happy end tristi. La storia finisce bene ma è un ‘bene’ profondamente condizionato da un profondo malessere esistenziale di cui la cosiddetta civiltà occidentale sembra non volersi accorgere.
Kaurismaki periodicamente ce ne ricorda magistralmente l’esistenza.

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Il vento che accarezza l’erba

In programmazione: 05/04/2007

Descrizione

Irlanda 1920. Contadini e operai delle campagne si uniscono per reagire agli uomini dell’esercito britannico sbarcati in forze sull’isola per impedire qualsiasi tentativo di rivendicazione di indipendenza. Damien, che sta per partire per Londra per consolidare la sua professione di medico, decide di restare per lottare a fianco del fratello Teddy. Lo scontro porterà alla firma di un trattato con gli inglesi. Ma non tutto sarà finito perché la vittoria è solo apparente. Saranno le famiglie stesse a dividersi tra chi si ritiene soddisfatto del risultato conseguito e chi invece pensa che l’oppressione abbia solo mascherato la propria strategia.
In un’epoca in cui il terrorismo domina le news del mondo e in cui l’Irlanda del Nord sembra definitivamente uscita dalla spirale di odio che l’aveva avviluppata sino a pochi anni fa, può suonare strano che un regista come Ken Loach vada a riaprire una ferita apparentemente ormai suturata. Usiamo questo termine chirurgico perché non è sicuramente casuale il fatto che il protagonista sia un medico. Un giovane che sta per lasciare il Paese ma che non può non reagire dinanzi a episodi di brutale sopraffazione. Questa volta non è il ‘comunista’ Loach che narra ma il ‘britannico’ Ken nato nel Warwickshire che va ad indagare le dinamiche che conducono una persona dotata di cultura e di valori ad impugnare le armi per difendere i deboli contro le prevaricazioni di un Impero.
Michael Collins di Neil Jordan ci aveva mostrato il percorso inverso (da terrorista a firmatario di un accordo ‘politico’). Il Damien di Loach potrebbe diventare un tranquillo borghese; si troverà invece a confrontarsi su sponde opposte con il proprio stesso sangue. “È facile sapere contro cosa si combatte. Più difficile è sapere in cosa davvero si crede” scriverà. Loach ne è consapevole e in questo film più che mai finisce con l’interrogarsi sulle ragioni degli uni e degli altri, non però certamente su quelle degli occupanti inglesi. Su quelle ha idee ben chiare.

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Centochiodi

In programmazione: 29/03/2007

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Un giovane e attraente professore universitario di filosofia si rende improvvisamente irreperibile. È infatti ricercato per un reato del tutto insolito: ha letteralmente inchiodato al pavimento e ai tavoli di una biblioteca ricca di antichi manoscritti e incunaboli quegli stessi volumi preziosi che avevano nutrito la sua formazione. Mentre i carabinieri lo cercano, il professore trova rifugio sulle rive del Po, a Bagnolo San Vito, dove una piccola comunità gli offre riparo e accoglienza.
Ermanno Olmi, classe 1931, ha deciso, da spirito libero quale è sempre stato: Centochiodi è il suo ultimo film di fiction. D’ora in avanti tornerà al primo amore o, meglio, al mezzo espressivo che per primo ha incontrato sulla sua strada artistica: il documentario. Ecco allora che questa ‘storia’ diventa una sorta di testamento autoriale. Cosa preme di più al settantaseienne autore? Gli preme, ancora una volta, guardare alla Fede attraverso l’uomo. Un uomo liberato dal vincolo del rigore della Legge che, per interessi del tutto umani, si pretende essere metro di tutte le cose. La parola, la parola scritta, codificata nei libri non vale un caffè con un amico. Olmi contro la lettura quindi? Assolutamente no. Olmi contro l’agitare i Libri (di qualsiasi fede e religione) per nascondere dietro quelle pagine, di cui ci si proclama unici e indefettibili interpreti, progetti di egemonia culturale o politica. Il Sacro per il regista è troppo importante per essere chiuso entro limiti. “Ma pur necessari, i libri non parlano da soli” afferma l’epigrafe che apre il film.
Chi parla veramente al cuore e alla mente del protagonista, un Gesù Cristo in autoesilio dal mondo freddo della ‘Cultura’, sono quegli umili che vivono sulle sponde del Po (fiume amato da Olmi che già ne aveva cantato la magia in un documentario) che sono capaci di accogliere con piena naturalezza (senza neppure far mancare quella carnalità che può anche sfociare nel motteggio volgare) lo Sconosciuto. Magari anche aiutandolo a riparare un tugurio, ricevendo poi in modo disinteressato la sua solidarietà nel difendere quegli argini che il mercantilismo cieco vorrebbe deturpare. È proprio in questa genuina umanità che si rispecchia il senso della vita secondo Olmi ed è un po’ un peccato che il doppiaggio delle fasi iniziali del film e quello del valido Raz Degan (a riprova che i Maestri sanno trovare il talento là dove altri hanno visto solo l’esteriorità) in qualche modo ne falsino la compattezza, non solo stilistica ma anche sonora. Meglio sarebbe stato se Degan avesse parlato in quel suo italiano stentato che lo avrebbe fatto diventare un ‘Cristo’ venuto da lontano e ancor più pronto (rispetto a quello un po’ declamatorio che ci offre il doppiatore) a ‘imparare’ dall’uomo che fa del dialetto il mezzo di comunicazione della sua saggezza popolare. Nonostante questo il film rimane nella mente e nel cuore spingendoci ad attendere il suo ritorno sugli schermi con i documentari che già sta realizzando.

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Il suo nome è Tsotsi

In programmazione: 22/03/2007

Descrizione

“Tsotsi” significa “bandito” nel linguaggio di strada nella periferia di Johannesburg. Tsotsi è il soprannome di un ragazzo di 19 anni che ha rimosso ogni ricordo del suo passato, compreso il suo vero nome. Tsotsi conduce una vita all’insegna della violenza; riempie di botte un compagno della sua gang perché gli fa troppe domande, ruba un’automobile, ferendo la donna che la guidava, ma scopre sul sedile posteriore la presenza di un neonato. A modo suo Tsotsi incomincerà a prendersi cura di lui.
Il film è tratto da un romanzo – ambientato negli anni ’50 – di formazione dello scrittore e drammaturgo Athol Fugard. La storia è stata trasposta nell’attualità perché i temi affrontati sono universali e senza tempo: la consapevolezza di sé e la redenzione. Lo stile è quello di un thriller psicologico in cui il protagonista sarà costretto a confrontarsi con la propria natura aggressiva e ad affrontare le conseguenze delle proprie azioni. Gli attori parlano il linguaggio-slangs delle strade di Soweto; il mondo di Tsotsi è un mondo di contrasti: baracche/grattacieli, ricchezza/povertà, rabbia/dolore. I personaggi – o meglio, i ragazzi – hanno un’anima duplice: dietro alla corazza di rabbia e violenza si cela la loro umanità, il loro grido di aiuto, di attenzione e di rispetto. Quello vero.

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Water – Il coraggio di amare

In programmazione: 15/03/2007

Descrizione

India, 1938. Chuya, una ragazzina di appena otto anni, viene allontanata dalla sua famiglia e trasferita in una casa ritrovo per vedove indù, per espiare la colpa d’un marito perso e mai conosciuto, attraverso l’eterna penitenza imposta dai testi sacri. Tra veglie e preghiere, la ragazzina porterà una ventata di freschezza – e di scompiglio – che contagerà l’affascinante Kalyani, giovane vedova innamorata di Narayan, un fervente idealista sostenitore di Gandhi. Il film di Deepa Mehta va a concludere una personale trilogia sugli elementi acqua, fuoco e terra. Il tema trattato – la condizione della donna e in particolare delle vedove – apre nuovi spiragli su una condizione di disagio che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni dalle conquiste del “profeta” Gandhi, contagia centinaia di migliaia di donne costrette alla ferrea osservanza delle pratiche religiose.
Se l’argomento è encomiabile nel suo tentativo di scardinare i dogmi della tradizione per far posto ai mutamenti sociali e culturali, il film in sé resta paradossalmente impigliato proprio in questo tentativo. Il labile confine che separa il tono documentaristico dalla finzione filmica si perde in scene didascaliche e incomplete, in recitazioni affettate e poco credibili, nella lezioncina da cinema (b)hollywoodiano – con tanto di lacrima finale – buttata giù a memoria e tutt’altro che impeccabile. Un film che apre uno spiraglio di speranza e di conoscenza in più su pratiche sconosciute al grande pubblico, ma che scontenta il botteghino – e gli spettatori – per l’eccessiva austerità.

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Non è peccato – La quinceanera

In programmazione: 08/03/2007

Descrizione

La Quinceanera è la ricorrenza che ogni ragazza di origini latino-americane attende con ansia: è una sorta di debutto in società che segna il passaggio all’età adulta. Magdalena spera che la sua festa sia bella come quella della cugina Eileen ma, durante i preparativi e a qualche mese dal suo quindicesimo compleanno, scopre di essere rimasta incinta. Lei e il fidanzatino non hanno consumato fino in fondo il rapporto ma nessuno le crede e il padre, un predicatore della Chiesa Evangelica, la caccia di casa. Magdalena va a vivere dal vecchio zio Tomas dal quale alloggia anche il fratello di Eileen, Carlos, come lei ripudiato dal genitore. Se all’inizio i rapporti tra i due cugini sono difficili, alla fine sboccerà una tenera amicizia. Nel frattempo Carlos inizia a frequentare i nuovi proprietari e vicini di casa, una facoltosa coppia gay bianca che presto rovinerà l’idillio della famiglia facendo sentire i tre degli emarginati in un paese che li ha accolti non senza difficoltà. Non è peccato – La Quinceañera ritrae con sensibilità una comunità di messicani in un quartiere di Los Angeles. All’interno di Echo Park l’equilibrio tra i bianchi americani e i latini scorre su un filo sottile che separa le due razze. Se da una parte c’è chi lavora in tv e dà feste esclusive riservate a pochi intimi, dall’altra ci si sacrifica per l’istruzione dei propri figli, prestando servizio in case benestanti o vendendo per strada il champurrado (tipica bevanda calda al cioccolato), aspettando la prossima Quinceañera. I registi Richard Glatzer e Wash Westmoreland raccontano con credibilità un mondo intero attraverso una storia dai tratti drammatici (ma che riserva un lieto fine) con il supporto di dettagli non trascurabili, come il cartello inquadrato per pochi secondi che pubblicizza un corso per eliminare l’accento spagnolo. A Echo Park si ride e ci si commuove, ma soprattutto si scoprono valori – la famiglia, l’amicizia – senza il peso della retorica.

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The Road to Guantanamo

In programmazione: 01/03/2007

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Quattro amici di età che va dai 19 ai 23 anni (Ruhel, Asif, Shafiq e Monir) partono dall’Inghilterra per il matrimonio di uno di loro in Pakistan. Siamo nell’autunno del 2001. Dopo una serie di vicissitudini tre di loro vengono arrestati dalle truppe americane e portati nella base di Guantanamo. Ne usciranno due anni dopo totalmente scagionati dall’accusa di terrorismo dopo aver subito torture psicologiche e fisiche brutali.
Michael Winterbottom non è nuovo a imprese di questo genere. Molti ricorderanno Welcome to Sarajevo così come Cose di questo mondo (sui profughi dall’Afghanistan e vincitore dell’Orso d’Oro).
Questa volta, dopo un inizio un po’ faticoso che ricorda troppo da vicino Cose di questo mondo, l’accusa non potrebbe essere più diretta e lo stile più convincente. Il regista inglese decide infatti di intervistare i tre protagonisti e di ricostruire con non attori quanto da loro narrato. L’obiezione che può subito emergere è ovvia: Winterbottom ha fatto le verifiche necessarie? È sicuro che quanto raccontato dai tre corrisponda a verità? La risposta è sin troppo facile: per certo i giovani avevano un alibi di ferro e nonostante questo si sono fatti due anni di Guantanamo come terroristi pericolosissimi. A questo si può aggiungere che se fosse vera anche solo la metà delle torture da loro raccontate come subite ad opera dei soldati americani questo sarebbe già più che sufficiente per parlare di barbarie.
Winterbottom mette poi a segno un colpo di genialità da ricercatore quando mostra una dichiarazione di Donald Rumsfeld che afferma testualmente “Stiamo rispettando in massima parte la Convenzione di Ginevra sui Diritti Umani”. L’uomo di punta dell’Amministrazione Bush dice la verità: quello che sta oltre alla massima parte precipita nel buio o nel sole a picco su celle di metallo in mezzo a un cortile della base di Guantanamo al cui ingresso (Camp Delta) si legge: “Honour Bound to Defend Freedom”. Per molto, molto meno Richard Nixon dovette lasciare la Casa Bianca. Erano altri tempi? Forse.
Sta di fatto che una democrazia non è tale perché simili e sistematiche violazioni del Diritto possono essere denunciate. Una democrazia è tale quando queste non possono verificarsi.

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Nuovomondo

In programmazione: 22/02/2007

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Nella Sicilia degli inizi del Novecento, Salvatore fa un voto e chiede un segno al cielo: vuole imbarcarsi per il nuovomondo e condurre in America i figli e l’anziana madre. Il segnale è una cartolina di propaganda che ritrae minuscoli contadini accanto a galline giganti o a carote sproporzionate. Venduta ogni cosa posseduta, Salvatore lascia la Sicilia alla volta dell’America. Durante la traversata oceanica incontra la bella Lucy, una young lady che indossa il cappello ed è più elegante della figlia del sindaco del paese. Luce parla la lingua dell’America e cerca un compagno da impalmare per ritornarci da signora. Salvatore, da vero galantuomo, accoglie la sua avance. Il lungo viaggio approderà ad Ellis Island, l’isola della quarantena dove si decideranno gli ingressi e i rimpatri.
Non poteva scegliere un tempo migliore di questo, Emanuele Crialese, per ripercorrere la storia della migrazione italiana, indagando sulla genesi del pregiudizio che accompagna da sempre i fenomeni migratori e le dinamiche dell’inserimento nella società di accoglienza. Proprio oggi che l’Italia è il “nuovomondo”, una meta ambita di immigrazione. La ricerca di una storia individuale dentro la Storia migratoria era già contenuta nei film precedenti, nell’Once we were strangers del debutto, storia di un siciliano a New York che sogna il sogno americano, e nel premiato e prezioso Respiro, storia di una isolana di Lampedusa che il paese vuole internare in una clinica del nord Italia. L’esperienza migratoria italiana, interna (da Sud a Nord) o transoceanica, si compie con Nuovomondo, la storia di un viaggio oltremare alla ricerca della terra promessa. Quel viaggio, chiuso nel profondo di una nave mai ripresa in campo lungo, è compreso fra due sequenze potenti fino a togliere il fiato: la partenza del bastimento dal porto siciliano e lo sbarco bianco in America. La nave si stacca dalla terra arcaica strappando la composizione dell’inquadratura come i cuori di chi abbandona il vecchiomondo e le origini. In mezzo, la traversata fisica e interiore di personaggi spiegati unicamente dalle immagini, fino al bagno candido, arrestato dall’affiche, da cui i protagonisti emergono al nuovomondo e di nuovoalmondo.
Prima degli alberi carichi di monete, dei fiumi di latte e di una scatola che sale e scende da case che grattano il cielo, bisogna superare i test psicoattitudinali, un esame a carattere medico e amministrativo dal cui esito dipendeva l’accesso alla golden door del titolo internazionale. Gli edifici di Ellis Island raccoglievano e raccolgono nel film di Crialese una popolazione agraria e prevalentemente analfabeta, che come Salvatore fuggiva la fame, il tramonto dei vecchi mestieri artigiani o l’aggravarsi delle imposte sulle campagne del meridione. Alternando campi medi a primi piani, disciplinando anche le scene più spettacolari, come quella della tempesta tutta implosa nel ventre della nave, seguendo le linee del profilmico e le visioni surreali dei protagonisti, Crialese crea una sua idea di cinema, bagnata perennemente dal mare di Sicilia o dagli oceani del Nuovomondo. Una lezione di cinema che diventa lezione di vita perché rivela allo spettatore l’indesiderabilità dei nuovi venuti.
Ancora una volta, come è stato per la Golino in Respiro, a illuminare fin dal nome la traversata della vita è una donna, Luce, una straordinaria Charlotte Gainsbourg, che col suo cappello, i capelli rossi e l’accento inglese è anticipatrice del nuovo femminismo americano del secondo dopo guerra. È lei a formulare la proposta di matrimonio a Salvatore, senza credere neanche un momento che la felicità femminile si esaurisca nel ruolo di moglie e di madre. Lei è la donna moderna, la cui razionalità si scontra con la superstizione e le credenze assurde di Donna Fortunata, la madre di Salvatore rimpatriata perché considerata scarsamente intelligente. Lei è la terra madre che qualcuno ha lasciato, come Crialese, per ritornare e per fare più bella. Non solo al cinema.

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Truman Capote – A sangue freddo

In programmazione: 15/02/2007

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Kansas, 1959. In una livida mattina di novembre una famiglia di agricoltori, i Clutter, vengono trovati assassinati nella loro fattoria. A New York, intanto, l’omicidio collettivo di Holcomb colpisce e ispira lo scrittore Truman Capote che parte per la cittadina del Kansas accompagnato dall’amica Harper Lee. A interessare lo scrittore sono le reazioni della provincia all’efferato delitto. Ma l’arresto improvviso di Dick Hickock e di Perry Smith, rei del crimine, trasforma la natura del progetto di Truman. Quello che doveva essere un servizio di cronaca da pubblicare su “The New Yorker” diventa il romanzo più ambizioso dello scrittore di New Orleans: “A Sangue freddo”. Nei sei anni che separano i colpevoli dalla morte per impiccagione, Capote, intratterrà con almeno uno di loro, Smith, una fitta corrispondenza. Quanto fosse reale l’interesse umano di Capote per Smith, criminale “affamato di istruzione” con gli occhi neri da Cherockee e la pelle bianca da irlandese, non ci è dato saperlo, né come lettori né come spettatori. Capote è ambiguo sia nelle pagine che sullo schermo nell’interpretazione davvero sbalorditiva, per somiglianza e talento, di Philip Seymour Hoffman. Impressionato sulla pellicola come in un ritratto di Cartier-Bresson, il Truman Capote di Benett Miller ripropone la magnifica ossessione dell’artista: la creazione, ad ogni costo. A discapito delle vittime e dei loro carnefici. Con gli introiti ottenuti dalla vendita dei diritti cinematografici del suo romanzo, Colazione da Tiffany, Capote poté finanziare un’indagine lunga sei anni e l’avvocato che con una richiesta di appello prolungò la vita di Hickock e Smith. Almeno fino a quando lo scrittore non ottenne da loro la piena redazione del fatto criminoso e con quella un epilogo per la sua non-fiction novel. La fotografia suggestiva di Adam Kimmel, cupa nelle conversazioni al penitenziario e luminosa fino ad accecare in Costa Brava (dove Capote si ritira per redigere il romanzo), esemplifica il passaggio dal gesto irrazionale del criminale a quello intellettuale ed espressivo dello scrittore.
La domanda adesso è quanto la grandezza di Capote giustifichi gli atteggiamenti crudeli e i narcisismi non celati. Ragioni dell’arte contro ragioni dell’etica. Ma probabilmente l’unica risposta possibile si rintraccia nelle opere incompiute di Capote, nelle preghiere (non) esaudite che seguirono “A sangue freddo”, un romanzo, la cui bellezza ci rende per forza conniventi perché si fa consumare come un peccato. Appunto.

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Lettere dal Sahara

In programmazione: 08/02/2007

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Un giovane studente senegalese dopo la morte del padre emigra in Italia. Riesce a trovare un lavoro precario a Villa Literno, si trasferisce a Firenze da una cugina che fa l’indossatrice per poi giungere a Torino. Qui, grazie anche a un’insegnante di italiano, trova una situazione stabile. Ma un’aggressione razzista lo spinge a riconsiderare tutto.
Vittorio De Seta è stato uno dei registi più appartati e, al contempo, più ‘necessari’ al cinema e alla televisione italiani. Chi ha avuto la fortuna di vedere i suoi cortometraggi sa quanto, da siciliano verace, abbia saputo offrire lo spirito profondo di alcune manifestazioni collettive di lavoro (soprattutto legate alla pesca) proprie della sua cultura di origine. I non giovanissimi poi ricorderanno Banditi a Orgosolo (1961) e quel Diario di un maestro (1973) che costituì un vero e proprio giro di boa per la nostra televisione dimostrando che il basso costo di una produzione poteva coincidere con il suo elevato valore sociale e comunicativo. Lo spirito di De Seta non è cambiato e oggi, a 82 anni, ci presenta un film che ha avuto una lunga fase di gestazione e che ora arriva al pubblico. Dicevamo che De Seta non è cambiato. Sono cambiati però i tempi e nella mancata percezione del loro divenire si sente (non solo sullo sfondo) qualche scricchiolio di sceneggiatura. Perché la storia del senegalese Assane si rifà indubbiamente a situazioni reali che subiscono nel nostro Paese discriminazioni inaccettabili. Il problema è che del protagonista si fa una sorta di icona di bontà assoluta (tranne qualche pregiudizio sulla cugina troppo emancipata) che ha tutti i tratti della retorica. L’apice si raggiunge quando il ‘buon’ africano arriva nell’appartamento della ‘buona’ insegnante di italiano per accudire il fratello psicolabile (ma ‘buono’ e convertibile anche lui in un amico da aiutare nel corteggiare le ragazze) e riesce con un clic a far ripartire un computer in panne (non si sa perché lasciato acceso). È didascalismo allo stato puro che purtroppo rischia di ottenere l’effetto contrario al voluto. Senza bisogno di vivere situazioni estreme tutti sappiamo che l’integrazione richiede sforzi da ambedue le parti. Questo film è invece troppo schematico per risultare credibile ed efficace. Gli extracomunitari che vengono nel nostro Paese con il solo scopo di trovare un lavoro decente sono la stragrande maggioranza. Ma non è raccontandoli in forma idilliaca che se ne difendono al meglio i diritti. Tre stelle alla carriera.

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L’orchestra di Piazza Vittorio

In programmazione: 01/02/2007

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Roma, Piazza Vittorio. Il quartiere più popolato da migranti di tutto il mondo: un insieme eterogeneo di colori, di stili di vita, di tradizioni culturali e di religioni che si intrecciano, in una convivenza che giorno dopo giorno cresce e si fa profondamente multietnica.
Un gruppo di artisti e intellettuali italiani, su tutti Mario Tronco, tastierista degli Avion Travel, decide si salvare il vecchio cinema teatro Apollo, che, dopo essere stato declassato a cinema porno, sta per essere trasformato in sala bingo, e di costituire un’orchestra stabile composta appunto, anche e soprattutto, da musicisti extracomunitari. Il progetto-sogno inizia nel 2001 e nel giro di diversi anni, con tantissime difficoltà e con tenacia ancora maggiore, vede la luce.
Agostino Ferrente, documentarista aiuto regista di Silvano Agosti, è parte attiva del progetto e, telecamera a spalla, filma tutti gli eventi che porteranno alla creazione dell’ensemble musicale. Il risultato è il film L’Orchestra di Piazza Vittorio, documusical sotto forma di diario che racconta la sofferta, entusiastica e travagliata genesi dell’omonima orchestra. Agostino e Mario iniziano a girare in vespa per Roma alla non facile ricerca di musicisti e si imbattono in persone e volti ognuno con la sua storia da raccontare, con il suo bagaglio di dolori e di aspettative, di sorrisi e di voglia di sentirsi parte di una comunità.
Storie e volti da Cuba, dall’India, dall’Ecuador, dalla Tunisia. Un film che racconta un piccolo pezzo di storia d’Italia: solidarietà e voglia di cambiamento, partecipazione civile e culturale. Un documento dalla musica trascinante e dal forte senso del ritmo, un documento da cui trasuda l’anima e il cuore di chi ha partecipato al progetto, credendoci incondizionatamente.

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Il grande silenzio

In programmazione: 25/01/2007

Descrizione

In un tempo di cinema chiassosamente sonoro, che tutto riempie e trabocca, diventa necessario sperimentare il silenzio. Quello grande e silente “registrato” nel monastero certosino de La Grande Chartreuse, situato sulle montagne vicine a Grenoble. A salire sulle Alpi francesi con la macchina da presa è stato il regista tedesco Philip Gröning, che per diciannove anni ha cullato il desiderio di realizzare un documentario sulla vita dei monaci e sul tempo: quello della preghiera e quello del cinema. Perché quel tempo potesse scorrere sulla pellicola, il regista ha condiviso coi monaci quattro mesi della sua vita: partecipando alle meditazioni, alle messe, alle lodi, ai vespri, alla compieta (l’ultima delle ore canoniche), ritirandosi in una cella in attesa di ripetere nuovamente l’ufficio delle letture.
Il suo film, apparentemente immobile e privo di uno sviluppo narrativo, trova invece un suo modo straordinario di procedere inserendo un dialogo muto tra l’uomo e la natura, scandito fuori dal monastero dalle stagioni e dentro le mura, vecchie di quattro secoli, dalla rigorosa liturgia dei monaci. Separati materialmente dal mondo mantengono con esso una solidarietà espressa attraverso un’incessante preghiera. La vita eremitica e contemplativa viene filmata e riproposta allo spettatore nelle sue ricorrenze quotidiane, inalterabili e puntuali, interrotte soltanto da un imprevisto “drammaturgico”: l’arrivo di un novizio al convento. L’equilibrio della comunità monastica è ricomposto poco dopo con l’ammissione del giovane uomo nell’ordine, attraverso suggestive cerimonie di iniziazione in lingua latina. La partecipazione dello spettatore alla vita del monastero è affidata unicamente alle immagini, che non si aggrappano quasi mai a un suono, a una voce esplicativa fuori campo, a una musica applicata alla pellicola, a una parola, se non a quella di Dio. I salmi e le preghiere, sgranate come un rosario e costantemente ripetute, sono l’unico linguaggio concesso, lo strumento verbale alto per pensare il divino, per comunicare con Lui.
Il regista “officia” la sua funzione lasciando libero lo spettatore e la sua percezione di cogliere nel montaggio i commenti impliciti, nel silenzio i suoni compresi. Perché il suo documentario diventi un’autentica esperienza ascetica, Gröning lo costruisce come fosse un mantra, mettendo la grammatica del cinema al servizio del linguaggio dello spirito. Se la comprensione dell’Assoluto passa attraverso la reiterazione della preghiera, il cinema che la fissa dovrà a sua volta replicare il suo linguaggio, quello della ripresa. E allora si ribadisce quell’inquadratura, quel primissimo piano, quel campo medio o lunghissimo, si insiste sulle identiche didascalie di raccordo perché il pubblico stabilizzi la mente e lo sguardo su un’idea. La lunghezza della pellicola, che ha impaurito i più o peggio li ha spazientiti, è al contrario funzionale all’esperienza contemplativa che il regista ha voluto raccontare. La sua visione disciplina la mente inducendola, e non poteva essere altrimenti, a chiarire e a purificare il pensiero. Per una volta non può far male.

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Niente da nascondere

In programmazione: 18/01/2007

Descrizione

Tutto inizia dall’immagine di una strada, una mattina qualunque. L’inquadratura è fissa: qualche persona cammina, passa una bicicletta, un uomo esce di casa. Stop, rewind e inizia il mistero. L’immagine è quella di un videoregistratore: una coppia (Daniel Auteil e Juliette Binoche) trova sulla porta, come in Strade perdute di Lynch, misteriose cassette che ne ritraggono la vita privata. Poi arrivano inquietanti disegni, telefonate, strani avvertimenti e il segreto nascosto (caché) inizia ad emergere: l’infanzia del protagonista è tragicamente legata a quella di un algerino figlio dei domestici di casa. Ma il mistero resta tale, anzi si tramanda fra le nuove generazioni: i figli dei due uomini si incontrano mentre la macchina da presa, non vista (cachè), continua a riprendere.
Caché, presentato a Cannes 2005 e nella rosa dei più vicini alla Palma d’oro, come tutti i film di Michael Haneke non lascia indifferenti. La storia, costruita come un thriller appassionante e criptico, riflette sui temi della verità, della colpa e del voyeurismo. In fondo la posizione dello spettatore, unico testimone di tutte le vicende, si identifica con quella del personaggio, ignoto ma onnisciente, che spia la vita della famiglia. L’ambiguità, marchio di stile del regista austriaco, domina la pellicola e i personaggi sono tutti potenzialmente autori del dramma che si consuma ai danni di loro stessi e degli altri.

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La commedia del potere

In programmazione: 11/01/2007

Descrizione

Uno Chabrol apparentemente anomalo: fuori dalla periferia francese, senza adulteri, senza morti con Isabelle Huppert in un ruolo sorprendentemente moralista. Il magistrato Jeanne Charmant-Killman (“affascinante omicida” nel divertente gioco di parole poliglotta che ben si addice all’attrice francese) sta indagando su un caso di appropriazione indebita di fondi pubblici da parte di un importante conglomerato di industrie francesi. Nomi, cognomi, capi di imputazione e dossier vengono a galla facendo cadere alcune alte cariche dell’organizzazione. In realtà il tema di fondo è sempre lo stesso: lo studio dell’umanità attraverso i suoi comportamenti e i suoi abiti mentali. Il titolo originale: L’ivresse du pouvoir, letteralmente l’ebbrezza del potere, è quella che contagia Jeanne via via che scopre la sua capacità di agire sulla realtà. Il lavoro la porta in un vortice talmente profondo da farle totalmente trascurare la sua vita familiare. Per questo la Charmant-Killman-Piranha (come sottolineato dall’ironica sequenza in cui dopo essere stata associata al vorace pesce, la vediamo davanti a un acquario intenta a mangiare sushi) diventa la causa indiretta del tentato suicidio del marito. Solo alla fine si accorgerà che “c’è ancora un sacco di sporco sia a destra che a sinistra” e, forse, finirà la sua lotta donchisciottesca.

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Radio America

In programmazione: 14/12/2006

Descrizione

Il racconto di ciò che accade dietro le quinte di uno dei più importanti show radiofonici andato in onda in America a partire dal 1974, che nel film viene improvvisamente cancellato. Va in onda l’ultima puntata, un “Last Waltz” che l’ottantunenne Bob Altman dirige con la fermezza del grande regista che è. Senza farsi mettere sotto da Garrison Keillor (conduttore nella realtà di un programma che ha nel mondo anglofono 35 milioni di ascoltatori) e con la voglia di mettere in scena un Nashville uguale e contrario. Contrario perché qui siamo nello spazio chiuso di uno studio di registrazione radiofonico con pubblico in sala. Uguale perché c’è la stessa voglia politica (nel senso più positivo del termine) di raccontare un pezzo di America che finisce con il rappresentarla tutta. Uguale perché c’è la straordinaria capacità di seguire un numero considerevole di personaggi senza perderne di vista uno e dando ad ognuno una sua consistenza. Uguale perché qui l’Angelo della Morte non colpisce alla fine e a sorpresa ma è una presenza (anche inevitabilmente autobiografica) che accompagna la narrazione. Uguale perché anche qui c’è un pubblico che non canta “It don’t worry me” ma che “non deve preoccuparsi” qualsiasi cosa accada sulla scena. The American Show Must Go On. Qualsiasi cosa accada.

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Time

In programmazione: 07/12/2006

Descrizione

Una donna e un uomo, See-Hee e Jim woo, sono amanti. Il loro amore è forte e la gelosia imperversa. See-Hee, credendo che il fidanzato si sia stufato di lei e che vada in cerca di altre conquiste, fugge da questa situazione e si affida alla chirurgia estetica per dare nuova vita al rapporto. Questa scelta cambierà per sempre la loro relazione.
Kim ki-duk è un regista-artista che racconta attraverso la semplicità. Simboli, temi, quadri, segni forti che si stagliano su uno sfondo bianco e che rimangono nella memoria. In questa sua opera questo atteggiamento non cambia, è solo la presenza di rumori di fondo che sfuoca il messaggio e lo rende apparentemente meno incisivo. È necessario, quindi, riuscire a individuare un punto di riferimento nella storia che affronta Tempo, Amore, Bellezza, ponendoli in parallelo, assegnando a uno o all’altro valori e pesi diversi in base alle situazioni. Il titolo del film è la soluzione. Il genio coreano, come è sua abitudine fare, è sempre lapidario. Bad Guy parlava di un ragazzo cattivo, Primavera, estate… delle stagioni della vita, Ferro 3 di un ragazzo che utilizza il Golf per comunicare. Time, di conseguenza, narra del Tempo. E basta. L’Amore ne è una conseguenza, perché si svolge nel corso dei giorni, all’interno di un universo complesso. Il Tempo non muore mai. L’Amore sì, e così la Bellezza. La chirurgia plastica, ad esempio, tecnica di sopravvivenza del bello, è un approccio dell’Oggi, una gestione dell’attimo, che con il trascorrere inesorabile degli anni, morirà. Lo stesso utilizzo del dialogo, assente per lo più nei precedenti lavori, qui trova uno spazio eccessivo (compresi i rumori di fondo citati), per sottolineare che, comunque, qualunque cosa accada, il Tempo è sempre lì, che ci aspetta al varco. Tralasciando il trattamento magrittiano dell’immagine (la pittura è parte della vita del regista), Time può essere considerato un’opera minore, fredda, asettica (come le sale operatorie), in cui il bianco acceca e le parole esagerano, tuttavia è la dimostrazione di come anche nelle emozioni quotidiane, nella gioia, nel dolore, nell’amore, nella gelosia, nella guerra, nella pace, noi siamo schiavi di un solo ed unico elemento: il Tempo.

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Volver – Tornare

In programmazione: 30/11/2006

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Raimunda, una giovane madre de la Mancha, trova rifugio dal suo passato a Madrid, dove vive col suo compagno Paco e la figlia adolescente, Paula. Durante un tentativo di abuso da parte del patrigno, Paula lo pugnala a morte. Scoperta la tragedia, Raimunda ‘abbraccia’ la figlia e la legittima difesa, coprendo l’omicidio e occultando il cadavere. Questo evento disgraziato rievoca fantasmi dolorosi e mai svaniti. Dall’aldilà torna Irene, sua madre, a chiederle perdono e a riparare la colpa.
A tornare in questo film di Almodóvar, come suggerisce il titolo, sono anche le sue attrici: ritorna Carmen Maura, non più donna sull’orlo di una crisi di nervi ma fantasma sull’orlo dell’aldiquà; ritorna Penélope Cruz, figlia e madre dopo Tutto su mia madre. Qualcuno ritorna e a qualcosa si ritorna: al cinema degli esordi, Che ho fatto io per meritare questo?, film di ambientazione popolare così prossimo a Volver, dove Carmen Maura esasperata uccideva il marito fedifrago; alla terra, la Mancha, regione dei mulini a vento e del picaresco su cui soffia incessantemente il solano, il vento dell’ovest che rende pazzi e che incendia boschi e cuori. Terra mancega, che ha generato Almodóvar, per un film mancego, che ha concepito cinque profili femminili rivelatori, in atto o anche solo in potenza, della grazia della maternità. Condizione femminile che comprende simultaneamente il materno e il natio, l’origine, il luogo in cui tutto comincia e a cui tutto ritorna. Madri, figlie e sorelle che bussano alla porta accanto dove trovano vicine generose e singolari come Augustine, che non manca mai di soccorrere, di solidarizzare e di contribuire all’economia anche affettiva della famiglia protagonista. Le donne sembrano bastare e bastarsi in questo film al femminile, dove gli uomini sono portatori di un dolore ancestrale che impongono incuranti a mogli, figlie e nipoti. Almodóvar le riunisce tutte insieme, chiamandole al di qua dall’aldilà, intorno ai tavoli, lungo i fiumi, dal parrucchiere, affinché i morti assistano i vivi, affinché le madri accudiscano le proprie figlie, “bellissime”, come quella viscontiana della Magnani che Carmen Maura guarda alla televisione. Una stella per la grazia creativa di Almodóvar, un’altra per la “resurrezione” di Carmen Maura e due per gli occhi neri di Penélope, quando lacrimano e quando si colmano senza versarsi.

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Verso il sud

In programmazione: 23/11/2006

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Andare a sud, cantava Vinicio Capossela, a sud di noi come fanno le tre splendide protagoniste di Laurent Cantet: Charlotte Rampling, Karen Young e Louise Portal. Rispettivamente Brenda, Ellen e Sue, tre turiste americane in “gita di piacere” ad Haiti sul finire degli anni ’70. Approdate a quella spiaggia da un passato confessato in prima persona alla macchina da presa, per quel passato cercano conforto tra le braccia di quello che oggi viene definito jinetero (il cavalcatore), una sorta di gigolo dei carabi. Una consolazione effimera, la loro, comprata da chi ha “fame” di venderla. Il sud di Brenda ed Ellen è incarnato da Legba, un giovane uomo color ebano che guadagna “cibo e sicurezza” smerciando “desiderio e amore”. Legba è capace e ha stile e i suoi guadagni gli permettono di mantenere se stesso e la vecchia madre. Entrambe invaghite fino a pensare di condurlo via con loro, le donne arriveranno a un feroce scontro finale incapaci di riconoscere la vacuità del loro sogno sessuale. È difficile individuare le ragioni che stanno alla base del turismo sessuale, una spiegazione facile le identifica con patologie individuali, tuttavia è troppo poco per giustificare una diffusione così massiccia di questa pratica. Esteso anche tra le ladies, Cantet mette in schermo una vacanza sessuale al femminile in un mare che molte signore sognano più blu. Il regista nel suo film individua in questo fenomeno così crescente una componente socio-economica: confronta due povertà, quella sociale e quella sessuale. La ricerca sessuale delle sue protagoniste, più erotica e meno pornografica di quella maschile, è capace di esprimere sentimenti fortissimi come la ricerca dell’amore in età avanzata magnificamente interpretata dal Charlotte Rampling, Coppa Volpi mancata.

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Anche libero va bene

In programmazione: 18/11/2006

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La famiglia continua a essere uno degli argomenti più comuni e frequenti nell’ultimo cinema italiano.
Kim Rossi Stuart alla sua opera prima, dopo avere vestito i panni del padre ne Le Chiavi di casa di Gianni Amelio, interpreta Renato, un padre single che vive coi suoi due figli, Viola e Tommi. Abbandonato dalla moglie Stefania (Barbora Bobulova), Renato cerca di condurre avanti al meglio la famiglia, ma non è semplice quando si hanno anche problemi di lavoro. Chi ne soffre di più è il piccolo Tommi.
Spaccato di vita fra le mura di casa, che si ispira, seppure alla lontana, al cinema del Neorealismo, Anche libero va bene, corre sul concetto del modo di vivere l’infanzia, dell’essere figli della nostra infanzia, e della differenza di sguardo sul mondo che possono avere un padre e un figlio. Esperienza contro innocenza, grigio contro blu. E così Tommi che vive altri mondi (l’artefatta famiglia borghese del vicino di casa che lo accoglie a braccia aperte), quando può si chiude al dolore (per lui, la madre che ritorna è un pericolo non una gioia) e si rifugia sul suo amato tetto per guardare dall’alto ciò che accade. Renato, invece, non può più fuggire, perchè il suo tempo è finito, e sfoga la rabbia trattenuta, contro tutto e tutti, ovvero contro se stesso. Solo il suo animo gentile lo salva, figlio dell’innocenza perduta che riaffiora grazie all’amore.
Kim Rossi Stuart si mette in gioco con impegno, in prima persona, dietro e davanti alla macchina da presa, sebbene il suo ruolo dovesse essere interpretato da un altro attore (voci di corridoio dicono Sergio Rubini). Il suo è un film personale, piccolo, a tratti acerbo, complesso da assorbire perchè troppo semplice nella costruzione, che viene fuori alla distanza, quando si è usciti dalla sala, quando è trascorso del tempo. Lo stesso tempo che ci dirà se è diventato adulto anche come regista.

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