Angela

In programmazione: 29/04/2004

Descrizione

Roberta Torre fa di nuovo parlare di sé. Con Tano da morrie aveva, nel suo piccolo, reinventato un genere, successivamente molto apprezzato dagli americani che hanno, in un certo senso, adottato la regista. Sarebbe stato facile, per lei, ripercorrere quella strada: quasi una franchigia, una garanzia di successo. Invece che cambiato direzione. L’ambiente continua ad essere quello della mala siciliana, ma i toni diversi. E’ storia d’amore. Un negozio di scarpe serve da copertura ai soliti traffici di mafia. Angela (Finocchiaro) è benissimo inserita, conosce il lavoro, conosce le regole, ed è legata a un boss. Insomma tutto nella norma, in “quella” norma, dove ci sono regole precise e ferree e se le disattendi sono guai, grossi. A “destabilizzare” arriva Masino (Di Stefano), altro mafiosetto ma particolare, con una sua chiacchiera e un suo sentimento. Lei perde la testa e crede di poter ricominciare rinnegando tutto il resto. Ma proprio non si può. Il film ha ottenuto un buon successo di critica (presentato a Cannes) e anche di pubblico. La Torre, così come Muccino (certo, per contenuti completamente diversi) sta acquisendo i contorni di “autore di culto”. Vedremo.

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Cantando dietro i paraventi

In programmazione: 22/04/2004

Descrizione

Un giovane ed ingenuo studente si ritrova per errore in un teatrino fuori mano, tra le cui sale è possibile inoltre comprare trasgressioni e favori sessuali. Il Vecchio Capitano – un Bud Spencer inedito – dal palcoscenico situato nell’ampia sala centrale sta raccontando le gesta di Ching, piratessa ai tempi della Cina imperiale. Ching era sposa di un prode corsaro che, per aver accettato di collaborare con l’Imperatore, era stato ucciso a tradimento. La vedova, incapace di accettare questo oltraggio, si era dunque messa a capo della flotta del defunto marito ed era divenuta il pirata più temuto della Cina. Olmi torna a misurarsi con la fiaba (ricordate “Il segreto del bosco vecchio”?) ma volge lo sguardo all’Oriente. E’ una sperimentazione interessante quella che mette in atto il regista. Riaffermare l’attenzione ai temi che più gli sono congeniali esplorando un universo culturale e iconico estremamente distante. Non è un caso che il Vecchio Capitano guardi l’esterno all’inizio con un cannocchiale. Si può uscire dal chiuso del teatro solo grazie a uno sguardo inevitabilmente e consapevolmente distante da ciò che viene narrato. Questo è il pregio e un po’ il vincolo di un film esteticamente molto raffinato ma che ha come bisogno di una struttura ‘a scatole cinesi’ (la città moderna al cui interno si trova il bordello al cui interno si trova il teatro da cui ci si apre verso il mondo)e ci si perdoni l’involontario gioco di parole. Olmi affronta poi per la prima volta in modo così netto una storia al femminile (con tanto di nudo integrale per quanto stilizzato) e sembra così affascinato dal mistero della donna da quasi temere di sciuparne la profondità. Così la poesia degli aquiloni e dello sguardo dei giovani (ivi compreso il ragazzo finito per caso nel bordello che perde la verginità ma acquista la sensazione dell’ignoto) è come frenata. E’ come se quella feluca che vola via all’inizio del film fosse difficile da inseguire e raccogliere ma proprio per questo andasse comunque inseguita. Per ricordare a un mondo che lo dimentica spesso che ‘dinanzi a un gesto gentile bisogna deporre la spada’ perché la pace è un dono che si apprezza solo nell’intimità. Cantando dietro i paraventi appunto.

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L’odore del sangue

In programmazione: 15/04/2004

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Carlo e Silvia sono separati ma conservano un rapporto molto intimo. Lui ha una giovane fidanzata nel paese di campagna dove si è ritirato, lei abita la casa di Roma consumando occasionali rapporti con amanti passeggeri. Un giorno Silvia si invaghisce di un ragazzo molto giovane, un neonazista violento e incolto, prepotente, dedito soltanto al “culto della forza”. La relazione tra i due turba Carlo, che si riaccende di gelosia per la moglie. Torna Martone dopo sei anni di assenza dal grande schermo, e lontano dalla sua Napoli, con un film che “odora di sangue” proprio come suggerisce il titolo. Esplicito e crudo, il film è costruito su personaggi complessi e profondi che si rincorrono in un gioco perverso: se l’odore del sesso non basta, forse può servire far annusare quello del sangue alla persona amata, per riconquistarla. Ma dove c’è odore di sangue, quasi sempre, è perché da qualche parte c’è sangue. Attori davvero straordinari, per una volta omaggiati di dialoghi e movimenti alla loro altezza.

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The Blues – L’anima di un uomo

In programmazione: 08/04/2004

Descrizione

Wim Wenders apre la serie dei sette film, che saranno poi realizzati da Charles Burnett, Clint Eastwood, Mike Figgis, Marc Levin, Richard Pearce e Martin Scorsese, ideata per celebrare la musica blues, secondo il progetto «The Blues» prodotto da Martin Scorsese. L’anima di un uomo presenta la vita di tre grandi bluesmen all’interno di una cornice narrativa dove si mostra il Voyager, inviato dalla Nasa nello spazio nel ’77, che porta con sé, tra le testimonianze del genere umano del XX secolo, la canzone blues “The soul of man” di Blind Willie Johnson. Le tre vite narrate, tra fiction e documentario, sono quelle di Skip James, Blind Willie Johnson e J.B. Lenoir. La prima parte del film racconta, con sequenze ricostruite, le vicende che, tra la fine degli anni ’20 e gli inizi degli anni ’30, hanno coinvolto Blind Willie Johnson insieme agli esordi di Skip James. La seconda parte, ambientata invece negli anni ’60, ritrae, il ritorno sulla scena di Skip James e la vita di J.B. Lenoir, con sequenze originali del tempo tratte da filmati di due autori svedesi. Alle performance musicali dei protagonisti si alternano, con abilità registica, le esibizioni delle canzoni corrispondenti suonate da alcuni grandi del rock e del blues dei tempi più recenti, come Lou Reed, Nick Cave, Eagle Eye Cherry e John Mayall. L’ altalenarsi di interpretazioni diventa a tal punto suggestivo da rendere, oltre all’omaggio agli artisti, protagonista la musica e, allo stesso tempo, il cinema, per la sua capacità di raccontare ed emozionare. E’ infatti la sensibilità musicale e visiva di Wenders che genera la poesia di questo semi-documentario, nato dalla fedeltà del regista a ciò che più lo ha commosso di quelle canzoni, nel corso della sua vita. Il blues, si sa, narra sia la tristezza per le condizioni di vita degli schiavi d’America sia la speranza in un futuro migliore; il canto diventa dunque un mezzo per alleviare in chi canta e in chi ascolta un dolore tremendo e ingiusto; la potenza evocativa di quella musica rimane comunque sempre attuale e il ritratto compiuto da Wenders ne è certamente all’altezza.

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Dogville

In programmazione: 01/04/2004

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Sfuggita all’inseguimento di due killer, la bella Grace arriva nella sperduta cittadina di Dogville. Grazie all’aiuto di Tom, portavoce della comunità, Grace riesce ad ottenere protezione a patto che sia disposta a lavorare per la comunità. Ma quando si viene a sapere che la donna è una grossa ricercata, gli abitanti di Dogville avanzano nei confronti di Grace sempre maggiori pretese. Ma Grace nasconde un segreto che farà pentire tutta Dogville di aver mostrato i denti contro di lei… Lars Von Trier ha ripulito il proprio cinema da quel sospetto di manierismo autoreferenziale che lo rendeva inviso a molti. Il Dogma e’ alle spalle. Resta solo un ‘Dog’ nel titolo del film ma il regista danese, con l’avvio di questa trilogia rompe col passato confermando paradossalmente la continuita’. Niente piu’ camera a mano o sfocature estemporanee ma un’assenza quasi totale di scenografia in favore della parola e dei gesti. L’influenza di Brecht e’ dichiarata ma non si tratta di un omaggio retro. Siamo invece di fronte a una storia narrata per capitoli in cui si concretizza il bisogno di una moarle che non rinvii la punizione e che, soprattutto, non risolva tutto con un perdono generalizzato. Le colpe vanno punite. Le protagoniste ‘cuordoro’ della trilogia precedente trovano in Grace un personaggio femminile pronto a subire fino in fondo ma che alla fine sapra’ come non soccombere. Von Trier ha forse superato una volta per tutte il piacere sottile di cercarsi dei detrattori con la dimostrazione della capacita’ di valorizzare un cinema purificato dall’esibizione stilistica e capace di mettersi al servizio degli attori. Prima fra tutti una straordinaria Nicole Kidman ma senza dimenticare l’apporto di attori del calibro di Ben Gazzara o James Caan. Lauren Bacall non fa il cameo role ma e’ li’ a ricordarci che il cinema ‘classico’ non puo’ morire. Non pero’ conservarlo in una cineteca della memoria. Bisogna sapersi rimettere in gioco. Sempre. Lei lo fa da maestra.

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Gli indesiderabili

In programmazione: 25/03/2004

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1951: tribunale di New York celebra un processo contro un nutrito gruppo di italo-americani accusati di appartenere alla malavita. Non riuscendone a provare la colpevolezza, la Corte attribuisce loro il marchio di “indesiderabili” e li condanna al rimpatrio in Italia. 120 finiscono su una nave diretta a Genova, dove dopo due settimane ad accoglierli c’è una folla di giornalisti, fotografi e semplici curiosi. Giancarlo Fusco è li per scrivere un pezzo per “Il Secolo XIX” e si mette ad intervistare gli “indesiderabili”, tra cui riconosce Ezio Taddei, anarchico e suo ex-compagno di liceo. Il pezzo diviene un’inchiesta.
Scimeca, regista apprezzato per le sue opere precedenti, compie un passo falso. Guidato dalla buona intenzione di rivisitare un periodo della storia italiana leggendolo dalla parte dei gangster di mezza tacca realizza un film confuso e zeppo di sparatorie alla rinfusa a cui neppure un Catania e un Gallo sottotono o il cameo di Vincent Schiavelli riescono a iniettare vitalità. Due stelle di stima.

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Il ritorno

In programmazione: 18/03/2004

Descrizione

Andrei e Ivan sono due fratelli adolescenti: si vogliono bene, come fanno i fratelli, e come fanno gli adolescenti trascorrono le loro giornate con gli amici, tra le partite di pallone e le sfide per provare chi è uomo e chi non lo è, anche se in fondo non sono né più né meno che ragazzi. Tuffarsi in mare dall’alto di una torre di legno è fuori discussione per Ivan, il più piccolo e scontroso dei due, che ha paura dell’altezza ma non ci sta a farsi chiamare “codardo”. Una zuffa, una corsa a perdifiato verso casa per arrivare primo a dire alla mamma che è colpa dell’altro. Ma a casa c’è qualcosa di veramente inaspettato ad attendere i due ragazzi: quel padre che da dodici anni non vedono, il cui ricordo è vago e sbiadito come la sola foto che lo ritrae in loro compagnia. Dove, come, perché: niente domande, papà è tornato, e solo questo conta.
Un viaggio in macchina, poi in barca, poi a piedi, cui corrisponde un viaggio dell’anima, un duro cammino che i due ragazzi devono compiere per diventare adulti. Per diventare uomini.
Il debutto del russo Zvyagintsev vince il Leone d’Oro a Venezia 2003 contro ogni pronostico, dunque seguendo la tradizione della Mostra. Aldilà del tanto sgomento, resta il fatto che Vosvrascenie sia un film molto bello, oltre che ben fatto. Il passaggio dei due protagonisti all’età adulta, nonostante la drammaticità degli eventi che lo scandiscono, è raccontato con delicatezza e poesia, senza mai scadere nell’ovvio.
Il film si apre a molte e diverse interpretazioni, e l’atmosfera nebbiosa e sbiadita in cui si dipana non fa altro che accentuare il senso di incertezza dello spettatore se ciò che vivono i personaggi stia loro accadendo realmente – richiamando alla mente la sensazione già provata per più di qualche film di Bergman e recentemente con La perdita dell’innocenza di Figgis.
Da menzionare i due giovani protagonisti, in una prova di grande spessore, e in particolare lo sfortunato Vladimir Garin, scomparso durante le riprese del film.

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Elephant

In programmazione: 11/03/2004

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Il cinema ha spesso rivisitato la cronaca accentuando magari i tratti piu’ spettacolari della realtà. Gus Van Sant compie un’operazione analoga ma di segno opposto. Dopo Michael Moore anche Van Sant riflette sulla strage compiuta da due studenti nei confronti di compagni e professori nel liceo di Columbine negli Usa. Lo fa con un film di breve durata in cui si affida a una macchina da presa che pedina alcuni dei protagonisti che diverranno vittime o assassini quasi fosse una candid camera. Ne esce un quadro di desolante vuoto esistenziale, un tunnel che non ha una luce sul fondo. Non c’è più’ neppure la tragedia. La morte per strage si tinge di banale quotidianità.

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Il cammino della speranza

In programmazione: 04/03/2004

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La chiusura di una solfatara induce alcuni minatori siciliani ad espatriare in Francia con le loro famiglie. Durante il drammatico trasferimento al nord, saranno prima truffati dalla guida, poi coinvolti in uno sciopero di contadini e in un duello rusticano in cui il protagonista, innamoratosi della ex amante d’un bandito, uccide quest’ultimo. Dopo una bufera di neve, le guardie francesi, intuendo la disperata condizione, dei clandestini, consentono il loro passaggio del confine.

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Segreti di Stato

In programmazione: 26/02/2004

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Paolo Benvenuti lascia per la prima volta la sua ricerca rigorosa su un passato non recente per affrontare il terreno doppiamente insidioso del film-denuncia e del confronto con un classico ormai consacrato del cinema mondiale: “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi. Se su questo secondo piano non è quasi possibile un paragone perché lo stile asciutto e ‘povero’ del regista toscano è lontanissimo da quello del maestro napoletano, la difficoltà sta nell’intervento sul materiale storico. Per quanto era efficace nella sua oculata scansione “Gostanza da Libbiano” per quanto questo “Segreti di Stato” rischia di essere poco convincente e addirittura poco producente per la tesi che vuole enunciare proprio a causa della sua scena madre. E’ la scena in cui si vuole dimostrare, grazie alla messa in fila di carte con la riproduzione del volto dei personaggi (che purtroppo ricorda tanto la strategia pubblicitaria dell’Amministrazione Bush in Iraq), che a Portella della Ginestra ci fu un’azione di fuoco che vide coinvolti tutti: dalla Cia alla X Mas, dal governo al Vaticano. Siccome Benvenuti non ha il nervosismo didascalico di un Giuseppe Ferrara e dato che questo è un film e non un saggio stampato, tutto viene più enunciato che provato. Benvenuti non è un regista che cerca gli scandali a bella posta e nessuno nega l’onestà del suo intento. Solo che citare il cardinale Montini come “capo dei servizi segreti vaticani” fa un po’ sorridere e coinvolgerlo nella strage diventa così un colpo di teatro neanche di buon gusto. Lo stesso vale per altri nomi eccellenti, primo fra tutti Giulio Andreotti che prima o poi verrà considerato colpevole anche dell’affondamento del Titanic. Dispiace che un film che ha dalla sua l’attenzione all’essenziale (fatte salve le assolutamente superflue sequenze sui luoghi reali) perda poi la sua forza in un j’accuse che resta ancora tutto da dimostrare. Il mistero sulla strage continua a regnare.

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I lunedì al sole

In programmazione: 19/02/2004

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Spagna, una città del nord che deve fronteggiare i problemi della crisi industriale. Santa, Josè, Lino, Reina, Amador, Serguei: amici da sempre, che dopo aver perso il lavoro ai cantieri navali, consumano i giorni tra bevute al bar, discorsi filosofici, e improbabili ricerche di nuove occupazioni. Fra le malinconie di un futuro difficile e le gioie momentanee che scrosciano all’improvviso. Sempre pronti a non dimenticare l’unico bene prezioso che è rimasto loro: la dignità.
Investito da un diluvio di Premi Goya (l’equivalente spagnolo dei nostri David), il film è una godibile commedia che si avvale di una scrittura sapiente e, soprattutto, di una recitazione magistrale di tutti gli attori, in special modo di Bardem, giunto ormai ad una fantastica maturità espressiva. Posizionandosi fra il Loach meno manicheo (quello di Piovono pietre e Riff raff, per intenderci) ed il Kaurismaki più solare, de Aranoa confeziona un piccolo capolavoro: commuove senza indisporre, fa riflettere senza essere saccente, e talora trova anche il tempo di farci divertire.

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City of God

In programmazione: 12/02/2004

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Rio de Janeiro, dagli anni ’60 agli ’80. La favela di Cidade de Deus diventa il palcoscenico delle storie parallele di Buscapé e Dadinho. Entrambi tredicenni, sono però mossi da ambizioni diversissime: il primo vorrebbe diventare fotografo, il secondo il più temuto criminale della città. Se Buscapé trova molti ostacoli nella realizzazione dei propri sogni, Dadinho diventa rapidamente padrone del quartiere e del narcotraffico con lo pseudonimo di Zè Pequeno. La morte del suo braccio destro Bené e la violenza perpetrata ai danni della fidanzata del mite Galinha innescheranno una guerra tra bande dall’esito tragico.
Tratto dall’omonimo (e interessante) romanzo di Paulo Lins, City of God è un esempio da manuale di film furbo. Con l’aria di volere essere il più possibile aderente alla realtà Meirelles confeziona un crime – movie efficace quanto rozzo, la cui violenza sensazionalistica si sposa a un qualunquismo di discreta protervia. Non è un caso che a produrre sia il sopravvalutato Walter Salles di Central do Brasil: siamo di fronte al classico titolo da esportazione, pensato per i festival e per le platee con velleità politico – sociali. Ma di autentico, a parte un notevole senso del ritmo e qualche bella soluzione di regia, c’è poco. Azzeccati gli interpreti, rigorosamente non professionisti.

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Alle cinque della sera

In programmazione: 05/02/2004

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Una giovane donna nell’Afghanistan del dopo-talebani. L’oscurantismo non è scomparso dall’oggi al domani e lei, che ha una sorella con un bambino malato e vive in un rudere, finge di andare a pregare mentre invece si reca a una scuola per donne. Si troverà a dover lasciare la propria casa per affrontare il deserto a causa del vecchio padre che non sopporta tutte le “blasfemie” cui è costretto ad assistere in città. Samira Makhmalbaf, che aveva centrato l’obiettivo nelle sue due opere precedenti La melae Lavagne propone un terzo film debole. La sua debolezza sta nel tentativo di fondere il paradocumentarismo del primo film con l’impatto visivo del secondo. Alle cinque della sera non è né l’uno né l’altro. Le lentezze tipiche del cinema iraniano vengono così ad accentuarsi fastidiosamente così come la ripetitività della sceneggiatura. Ogni tanto qualche lampo di bellezza attraversa lo schermo. Ma non basta.

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Il miracolo

In programmazione: 29/01/2004

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Tonio ha soltanto dodici anni quando viene investito da un’auto in corsa. Cinzia, l’automobilista che lo ha investito, non si ferma a prestargli soccorso ed il bambino si risveglia in ospedale scoprendo di avere, a quanto sembra, il potere di guarire gli ammalati. Questo acuisce il conflitto già in atto fra i suoi genitori e scatena l’interesse del mondo della comunicazione. Edoardo Winspeare, alla sua opera terza, realizza un film molto più compiuto sul piano formale ma, per assurdo ma non tanto, proprio per questo meno emotivamente ‘forte’ rispetto al suo precedente “Sangue vivo”. L’ambiente rimane sempre la Puglia (questa volta non il Salento ma Taranto) e l’attenzione al mondo dei marginali (in questo caso i bambini sempre più ‘a lato’ nella nostra società) e si sente che Winspeare aderisce laicamente al tema che sta trattando con grande rispetto ma anche con il giusto disincanto. I miracoli nascono dall’amore e in un’epoca di maghi e cartomanti a pagamento sembra sempre più difficile poter contare sulla gratuità di un gesto che vuole essere solo solidale e con il pudore del non chiedere nulla in cambio. Tutto questo è interessante e palpabile nel film ma non scatta mai la partecipazione. Neanche la sempre splendida musica degli Zoè riesce a compiere il miracolo.

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Piccoli affari sporchi

In programmazione: 22/01/2004

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Okwe è un immigrato clandestino dall’Africa a Londra. Lavora di giorno come taxista e di notte come portiere in un hotel. Quando scopre in una camera un cuore umano per lui le cose cambiano. Si trova così ad indagare e a scoprire un traffico di organi umani. Stephen Frears sembra fare film a corrente alternata: uno interessante e uno molto meno a turno. Questa volta la corrente alternata scorre all’interno di un’unica opera. Infatti alla prima parte che mescola noir e film di denuncia fa seguito una seconda melò e potenzialmente strappalacrime che ha scarse relazioni con la prima.

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Le divorce – Americane a Parigi

In programmazione: 15/01/2004

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Isabel Walker, vivace “girl” californiana, si reca a Parigi in visita alla sorella, Roxanne, incinta e, quasi, abbandonata dal marito francese. Ma presto anche Isabel si vedrà costretta a cedere al fascino europeo, sedotta dal “diplomatico” e “obsoleto” cognato della sorella. James Ivory, in tempi di relazioni non troppo felici e distese tra America e Francia, costruisce, a partire dall’omonimo romanzo della scrittrice americana, di adozione francese, Diane Johnson, la psicopatologia quotidiana di due famiglie, di due culture di nuovo a confronto come nelle già “inibite” lacrime della “figlia di un soldato”. Se è possibile, questa volta, l’esemplificazione antropologica è peggiore della prima, governata com’è da luoghi comuni che rivelano uno stato delle cose, d’amore,drammatico e volgare. Ci sono registi a cui si perdona meno, e ad Ivory, per l’occasione trasferitosi a Parigi,non si fa credito dopo questa commedia rosa che si macchia di giallo nell’epilogo grottesco, sospeso tra vecchio e nuovo continente. Infine: di che cosa parliamo, quando parliamo d’amore? Si e ci domandava Carver in uno dei suoi celebri racconti. Ivory sembra parlare di nulla, mentre risponde alla Johnson, forse la parte “sbagliata” dell’America, della letteratura, di certo, del cuore.

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Il grande dittatore

In programmazione: 18/12/2003

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Un piccolo barbiere ebreo di una cittadina tedesca somiglia moltissimo al dittatore che ha dato il via ad una campagna razzista. Al pover’uomo ne capitano di tutti i colori, ma sfruttando la somiglianza si toglie anche qualche soddisfazione. Film scopertamente politico ed estremamente discusso. Chaplin volle strafare e il messaggio che dettò risultò magniloquente e retorico. Naturalmente il film funziona, ma soprattutto come storia comica. Chaplin parlava per la prima volta in un film, e usò questa possibilità al meglio (imitò perfettamente la voce di Hitler, per esempio). Per molti versi il film rimane legato ai concetti arcaici del muto (un certo uso della musica, molte gags tradizionali) che solo la grande personalità di Chaplin rende attendibili. Con tutto ciò, si tratta indubbiamente di uno dei grandi film della storia del cinema. Jack Oakie fa una divertente caricatura di Mussolini.

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My name is Tanino

In programmazione: 11/12/2003

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Tanino è un ragazzo siciliano che vive a Castelluzzo, in Sicilia, sognando l’America dei giovani no-global di Seattle.
Si innamora di Sally, in vacanza in Italia, e decide di spingersi oltreoceano per ritrovarla. Ma il sogno americano è fragile e va in frantumi a colpi di sfortuna: la morosa si è consolata con un compagno di college ed i genitori di lei, che ospitano il povero Tanino, lo coinvolgono nella crisi di coppia.
Poco male; Tanino finisce con il fidanzarsi con la figlia obesa del sindaco. Ma non finisce qui…. “Ovosodo” di Sicilia, “My name is Tanino” ha resistito alla peripezie produttive causate dal tracollo finanziario di Cecchi Gori ed è riuscito ad arrivare sugli schermi, dopo essere stato presentato alla 59esima Mostra del Cinema di Venezia. Tanino “vuole fa’ l’americano” seppure di generazione X: sogna l’America dei filmaker off hollywood. Sogna una terra delle possibilità dove a lui, in realtà, capiterà l’impossibile. Un’America caricaturale che pure conserva una inquietante patina di credibilità che trasforma un romanzo di formazione in una rocambolesca avventura. Virzì fa viaggiare il suo personaggio dentro paesaggi da film, accompagnato da una telecamera, come se, nel raccontare la vicenda di Tanino, fosse riuscito a non mettere mai piede fuori dal “cinema”. E, malgrado la destinazione sia mitica, i compagni di viaggio Virzì li sceglie tra gli amici di sempre; Corrado Fortuna, esordiente nel ruolo di Tanino, è fratello di un componente degli Snaporaz, il gruppo che abitualmente compone le colonne sonore dei film di Virzì.

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Tutto o niente

In programmazione: 04/12/2003

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Con affetto: così Mike Leigh ha scritto e girato Tutto o niente (All or Nothing. L’affetto, tuttavia, non l’ha indotto ad attenuare le molte durezze e le molte miserie che intristiscono le vite di Phil (Timothy Spall) e di Penny (Lesley Manville), dei loro figli Rachel (Allison Garland) e Rory (James Corden), e degli altri che condividono la loro povertà materiale e la loro desolazione. Nessun pregiudizio si frappone fra il suo occhio e i suoi personaggi: il suo cinema non paga il prezzo, sempre esoso, dell’impegno sociale immediato. Certo lo si sente sullo sfondo, quell’impegno. Se ne avvertono la sincerità e la rabbia. Mai però lo si sorprende a sovrapporsi al racconto, alla sua autonomia espressiva e poetica. È doloroso “entrare” nelle immagini di Tutto o niente, nei suoi dialoghi crudelmente umani, troppo umani. Quello che Leigh descrive è (sembra) un paesaggio devastato, un territorio svuotato d’ogni possibilità. Nelle inquadrature d’inizio questo (apparente) deserto morale e affettivo è raccontato per cenni, con riferimenti a personaggi e a situazioni che tornano nell’indifferenza della circolarità narrativa, e di cui non si colgono i legami reciproci. Ognuno così emerge ai nostri occhi in una sua sconfortata solitudine. A lungo in platea non la si supera, questa frammentazione di sensibilità e di affetti. D’altra parte, pian piano, la miseria emotiva lascia intravedere una dimensione più profonda, e anche più ricca di sofferenza. L’effetto è di sorprendente simpatia, cioè di condivisione, di partecipazione alla vita di uomini e donne che, ora, ci appaiono esposti senza difese alla vita. Se mai siamo stati tentati di giudicare le loro esperienze, se mai abbiamo creduto di esaurire la nostra curiosità umana in una condanna, ora invece sentiamo l’urgenza di arrivare fino nei loro cuori e nelle loro anime, e di scoprire il luogo segreto in cui quelle esperienze nascono già sconfitte.
Perché Carol (Marion Bailey) perde le sue giornate nell’alcol? Perché il marito Ron (Paul Jesson) ne condivide l’apatia suicida, incurante di trascinare nella loro propria distruzione la figlia? E perché questa travisa la sua rabbia e riduce la sua ribellione a gesti anch’essi autodistruttivi, per quanto le sembrino strategie d’amore. Infine, perché fra loro e in genere fra tutti gli uomini e le donne del film non ci sono discorsi e non ci sono parole, ma quasi solo suoni verbali vuoti di senso, se non invettive e turpiloquio? Questo alla nostra simpatia appare come il luogo segreto della loro sconfitta: questa incapacità e impossibilità di elaborare le sofferenze facendone un discorso, e perciò di dare parole alle solitudini. Capita così che il cuore e l’anima tentino d’arrivare a farsi coscienza e linguaggio, ma che proprio lì, nel luogo in cui le parole prendono forma, sperimentino la loro prima sconfitta (infatti c’è chi, nel film, arriva a “scrivere” sul proprio corpo l’amore che gli è impossibile dire). Da un tale circolo vizioso i personaggi di Leigh rischiano di non uscire più. Ogni tentativo di chiedere all’altro tutto, come sempre pretendono il cuore e l’anima, innalza l’incapacità di parlargli davvero, e anche di dare a se stessi le parole necessarie alla consapevolezza del proprio bisogno emotivo. Così le richieste d’amore sono fraintese e negate, e alla fine la loro forza si capovolge in gesti cattivi che danno e fanno male, e che a loro volta alimentano le sofferenze e le solitudini. Tutto questo sta ben dentro una desolazione materiale, ben dentro un abbandono sociale dei più deboli, che nel film non è affrontato esplicitamente, ma che lo colora della propria miseria. D’altra parte, lo sguardo di Leigh è colmo d’affetto e simpatia. Il suo cinema non può abbandonare anch’esso uomini e donne di cui ha sentito e ha visto la sofferenza segreta. E allora escogita per alcuni uno “stratagemma’ che li sottragga al deserto emotivo. A vincere la crudele circolarità del farsi male, a interrompere il circolo vizioso dell’amore frainteso in cui Phil, Penny, Rachel e Rory sembrano ormai persi, è un ultimo colpo cattivo della sorte. Nel momento in cui la sconfitta sembra più fonda e “necessaria”, con simpatia e affetto quello stesso dio cieco del caso apre una via d’uscita alle loro solitudini. Attorno al letto di Rory, i quattro trovano l’occasione e il coraggio di fare del proprio bisogno d’amore un discorso condiviso, e dunque danno forma alla consapevolezza di se stessi. D’improvviso, nonostante ogni miseria e ogni abbandono, il niente che li minaccia si apre, e il tutto dei loro cuori e delle loro anime corre su ponti di parole.

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Anything else

In programmazione: 27/11/2003

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Jerry Falk è un giovane aspirante scrittore di New York. Incontra Amanda, una ragazza libera e spregiudicata, e se ne innamora pazzamente. Amore e passione, però, non bastano a tenere in piedi la relazione e Jerry chiede aiuto al suo mentore. Questo film rappresenta una svolta nel cinema di Woody Allen per più motivi. Quello più esteriore è la sua presenza (per la prima volta dopo anni e anni di programmazione dei suoi film e anche dopo l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera che fece ritirare da Carlo Di Palma) alla Mostra del Cinema di Venezia. Quelli invece più sostanziali stanno, come è giusto che sia, sul piano dello stile e del contenuto del film. Sul piano stilistico colpisce il frequentissimo uso che Woody fa dello sguardo in macchina. Jerry non perde occasione per rivolgersi allo spettatore, coinvolgendolo quindi direttamente nelle sue vicende.
Woody poi utilizza per la seconda volta un alter ego cinematografico in compresenza sullo schermo. Lo aveva già fatto con il personaggio di Michael Caine in Hannah e le sue sorelle ma il rapporto tra i due non era comunque così diretto. Qui invece la relazione dei due è da maestro ad allievo nella difficile scuola della vita. Il primo insegna al secondo come comportarsi e nessuno dei due è in ottime relazioni con se stesso e il mondo. Ne nasce un interessante duetto con variazioni sui temi cari al regista.
Ma dove la sorpresa si fa veramente grande è quando Woody reagisce ai soprusi con la violenza. Il suo personaggio non subisce più in totale passività. Che sia cambiato qualcosa dopo l’11 settembre? Certo è che il suo cinema costituisce sempre un invito a riflettere sull’uomo e sulla sua condizione perché Woody è perfettamente consapevole, come afferma il suo personaggio, che “Se uno va alla Carnegie Hall e vomita sul palco troverà qualcun altro disposto ad affermare che si è trattato di un’opera d’arte”. Allen non ama questo tipo di esibizioni e di estimatori.

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La meglio gioventù (Seconda Parte)

In programmazione: 20/11/2003

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Gli ultimi 40 anni della Storia italiana sono raccontati attraverso le vicende di una famiglia.
Il protagonista principale è Nicola (da cui parte il racconto) il quale, durante l’alluvione a Firenze del ’66, incontra e si innamora di una donna e la segue per vivere nella città di lei, Torino.
E’ la Torino degli anni ’70, sullo sfondo del terrorismo, dei problemi operai e dell’immigrazione dal Sud. Questo è l’incipit che prosegue fino ai giorni nostri per chiedersi e chiederci che cosa sia cambiato da allora e cosa sia rimasto uguale.
Un film per il quale era previsto solo il passaggio in televisione presente invece a Cannes nella sezione “”Un certain regard”. Un’opera storica raccontata in 6 ore, ma non solo: un affresco che descrive l’evoluzione dei costumi, dei rapporti familiari e le trasformazioni sociali, con qualche riflessione pungente sulla politica del nostro Paese. Dopo tanta televisione che si spaccia per cinema troviamo un film che puo anche passare in televisione ma che soprattutto consente al pubblico di rivisitare passioni, lotte, errori e speranze di una generazione e di quella che e’ venuta dopo.

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La meglio gioventù (Prima Parte)

In programmazione: 13/11/2003

Descrizione

Gli ultimi 40 anni della Storia italiana sono raccontati attraverso le vicende di una famiglia.
Il protagonista principale è Nicola (da cui parte il racconto) il quale, durante l’alluvione a Firenze del ’66, incontra e si innamora di una donna e la segue per vivere nella città di lei, Torino.
E’ la Torino degli anni ’70, sullo sfondo del terrorismo, dei problemi operai e dell’immigrazione dal Sud. Questo è l’incipit che prosegue fino ai giorni nostri per chiedersi e chiederci che cosa sia cambiato da allora e cosa sia rimasto uguale.
Un film per il quale era previsto solo il passaggio in televisione presente invece a Cannes nella sezione “”Un certain regard”. Un’opera storica raccontata in 6 ore, ma non solo: un affresco che descrive l’evoluzione dei costumi, dei rapporti familiari e le trasformazioni sociali, con qualche riflessione pungente sulla politica del nostro Paese. Dopo tanta televisione che si spaccia per cinema troviamo un film che puo anche passare in televisione ma che soprattutto consente al pubblico di rivisitare passioni, lotte, errori e speranze di una generazione e di quella che e’ venuta dopo.

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