Rosetta, che non è ancora maggiorenne, si deve far carico della madre alcolizzata con cui vive in una roulotte in un camping ai margini di un bosco. Licenziata da una fabbrica dove era stata assunta in prova va in città per vendere alcuni abiti usati e conosce Riquet che lavora in un chiosco dove si vendono cialde. Rosetta viene assunta e al contempo ha anche finalmente un amico che le rimane accanto anche quando, qualche giorno dopo, viene nuovamente licenziata. La ragazza, dopo l’ennesimo scontro con la madre, decide di abbandonare la roulotte e riceve ospitalità da Riquet. Il bisogno di trovare un lavoro continua però a tormentarla.
“9 dicembre 1996. Rosetta, la donna che s’indurisce per sopravvivere e finisce per perdere ciò che ha di più caro? È agganciata al lavoro. Da lì e solamente da lì potrà arrivarle il riconoscimento da parte degli altri. Appartenere alla comunità umana. Rifiutare con tutte le sue forze la morte sociale”. Questa annotazione riportata da Luc Dardenne nel suo diario agli inizi della scrittura del film sintetizza in modo perfetto il senso di questa opera in cui i Dardenne esplicitano con un assoluto rigore stilistico il loro sguardo su un’umanità dolente e, ancora una volta dopo La promesse, giovane. La macchina da presa pedina, si potrebbe quasi dire insegue, la protagonista. Le sta incollata spesso alla nuca, soffre insieme a lei che si appiglia a qualsiasi situazione che le possa offrire l’occasione di guardare a se stessa con quella dignità che la madre ha perduto.
L’assenza di colonna sonora musicale di commento, già presente nel film precedente, si fa qui ancora più simbolica ed efficace. Non c’è musica, non c’è armonia che possa sostenere questa ragazza ogni volta vicina alla meta per poi finire ricacciata indietro. Ecco allora che i due autori, con il loro film più distante dai canoni di fruizione abituale, chiedono allo spettatore di partecipare all’angoscia della protagonista lasciando però, ancora una volta, un barlume di speranza.
Solo accettando la realtà dell’altro è possibile riconoscersi come essere umano ed accettarsi anche nelle proprie cadute e nella propria apparente inadeguatezza (quel dolore al ventre che persiste). In Belgio il film creò un movimento di opinione che portò a una legge sul lavoro giovanile definita “Legge Rosetta”.
Faenza si misura con la questione ebraico-palestinese. La storia dell’ebrea e dell’arabo sa di Romeo e Giulietta.. Tel Aviv è una città di tendenza, ma qui non si avverte. Grande anteprima in Israele e successivo flop nelle sale.
Judith, sedici anni, e il fratello Wesley, poco più grande, sono nella stazione di pullman della loro cittadina. Aspettano di partire per New York dove lui comincerà ad andare al college. Wesley è seduto e legge un libro, Judith, più inquieta, non riesce a stare ferma e rivede con la memoria la loro difficile situazione familiare, i bruschi rapporti tra i genitori, il nervosismo e la tensione continua. Intorno il movimento della stazione: una donna alla ricerca di volantini, un vecchietto che compra biglietti della lotteria, una giovane dall’aria spaventata. Mentre cammina, Judith viene avvicinata da Jimmy, un suo coetaneo che dapprima le dice di essere anch’egli in attesa di partire ma poi le confessa di essere un frequentatore assiduo di quel luogo, dove passa interi pomeriggi. Jimmy conosce tutte le persone che vanno e vengono, soprattutto conosce le loro storie, e comincia a raccontarle a Judith: cosa è veramente accaduto alla ragazza bruna alla ricerca di un’avventura romantica, o alla donna matura che desiderava un figlio. Judith si lascia coinvolgere da questi racconti, sa che non può distinguere ciò che è vero da qualche invenzione, ma capisce quanti problemi si possano nascondere dietro uno sguardo o un atteggiamento all’apparenza incomprensibili. Quando arriva il momento della partenza, Wesley sale sul pullman per New York, Judith su quello per la cittadina di Roma. Lei e Jimmy si scambiano gli indirizzi. Forse si vedranno di nuovo.
Tao Lan esce di prigione dopo diciassette anni e non riconosce più il suo paese. Tutto è cambiato, rapporti e ambizioni. E certamente il nuovo corso non è migliore. Un’istantanea della Cina che gli occidentali non si aspettano. Buon documento autoctono, nelle caratteristiche del Cerchio (la vita e le donne in Iran). Tanto basta per essere premiati a Venezia (alla regia).
Il regista ricostruisce l’avventura di Salvatore Giuliano, il celeberrimo bandito del dopoguerra siciliano, con immagini mirabilmente fotografate e collegate con la sua voce. Il protagonista è sempre visto di sfuggita o di spalle e i misteri della vicenda non sono risolti, ma solo proposti all’attenzione dello spettatore.
In una cittadina veneta, ecco sciorinati i molti vizi e le poche virtù di una provincia piccola piccola, dove la vita scorre sorniona tra chiacchiere e tradimenti, farse e tragedie coniugali, scandita dai pettegolezzi nel bar della piazza principale. L’episodio più bello dei tre che lo compongono, è quello di un modesto impiegato di banca (interpretazione maiuscola di uno splendido Moschin) oppresso da una moglie pestifera, che sogna una impossibile evasione con una graziosa cassiera di bar (Virna Lisi).
Il regista finlandese, meno attivo rispetto ai primi anni, ci regala sempre dei film piacevoli tra dramma e ironia. Questa volta uno straniero visita la casa di una donna infelice sposata a un impassibile marito più vecchio di lei. Quando l’uomo le propone di fuggire di casa, la poverina si affida a lui e finisce in un postribolo. Girato in bianco e nero e completamente privo di dialoghi, ma non di rumori, era dai tempi de L’ultima follia di Mel Brooks che non si tentava l’esperimento. Il film renderà felice il pubblico di nicchia che si è creato Kaurismäki, ma non piacerà a quello medio.
Il titolo è idiomatico e significa, più o meno, sottosopra. Broadbent si è meritato un premio a Venezia per la sua interpretazione di questa rievocazione del mondo di Gilbert&Sulivan, maestri di operette. La regia del realista Leigh risulta un po’ spiazzata tra piumini di cipria e lustrini, alla ricerca di una spensieratezza che finisce per essere un po’ forzata. Gilbert&Sullivan preparano, nel film, il successo della loro opera più celebre, Mikado. Chi ama l’ambiente teatrale e la rievocazione dell’età vittoriana gradirà questo film.
Una maestrina (con o senza la penna rossa) va in cerca della pecorella smarrita, lo scolaretto scomparso dalla sua classe. La classe di Yimou non è acqua, anche con un soggetto deamicisiano. Uno di quei film fatti apposta per vincere il Leone a Venezia. Cosa che si è puntualmente verificata. Dalle opere in costume, Lanterne rosse, ai soggetti contemporanei, lo stile perde un po’.
Un poliziotto messicano, Vargas, affianca un ispettore americano, Quinlan, nelle indagini sull’uccisione di un ricco proprietario terriero. Ben presto Vargas scopre che Quinlan ha un’idea tutta sua della giustizia e che non esita a falsificare le prove pur di far combaciare la realtà con le sue convinzioni. La verità alla fine trionfa, ma non senza difficoltà . Da un “giallo” di Whit Masterson. Questo titolo è diventato, nel tempo, un vero culto per gli appassionati. Pur non essendo considerato una delle opere fondamentali del regista, contiene alcune soluzioni di linguaggio richiamate anche nelle scuole di cinema. Molto citato è il piano sequenza di dodici minuti dell’inizio. E anche le acrobazie di Charlton Heston nel finale quando pedina Quinlan cercando di registrare la sua voce per incastrarlo. L’aneddotica racconta di Marlene Dietrich, che non era prevista nella sceneggiatura, in visita casuale sul set, inserita estemporaneamente nella parte della zingara. La produzione impose al regista alcune scelte non gradite. Welles disse: “mi hanno dato Heston, biondo di un metro e novanta, per fare un poliziotto messicano”. Nel 2001 il film è stato rimasterizzato e ricomposto nella colonna sonora. È stato distribuito nel grande circuito in edizione originale sottotitolato. Il pubblico, soprattutto giovane, ha risposto bene.
Noiosetto com’è, potrebbe appartenere a Dogma. Questo film racconta con monotonia la cronaca di un amore in tristi stanze d’albergo. Un amore in cui non succede nulla, protagonisti non gradevolissimi, atmosfere “francesi” che piacciono solo ai Francesi.
Il film più riuscito del regista francese dai tempi di Il marito della parrucchiera. Girato in bianco e nero, la storia descrive un amore come solo i francesi sanno fare. Adele, nottetempo, viene salvata dal suicidio da Gabor, un lanciatore di coltelli. Fare l’assistente in questo tipo di lavoro è molto pericoloso e l’uomo riesce a convincere solo aspiranti suicide a lavorare con lui. Non sapendo dove andare Adele lo segue. Il loro rapporto rimane allo stadio dell’amicizia. Diventerà amore più tardi, dopo che Adele avrà conosciuto un altro uomo. Bravi entrambi gli interpreti.
Storia di due ragazze, una on the road e l’altra seduttrice. Sono diversissime dunque, e siccome gli estremi si attraggono, diventano amiche e mettono su casa insieme. Frequentano tanta gente, i rapporti non sono mai facili. Film vivo con due brave interpreti – Bouchez e Regnier – che hanno vinto la Palma d’oro a Cannes per la migliore interpretazione femminile.
Belgrado. Fine anni Novanta. Manù, emigrato, fa ritorno a casa sperando di ritrovare Natalia, la fidanzata di un tempo. Due amici si rivelano i reciproci tradimenti fino a che uno dei due uccide l’altro con una bottiglia spezzata. Poi sale su un treno e si fa saltare per aria insieme a una giovane passeggera. Un tassista dà un passaggio a un anziano poliziotto per rivelargli di essere stato il suo aggressore poco tempo prima. Questa e altre vicende incorniciate nella narrazione di un travestito che si esibisce al “Balcan Cabaret” in uno dei film più ‘a cuore aperto’ che la cinematografia della ex-jugoslavia abbia prodotto. Senza le astuzie, gli ammicchi, le piccole (e grandi) cialtronaggini di un genio visionario come Kusturica ma con la grande e sentita umanità di uno sguardo chirurgico che non difetta della pietà ma non può fare a meno di mostrare l’abisso di dissoluzione verso cui qualcuno sta conducendo un popolo.
Un’auto percorre in campo lungo una strada sterrata. Così si apre il film, con uno dei “luoghi” visivi ormai canonici per il cinema di Kiarostami. Che non teme di riproporlo proseguendo un rigoroso percorso di depurazione dello sguardo del suo cinema. Così la storia dell”ingegnere’ che deve girare un documentario sui riti funebri che si tengono in un villaggio del Kurdistan iraniano diventa l’occasione per approfondire segni antropologici e psicologici. I simboli (tartaruga e scarabeo per non citarne che due) non sono mai forzati così come è precisa e toccante la scena in cui si intravede il volto di una ragazza altrimenti celata allo sguardo estraneo. Se vi viene da dire “Basta!” alla riproposizione della scena del cellulare che non prende il campo forse avete ragione voi. Ma è più facile che dobbiate andare a rivedervi la differenza tra reiterazione e progressione. Premiato a Venezia da una giuria che aveva come presidente Kusturica. Che fa un cinema esattamente opposto.
Quattro fratelli dinanzi al letto di morte della madre. Hanno caratteri distantissimi tra loro. I ricordi li assalgono. Poi una notte capita di tutto, da un temporale che scoperchia la chiesa scelta per il funerale fino al trasporto ‘a braccia’ della bara. Mullan sceglie di raccontare in un modo totalmente personale un disagio esistenziale ‘made in Scotland’. Il suo è un grottesco acido e amaro che segna però un interessante esordio alla regia.
Ivory si ispira in questa occasione alla vita del romanziere James Jones per affrontare il tema del rapporto tra due mondi lontani e reciprocamente diffidenti come quello francese e quello americano. Lo scrittore con moglie, figli, figlio adottivo e governante vive a Parigi negli anni Sessanta e Settanta. Ivory indaga le ragioni del cuore e della ragione con la consueta abilità , ma anche con l’altrettanto consueta perfezione tendente all’algido. Così i personaggi finiscono con l’occultare lo sfondo storico/sociale dicendoci molto di se stessi, ma poco (tranne per l’accuratissima ricostruzione filologica) del periodo storico in cui vivono.