Molto originale e particolare questa strana biografia sul pianista americano, molto famoso fra gli appassionati di musica classica.
Sono trentadue cortometraggi che come flash fotografici ci restituiscono tanti piccoli pezzi di
un puzzle.
Ci sono le fasi della vita e della carriera di Gould ricostruite dal regista con aggiunta di interviste a persone che lo hanno conosciuto.
Non si tratta però di documentario, ha piuttosto una vaga parentela con lo stile di Jarman in Wittgenstein.
Girato co n la partecipazione degli abitanti di Rostamabad e Roudbar, il film è un ideale proseguimento di Dov’è la casa del mio amico?.
Siamo in Iran nel 1990. Il regista percorre in auto col figlio le zone terremotate per cercare gli attori di quel film. Difficile da raccontare, è una storia per chi cerca profonde emozioni, lontano da logiche commerciali.
Secondo fil per il regista taiwanese che nel 1993 vinse il Cinema Giovani di Torino con un’opera mai distribuita in Italia.
Mei-mei è una bella agente immobiliare. Hsiao-kang si occupa di loculi per urne cinerarie. Ah-rong espone sul marciapiede vestiti da donna. Dopo alcuni, inutili, intrecci sentimentali alla fine torneranno tutti e tre soli e Mei-mei piangerà su una panchina, nella lenta e lunghissima sequenza finale.
Vincitore ex aequo del Leone d’Oro alla Mostra di Venezia. Osannato da una parte della critica, si tratta semplicemente di un buon esercizio di scrittura, a volte riecheggiante Jean-Marie Straub e in
parte Michelangelo Antonioni. Comunque niente di così innovativo come qualcuno ha detto.
Ascesa al potere economico di un piccolo impiegato che ha un’idea geniale e inventa l’hula-hoop.
La storia è solo un pretesto per i Coen. Ciò che a loro interessa è mettere inscena un grande cerchio narrativo della durata di 111 minuti sulla cui circonferenza possano comodamente trovare spazio citazioni e ammiccamenti cinefili.
Ovviamente non mancano equilibristiche riprese che si accompagnano a una scenografia in cui lo spazio si fa tempo.
Seconda opera di Pasquale Pozzessere che rispetto a Verso sud compie notevoli progressi. Solo nella seconda parte la sceneggiatura rivela dei punti deboli. La regia è diventata sicura e le interpretazioni sono buone. Soprattutto quella di Michele Placido. Tratta del difficile rapporto tra un figlio tornato dal servizio di leva e il padre, che lavora al porto di Genova. L’uomo, che ai suoi tempi ha partecipato attivamente alla lotta operaia, vorrebbe che il figlio lavorasse in fabbrica. Ma il ragazzo è a disagio e comincia a sbandare. Ruba auto, chiedendo piccoli riscatti, e finisce in carcere. Conosce un transessuale e ne diventa amico. Decide di andarsene per un lungo viaggio e cerca di rubare i soldi in casa. In un finale drammatico padre e figlio finiranno col sedersi attorno a un tavolo e probabilmente nascerà un dialogo.
E’ appunto la vita di Casanova secondo Fellini. La fuga dal carcere dei Piombi, i suoi tentativi arrivistici, le sue storie di sesso, le amicizie importanti (e deludenti per lui), la decadenza squallida. Un film che ha fatto molto discutere.
A Berlino ci sono due angeli, Cassel e Raffaela (Sander e Kinski), pieni di buone intenzioni nei confronti degli umani. Vorrebbero aiutarli, alleviare le loro sofferenze. Gli altri personaggi sono: un pizzaiolo che canta Funiculì Funiculà (Ganz), il vecchio autista di un gerarca nazista, un gangster americano che vende armi e pornografia (Bucholz), due bambine molto sensibili, un gruppo di acrobati, un investigatore privato troppo contorto (Vogler), un altro angelo “nero” e cinico che forse rappresenta il destino (Dafoe), Peter Falk e Lou Reed che fanno se stessi. Cassel compie un’azione anomala e si trova a essere un umano, e da quel momento comincia a non capirsi. Gli piace bere, gli piacciono i soldi, insomma va alla deriva. Certo, gli uomini sono strani e hanno smarrito il senso di tutto, del bene e del male. Il senso generale della vita. Alla fine, grazie a un ultimo eroismo, Cassel ritorna angelo e ha molti elementi in più per fare il custode. È un film ingiudicabile. Se si ama Wenders l’unica scelta è un atto di fede. Per chi è indifferente ai temi del regista valgono certi episodi di straordinaria creatività , emozione e intelligenza. Intelligenza tutta tedesca. Wenders afferma continuamente la sua radice artistica che, non dimentichiamolo, è forse la più profonda, incidente e imponente del Novecento. Non può dunque mancare un richiamo al nazismo, all’espressionismo (suggestiva la citazione dell’ Urlo di Munch) e alla comunicazione diretta di una certa letteratura (e inoltre arte figurativa, teatro e cinema) che affrontava i temi per rappresentarli, ma soprattutto per risolverli. Con quell’inconfondibile chiave dolorosa e romantica. È una sorta di antropologico ritorno ingenuo. L’angelo dice: “Non siamo il messaggio, siamo i messaggeri”. La morale finale è che occorre essere buoni. Una dichiarazione di sentimento e di semplicità allarmante detta da Wenders, uno che pensa, soffre, e conosce, persino troppo. Una volta accettato il postulato si può anche pensare che sia buona la sua tesi: abbiamo dimenticato tutto, ricominciamo dal primo, naturale comandamento: non fare del male ai nostri simili.
Tratto dal romanzo di Yu Hua. Il film ha vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes e Ge You quello di miglior attore. Un cinese si riduce in miseria, travolgendo la famiglia, per il vizio del gioco. Il padre muore di crepacuore e l’uomo va a vivere da solo, lasciando moglie e figlio. Poi i due coniugi si riconciliano e attraversano tragedie e dolori. Passando dalla guerra voluta da Chiang Kai-Shek agli anni Cinquanta, a Mao Tse-Tung, fino alla rivoluzione culturale degli anni Sessanta. Molto bravi gli interpreti. Rispetto ai precedenti lavori Zhang Ymou cede forse qualcosa allo spettacolo, ma il fascino del suo cinema è ancora intatto. Il lavoro è stato osteggiato dalla censura cinese, che non ama il regista.
Il più grande regista portoghese alle prese con Flaubert.
Infatti questo film pare ispirato a Madame Bovary.
Ai giorni nostri, in Portogallo, Emma tradisce il marito con alcuni amanti.
Lo aveva sposato senza amore. Molto particolare. Come tutto il cinema di De Oliveira, il film richiede attitudine da cinefilo.
Riccardo e Gina sono felicemente sposati con un figlio.
Lui fa l’autista e lei è impiegata alle poste. Vivono una vita di risparmi e di rinunce, ma sereni. Un giorno entra nella loro vita Saverio, un ragazzo dal carattere difficile e debole psicologicamente.
Saverio si innamora di Gina e comincia sistematicamente una corte che diventa troppo insistente. Buona seconda prova di D’Alatri dopo Americano rosso.
Mazzacurati conferma i buoni risultati di Un’altra vita, primo film della maturità artistica, con questa commedia dolce-amara dove si narra del viaggio di due amici verso l’est europeo. Vincitore del Leone d’Argento a Venezia e premio come miglior attore non protagonista a Roberto Citran. Franco viene licenziato da un’azienda che alleva bovini e per risposta ruba Corinto, il miglior toro.
È però un toro particolare, da fecondazione artificiale. Convince l’amico Loris, molto perplesso a dire il vero, ad andare in Ungheria per venderlo. La cosa non è facile e dopo alcuni incontri di varia umanità i due dovranno ridimensionare il loro progetto. Buone le musiche di Ivano Fossati.
Una ragazza è ricercata dai familiari di un uomo che lei ha ucciso. Si rifugia in un monastero per poi fuggire con un giovane che sta prendendo i voti. Farà una fine tragica. Un fotografo che lavora a Londra torna in Macedonia e viene a conoscere una realtà di conflitto tra due popoli una volta in pace.
Il regista è macedone ma è vissuto molto negli Stati Uniti. Viene da un paese dove si produce un film ogni due anni e ha quindi dovuto cercare una produzione inglese. Vive, come il protagonista del suo film, in un paese straniero e come esule vede con maggior obiettività le intolleranze tra macedoni e albanesi.
Gli episodi che si intersecano vengono collegati tra loro in maniera atemporale come già fece Jim Jarmusch in Mystery Train e come ha fatto, praticamente in contemporanea con Manchevski, Tarantino in Pulp Fiction.
Attenzione alle facili critiche verso un cinema d’autore mediato dalla tecnica occidentale. Importanti le musiche. Una canzone dei Beastie Boys viene ripetuta più volte per legare temporalmente gli episodi.
Crissy Rock per questo film ha vinto un premio a Berlino. È la storia di Maggie, una quarantenne che ha vissuto con un marito manesco.
La sua vita è sempre stata una lotta fra miseria e brutture. Ha dunque un carattere violento ma a modo suo vuole un gran bene ai quattro figli.
Li ha avuti da quattro uomini diversi e li mantiene cantando nei pub. Per andare a lavorare è però costretta a chiuderli a chiave in casa e una sera c’è un incendio. Vengono salvati per miracolo, ma Maggie perde la tutela. Un film da cui si esce con la rabbia dentro per l’impietosa legge inglese.
Steven (Hopkins) è stato per trent’anni il maggiordomo di Lord Darlington (Fox), gentiluomo formale e ingenuo e molto influente, che prima della guerra stava dalla parte dei nazisti. Quando Darlington muore la tenuta viene acquistata da certo Lewis (Reeve), americano pragmatico, ma con un suo stile.
Stevens si mette così in viaggio per riassumere l’antica governante Sara Kenton (Thompson), che se n’era andata vent’anni prima, per (infelicemente) sposarsi. La ritrova, ma le cose rimangono come sono. Nel frattempo Stevens è stato maggiordomo impeccabile, mancando persino di assistere il padre
morente per non compromettere il perfetto servizio di una cena, e ignorando tutto il resto della vita, sentimenti compresi, incapace di giudicare gli errori enormi del suo padrone che, come tale, era sempre dalla parte del giusto.
Il maggiordomo sembra vacillare solo quando la governante gli dichiara il suo amore, anche se subito torna formale e non riesce a liberarsi dei lacci. Tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro, il film è indubbiamente seducente. Ambiente, interpretazione, storia, dialogo, tutto perfetto. Del resto il nostro tempo sembra fatto apposta per farsi incantare dall’eleganza, dall’onore, dal senso del dovere, dalla limpidezza dei sentimenti, dalla forma quando aderisce alla sostanza.
Efficaci anche le istantanee storiche che mostrano una società inglese snob, distaccata e ingenua e “politicamente dilettante”, capace di credere a un ministro tedesco che definisce Hitler un “uomo di pace”.
C’è qualcosa che lega questo film a Romanzo popolare, citato a Venezia dal regista esordiente Virzì. Il protagonista proletario e di sinistra è in crisi col lavoro e con la moglie. Alla fine perderà l’una e l’altro.
Il film di Monicelli era ambientato a Milano e questo a Piombino; l’amante era un poliziotto e Ghini invece è un presentatore televisivo; la moglie rimaneva con un figlio mentre la Ferilli no.
I risultati sono soddisfacenti e il film risulta godibile. Confortato da un discreto successo di pubblico, risente di molti debiti verso la commedia all’italiana. Quello che si desidera dai nuovi autori è la ricerca di originalità oltre alla buona confezione o non ci sarà mai un ricambio generazionale.
Karol Karol, polacco sposato con la francese Dominique, viene portato in Tribunale dalla consorte per una causa di divorzio.
Motivazione: il matrimonio non è stato consumato. Con la carta di credito bloccata e con la valigia dallo scarso contenuto si ritrova in strada. Qui viene raggiunto da un individuo che gli propone di farlo rimpatriare clandestinamente se ucciderà un uomo che non vuole più vivere ma non ha il coraggio di suicidarsi.
Una volta in Polonia la sua vita cambierà in modo radicale.
Krzysztof Kieslowski affronta il secondo dei colori simbolo della Rivoluzione francese concentrando la sua attenzione su un protagonista maschile che segue la Julie di Film blu e precede la
Valentine di Film rosso.
Il suo nome è già evocativo del taglio narrativo che il regista intende dare al film: Karol ribadito anche nel cognome. Questo è l’appellativo con cui è conosciuto Charlot in
Polonia.
Siamo quindi di fronte a un film in cui predomina l’humour il quale però più che bianco è definibile come fondamentalmente nero. Innumerevoli sono le letture che si possono dare a quest’opera che ha al proprio centro l’uguaglianza dopo aver affrontato la libertà e in attesa della fraternità .
Quella che è stata meno valorizzata, per un film che a torto è stato spesso ritenuto più debole degli altri due, è la lettura socio-politica. Non va dimenticato che nella filmografia del Maestro polacco si trovano numerosi documentari sul regime comunista che subirono anche pesanti censure. Ora che il regime era caduto questo film avrebbe dovuto sancire un felice ritratto della Polonia.
Kieslowski girà invece una vicenda che si basa sull’uguaglianza ma si tratta non di una parificazione a un livello più elevato bensì infimo. Nella Polonia che ritrae si può ottenere
qualsiasi cosa: anche un cadavere proveniente dall’estero.
È sufficiente avere denaro. Non è difficile realizzare profitti se non ci pongono troppi vincoli morali e la ‘potenza’ nasce da un connubio tra desiderio e dominio. È una lettura decisamente amara e disincantata da parte di un artista che non provava certo sentimenti di nostalgia nei confronti del comunismo ma che leggeva nella società che lo circondava i segnali di un liberismo devastante sul piano etico.
Se in una scena vediamo Julie entrare per errore nell’aula del Tribunale (creando così una staffetta con il film precedente) ciò che lega le tre opere come un trait d’union esplicito, ma mai
sufficientemente sottolineato, è un altro elemento. In Film blu una persona cercava con fatica di infilare una bottiglia di vetro nel contenitore da marciapiede per il riciclaggio (la cosiddetta campana). Julie, troppo presa da se stessa non se ne accorgeva neppure.
Qui, di notte e dopo aver perso tutto, Karol osserva un uomo con il bastone che tenta la stessa operazione riuscendovi solo a metà ma non interviene. Quell’uomo è ‘impotente’ come lui e in questo risiede, purtroppo, la loro ‘uguaglianza’. Ma c’è ancora spazio per la fraternità di Film rosso.
Nonostante i risultati non siano del tutto convincenti, Mario brenta riesce a costruire un’atmosfera particolare che può essere paragonata a Il deserto dei tartari di Zurlini e Il segreto del bosco vecchio di Olmi. Come quei casi infatti la storia è tratta da Dino Buzzati. Barnabo è un guardiaboschi pieno di paure, contraddizioni e dubbi. Vive la sua esistenza tra le montagne costretto a grandi momenti di solitudine e a un difficile rapporto con il lavoro. Prova a fare il contadino ma alla fine torna alle origini e alla propria natura di solitario. Presentato al Festival di Cannes.
Tratto dal romanzo premio Pulitzer di Edith Wharton. Nella New York del 1870 il giovane Newland Archer (Lewis), appartenente a una famiglia molto in vista, sta per sposare la dolce May (Ryder) a sua volta figlia di cospicua famiglia. La ragazza ha una cugina, Ellen Pfeiffer), bellissima e triste, fuggita da un nobile marito europeo, creando, di conseguenza, scandalo. È già evidente al primo incontro fra i futuri cugini che qualcosa succederà . Newland, perbene a oltranza, letteralmente ammanettato dalle severissime convenzioni di quella società , non si decide a fare il primo passo.
Protegge Ellen nei giusti termini, facendola accettare in società ; oppresso dai sensi di colpa, anticipa il matrimonio con May, ma è sempre più innamorato dell’altra. Quando i due si decidono a dichiararsi e a “consumare”, ancora una volta le circostanze sono contro. Rimane loro un infinito amore platonico e in contumacia. Ormai vecchio e libero, a Parigi, Newland non avrà nemmeno il coraggio di rivedere la sua amata. Film decisamente importante.
Si potrebbe dire “esercizio multiplo” del grande regista americano, che si concede un cameo nel ruolo di un fotografo. Sono emersi i nomi del Visconti di Senso, di Frears e di altri, in realtà Scorsese non ha bisogno di imitare nessuno, se si applica a un genere lo conquista di puro talento, come aveva fatto con un altro film fuori dal suo… paniere, Cape Fear.
Non calligrafismo, ma arte applicata, la ricerca del lusso d’ambiente, fatto di composizioni di frutta, di salotti con dipinti d’autore, di pizzi, di servizi smaltati, di portate che farebbero impallidire Marchesi e toilettes di una società ricchissima che si ispirava a quella inglese. Da segnalare inoltre l’uso della voce fuori campo che sovrasta spesso la rappresentazione, ma che si vale della scrittura straordinaria della Wharton e della voce altrettanto straordinaria della nostra Maria Pia Di Meo.
Un film indispensabile. Un giovane va in Albania con un losco affarista che vuole aprire una fabbrica di calzature. Hanno bisogno di un prestanome e trovano un vecchio albanese. Ma questi fugge e il giovane lo insegue.
Viaggiano insieme, ma nascono molti problemi. Oltre a essere dimenticato dal “socio”, scopre che il vecchio è in realtà un italiano. Intorno a loro un paese allo sbando che campa di stenti e guarda la televisione italiana. Prenderanno una nave che li riporta in Italia.
Per certi versi migliore di Ladro di bambini ma più dispersivo. Il film, pur avendo un suo valore, soffre di alcune forzature. Vuol fare sia denuncia che poesia, non riuscendo a fonderli fino in fondo. La scena finale della nave carica di albanesi (vista e stravista in tv) rischia di essere inutile e ridondante.
Placido è bravo ma scompare presto. Lo Verso non è abbastanza duttile, mentre la vera sorpresa è Piro Milkani, il vecchio. In concorso alla Mostra di Venezia.
Un gruppo di donne indiane residenti in Inghilterra si regala una giornata di libertà recandosi a Blackpool, la Rimini inglese. Qui emergeranno le scatole cinesi di un’esclusione progressiva: gli inglesi diffidano degli indiani, gli indiani dei neri. Gli uomini indiani sottomettono le donne, le anziane non hanno un buon rapporto con le giovani. Un’opera prima che ha ricevuto un riconiscimento al Festival di Locarno 1993, girata con ironia e con profonda conoscenza della situazione descritta. Sempre in equilibrio tra commedia di costume e dramma con l’attenzione rivolta alla descrizione di personaggi “possibili”. Più vicina di quanto sembri al cinema di Ken Loach.
Diviso in tre momenti distinti, il film di Moretti è giunto nelle sale a distanza di quattro anni da Palombella rossa. Nel frattempo ha interpretato Il portaborse e diretto il film-documento La cosa.
Nella prima parte di Caro diario, intitolata In vespa, siamo a Roma nel mese d’agosto. Il personaggio-protagonista girovaga, cercando quartieri e luoghi inusuali. Va al cinema e vede, oltre a un film italiano minimalista sulle sconfitte presunte della sinistra e del ’68, Henry-Pioggia di sangue. Trovandolo brutto e troppo violento, decide di fare un terzo grado a un critico, che ne ha scritto le lodi con un linguaggio pseudo-colto e incomprensibile (piccola apparizione di Carlo Mazzacurati).
Dopo aver osservato delle coppie ballare il merengue, incontra Jennifer Beals. Infine visita il luogo dove è stato ucciso Pier Paolo Pasolini. Nella seconda parte, Isole, la più disimpegnata e divertente, incontra un amico che non ama la televisione. Insieme girano le isole Eolie fino a quando la tranquillità e la solitudine non fanno esplodere l’amico, che si converte a Beautiful e a Chi l’ha visto?e fugge verso il continente.
La terza parte, Medici, è invece la cronistoria, con una ripresa iniziale autentica, della lunga malattia che Moretti aveva contratto. Diagnosi e medicine sbagliate, medici poco disposti ad
ascoltare. Poi il paradosso finale: quella che sembrava una malattia della pelle era un tumore benigno e i sintomi erano riportati da una semplice enciclopedia medica. Lineare e semplice, questo film di Moretti conferma l’originalità e la suggestiva visione cinematografica dell’autore. Bravo Renato Carpentieri. Il regista ha ottenuto la Palma d’Oro al Festival di Cannes.