Presentato al Festival di Cannes dove meritava la Palma e non ha vinto nulla, è un grandissimo esercizio nel melodramma a tinte fosche. Siamo ancora nella Cina, questa volta rurale, degli anni Venti. Qui una giovane donna è sposata a un vecchio, impotente e violento. Non le perdona di non potergli dare figli. E lei si consola con un impiegato della lavanderia del marito. Al contrario del padrone lui è buono e giovane. La donna dà alla luce un bambino, nato da questa relazione. Il figlio diventerà un vero e proprio assassino.
Si tratta dell’unico film di questo regista, già assistente di Téchiné. Nel 1991 è infatti morto a soli quarant’anni. Argomento è l’amore impossibile. Ci sono due ragazzi e una ragazza ed il loro è uno strano triangolo. Suzanne e Marc vivono insieme ma non hanno rapporti, visto che lui è gay e desidera essere indipendente. I rapporti si intrecciano, veri o ammiccati, anche con tentativi omosessuali.
Buon esordio del regista belga Van Dormael. Premiato con la Camera d’or a Cannes, il film è un affresco visionario molto efficace. Inizia nel segno di Viale del tramonto con il protagonista che ricorda il suo passato mentre è già morto. Thomas, che si fa chiamare Totò fin da piccolo, è stato sempre convinto che alla sua nascita ci fosse stato uno scambio. E per tale scambio lui e Alfred hanno avuto ognuno la famiglia dell’altro. Così Totò è povero e Alfred è ricco. Cova per molti anni l’odio verso il piccolo nemico. Le morti del padre e della sorella sono avvenute infatti indirettamente per colpa di Alfred e di suo padre. Tra incendi e un breve amore con una donna, che ricorda la sorella e che si scoprirà essere la moglie di Alfred, si giunge al momento della vendetta che però non verrà attuata. Ottima interpretazione di Bouquet e del piccolo Godet. Colonna sonora importante. Una bella e nostalgica vecchia canzone di Charles Trenet.
Dopo Salaam Bombay e prima di mandare in porto il progetto sulla vita di Gandhi, la regista indiana ha costruito questa storia d’amore disturbata da umori razzisti. Una famiglia indiana estromessa dall’Uganda del regime di Amin e una famiglia di colore americana finiscono col confrontarsi con i problemi dei Montecchi e Capuleti. Perché la figlia della prima e il figlio della seconda si amano. Quindi un incrocio di plurirazzismo. Alla fine i due giovani decidono, più opinatamente dei predecessori che si suicidavano, di fuggire. Pur non avendo il vigore della prima opera della regista il film è condotto bene.
Dopo Racconto di primavera, secondo episodio della saga rohmeriana delle stagioni. La consueta analisi minimalista, forse meno coinvolgente del solito ma supportata dalla consueta maestria nella direzione degli attori, soprattutto le attrici. La protagonista è una ragazza madre che cerca di risolvere i propri problemi. È indecisa però tra due uomini molto diversi tra loro. Un altro capitolo nell’enciclopedia Rohmer.
Questo di Alan Parker può essere considerato il più naìf dei suoi film. Di opere musicali ne ha già fatte tre ( Piccoli gangster, Saranno famosi e il più riuscito e inquietante The Wall) ma l’approccio di The Commitments è diverso. Si comincia con uno squarcio dei sobborghi di Dublino dove il gruppo in questione comincia a formarsi e poi ecco sfilare i problemi, le tensioni, le attrazioni sessuali. Il gruppo è formato da tre coriste, i musicisti e il cantante. Riescono a fare il loro primo concerto importante al quale assistono giornalisti di testate musicali importanti. Alla serata aspettano invano l’arrivo di Wilson Pickett e dopo aver litigato si sciolgono. È la classica parabola del successo e del protagonismo ma visto, e qui c’è la novità, attraverso una band che muove i primi passi.
In una città senza nome il timido Kleinman viene svegliato nel cuore della notte perché prenda parte al gruppo che si è costituito per dare la caccia a un pericoloso assassino. Intanto nel circo che ha piazzato le tende in periferia, la tenera mangiatrice di spade Irmy abbandona il fedifrago marito clown. Troverà accoglienza e calore nel bordello locale. In seguito al suo fermo perché considerata una prostituta incontrerà, nei locali del commissariato, lo sconcertato Kleinman che non ha ancora compreso quale sia il suo ruolo nella caccia all’uomo. Lo capirà presto.
Alle origini di questo film c’è il testo teatrale pubblicato in “Citarsi Addosso” dal titolo emblematico “M” ( ogni riferimento a Fritz Lang è voluto così come quelli a Kafka, al cinema espressionista ecc…). Se è vero che “l’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira” Allen ne è uno dei creatori più attivi e creativi.
Il suo Kleinman (piccolo uomo) si muove per le vie oscure di una città senza nome in cui le architetture sono strutture dell’animo umano. La Praga del già citato Kafka e di Meyrink nonché la Vienna di Schnitzler e Freud si fondono al suono de “L’Opera da tre soldi” di Kurt Weill. Girato in un bianco e nero davvero espressionista Ombre e nebbia ci offre una lettura del vivere umano collocabile nell’ambito più pessimistico del cinema alleniano. Il piccolo uomo è al contempo soggetto e vittima del Piano Sconosciuto. L’Occhio di Dio è soltanto dipinto su una porta. Kleinman è solo, incapace di individuare il proprio ruolo all’interno del grande progetto di cui gli altri sembrano essere a conoscenza. L’uso nervoso della camera a mano in alcune sequenze anticipa le tensioni di Mariti e mogli film della crisi (tra Allen e la Farrow) e sulla crisi di coppia.