Caramel

In programmazione: 28/08/2008

Descrizione

A Beiurut, alcune donne lavorano in un istituto di bellezza: Layale (Nadine Labaki), innamorata di un uomo sposato, Nisrine (Yasmine Al Masri), che sta per sposarsi e non sa come dire al futuro sposo che ha già perduto la verginità, Rima (Joanna Moukarzel), che non riesce ad accettare di essere attratta dalle donne, Jamale (Gisèle Aouad), ossessionata dall’età e dal fisico, e infine Rose (Siham Haddad), che ha sacrificato i suoi anni migliori e la sua felicità per occuparsi della sorella Lili (Aziza Semaan). Nel salone, tra colpi di spazzola e cerette al caramello, si parla di sesso e maternità, con la libertà e l’intimità propria delle donne.
Nadine Labaki, insieme protagonista e regista del film, ci propone un affresco sulle donne, che non mancherà di andare dritto al cuore delle spettatrici, ma non solo. Un acquerello a tinte delicate, mai volgari, che tratta però temi di scottante attualità: la guerra, la convivenza tra cristiani e musulmani, il mischiarsi di abitudini ed etnie differenti. Stupiti, contempliamo come i problemi del mondo femminile siano sempre gli stessi, anche se il progresso sembra essersi fermato agli anni ’80. Le donne fanno scudo, insieme, per affrontare le difficili realtà da cui sono circondate ed assalite.
Con colori e fotografia degni dei pittori fiamminghi, Labaki poggia lo sguardo sulle dolci malinconie quotidiane, senza cadere nello scontato o nello stucchevole, e riuscendo a raccontare ben sei storie in una sola, senza che nessuna prenda il sopravvento. Narra attraverso gli occhi, i suoni, gli odori, in modo così pregnante da convincerci di poter toccare e assaporare, come se fossimo realmente immersi nell’atmosfera della ben bilanciata sceneggiatura.
Una parola a parte va indubbiamente spesa per la colonna sonora, dosata con saggezza, sempre presente e non stancante, che non mancherà di far ricordare il suo autore, Khaled Mouzanar.


Il velo dipinto

In programmazione: 14/08/2008

Descrizione

Kitty, una giovane donna della borghesia inglese in età da marito, sposa Walter Fane, un medico specializzato in batteriologia che nutre per lei un sentimento profondo.
Dopo il matrimonio, contratto per compiacere la madre, Kitty si trasferisce con Walter a Shangai, dove, annoiata, cede alle lusinghe di sir Charles Townsend, vice console maritato e padre di due figli.
L’adulterio viene presto scoperto da Walter che,ferito, decide di rivalersi conducendo la moglie al villaggio di Mei-tan-fu colpito da un’epidemia colerica.
L’isolamento forzato e le condizioni di morte e miseria in cui versa la gente del villaggio, costringono Kitty a un esame di coscienza che getta sul marito una luce nuova.
Commossa dall’amorevole dedizione con cui Walter giorno e notte assiste i malati, Kitty decide di
appoggiare la sua missione e di rendersi utile in ospedale.
In quel luogo sperduto impareranno ad amarsi e a perdonarsi.
I romanzi di Maugham, scrittore britannico morto nel 1965, sono stati per anni la magnifica ossessione di Edward Norton.
La sua scelta è poi ricaduta su “Il velo dipinto”, già trasposto sullo schermo nel 1934 da Richard Boleslawski e interpretato, nello splendore del bianco e nero, da Greta Garbo.
Il risultato è un film delicato che restituisce allo spettatore l’esperienza di una lettura diretta del libro, a cui rimane fedele, almeno nelle atmosfere e nei dialoghi.
A cambiare, fino a stravolgere il senso della storia, è l’epilogo, per il quale lo sceneggiatore
Ron Nyswaner sceglie la più facile soluzione della riconciliazione spirituale e fisica della coppia. Se il punto di osservazione, assunto dal romanziere e dallo sceneggiatore, è lo stesso (quello di Kitty), la differenza sta nel modo di intendere il suo personaggio, che nel film viene indagato non tanto per le sue caratteristiche psicologiche e sociali, ma in base alla funzione che svolge nello sviluppo del racconto.
La Kitty letteraria, calata perfettamente nella Cina inglese degli anni ’20, è portatrice inquieta di una drammatica disparità, è un “accessorio” di famiglia da emancipare attraverso il matrimonio. I suoi viaggi, quello geografico e quello interiore, la condurranno principalmente alla scoperta di sé. La rivelazione del suo essere, niente affatto consolatoria, non fa che riconfermarle la sua vocazione all’egoismo e all’individualismo.
La Kitty di John Curran, certamente più moderna e meno greve del suo doppio letterario, risolve a letto i veleni coniugali e certi vizi morali.
Il regista canadese conferma Naomi Watts e torna a “giocare coi grandi” all’adulterio come conseguenza del tedio esistenziale e della caducità della passione coniugale. Su una cosa regista e scrittore sono d’accordo: l’infedeltà non comporta necessariamente la rovina. Basta s-velarsi e trovare la strada del perdono.


Luci della ribalta

In programmazione: 18/04/2013

Descrizione

Con Luci della ribalta Chaplin intese narrare una storia individuale, la storia di un declino e di una morte, e forse prefigurava se stesso, o voleva esorcizzare.
Aveva sessantatré anni, pensava alla poesia e al sentimento e aveva finalmente accettato la parola nei film.
Aveva capito che la parola non sarebbe servita, come nel Grande dittatore, a enunciare i grandi temi: il cinema non aveva necessariamente quel dovere e Chaplin non aveva quella capacità. Charlot aveva espresso i massimi valori e sentimenti col gesto e le azioni.
Una bella storia individuale, capace di far ridere e sorridere, e anche commuovere, poteva essere altrettanto importante dei grandi messaggi sociali che aveva cercato di lanciare con immensa efficacia (Tempi moderni) o allarmante originalità (Monsieur Verdoux).
È la vicenda di Calvero, vecchio artista del varietà nella Londra degli anni Dieci. Non ha più successo ed è malato. Salva la vita a una ballerina disperata, la cura e le dà fiducia.
Ne fa un’artista e la porta alla sua “prima” trionfale. Nel frattempo chiede soltanto di fare un ultimo spettacolo e, se proprio non sarà successo, che non sia almeno un insuccesso.
Aiutato dal suo partner (Buster Keaton) ottiene un vero trionfo. Nell’ultima gag cade dentro un tamburo e vi muore.
Ma prima assiste al trionfo della sua protetta. Parabola straordinaria sull’altruismo, la fiducia e il coraggio. Il film commosse il mondo e Chaplin, ancora una volta, ebbe ragione.
Aveva voltato pagina e si era di nuovo imposto, aiutato dalla freschezza del ricordo e dell’esperienza diretta, se è vero che Calvero era un po’ Charles, ma soprattutto era suo padre che aveva fatto la fame dando piccoli spettacoli sui marciapiedi di Londra.
Il dialogo è pieno di considerazioni che sembrerebbero minime e banali, ma sono strumentali e rinviano a certi concetti naturali che in quegli anni sembravano sopraffatti dalle tante guerre fredde e cacce alle streghe. E fu proprio quella la stagione che rese più inviso il grande inglese agli americani, anzi, al loro governo. Molte le scene da ricordare: le lezioni di vita a Claire Bloom, l’incontro successivo in cui lui le chiede l’elemosina, infine il numero finale con Chaplin al violino e Keaton al piano.
E non si può non citare la colonna sonora composta dallo stesso Chaplin, uno dei più bei temi di tutta la musica da film.


Un sapore di ruggine e ossa

In programmazione: 28/02/2013

Descrizione

Nel nord della Francia, Ali si ritrova improvvisamente sulle spalle Sam, il figlio di cinque anni che conosce appena.
Senza un tetto né un soldo, i due trovano accoglienza a sud, ad Antibes, in casa della sorella di Alì. Tutto sembra andare subito meglio.
Il giovane padre trova un lavoro come buttafuori in una discoteca e, una sera, conosce Stephane, bella e sicura, animatrice di uno spettacolo di orche marine.
Una tragedia, però, rovescia presto la loro condizione.
A partire da alcuni racconti del canadese Craig Davidson, Audiard e Thomas Bidegain, già coppia creativa nel Profeta, traggono un racconto cinematografico a tinte forti, temperate però da una scrittura delle scene tutta in levare.
La trama e la regia sono estremamente coerenti nel seguire uno stesso rischiosissimo movimento, che spinge il film verso il melodramma e non solo verso la singola tragica virata del destino ma verso
la concatenazione di disgrazie, salvo poi rientrare appena in tempo, addolcire l’impatto della storia con “la ruggine” di un personaggio maschile straordinario, per giunta trovando un appiglio narrativo che tutto giustifica e tutto rilancia.
Un equilibrismo che può anche infastidire ma che rende il film teso, malgrado alcune mosse prevedibili.
Come spesso, nella filmografia di Audiard, corpo e spirito fanno tutt’uno, si ammaccano e si rimarginano insieme, senza bisogno di troppe parole: al contrario, la comunicazione, specie quella
femminile, passa attraverso un linguaggio muto ma intimamente comprensivo (qui è Stef che “parla” con l’animale ma anche il “dialogo” sessuale che si approfondisce senza l’uso di parole).
La macchina da presa del regista non è certo invisibile e le tesi, dietro il suo modo di filmare, sono sempre molto evidenti.
Questo film non fa eccezione e anzi spinge più che mai sui contrasti manichei tra bellezza e squallore, forza e debolezza, spirituali e letterali, fin quasi alla maniera.
Ma raggiunge un risultato non scontato laddove, pur essendo in realtà un lavoro molto scritto, dove tutto, fin dal primo istante, è pensato per tornare a domandar vendetta, la direzione degli attori e la
qualità dei dialoghi ci distraggono magistralmente, facendo sì che non ce ne accorgiamo quasi mai. La capacità del miglior cinema di Audiard di scartarsi da un percorso troppo rigido o incline alla retorica, questa volta non si manifesta né a livello di soggetto né di regia ma si ritrova più sottilmente nelle pieghe della messa in scena, nei gesti e nelle espressioni degli attori.


Amour

In programmazione: 14/02/2013

Descrizione

Anne e Georges hanno tanti anni e un pianoforte per accompagnare il loro tempo, speso in letture e concerti. Insegnanti di musica in pensione, conducono una vita serena, interrotta soltanto dalla visita di un vecchio allievo o della figlia Eva, una musicista che vive all’estero con la famiglia. Un ictus improvvisamente colpisce Anne e collassa la loro vita. Paralizzata e umiliata dall’infarto cerebrale, la donna dipende interamente dal marito, che affronta con coraggio la sua disabilità. Assistito tre volte a settimana da un’infermiera, Georges non smette di amare e di lottare, sopportando le conseguenze affettive ed esistenziali della malattia. Malattia che degenera consumando giorno dopo giorno il corpo di Anne e la sua dignità. Spetterà a Georges accompagnarla al loro ‘ultimo concerto’.
“Diventare vecchi è insopportabile e umiliante” scrive Philip Roth in “Everyman”, uno dei suoi romanzi più dolenti e implacabili intorno alla senilità e alla malattia, argomenti temuti e tenuti ai margini del discorso pubblico. Ci voleva un regista rigoroso come Michael Haneke per contemplarli, mettendo in scena una coppia di ottuagenari che guarda in maniera diretta la propria estinzione. E diretto e frontale è pure lo sguardo di Haneke, che ‘infartuando’ la sua protagonista introduce nella sua vita un senso di precarietà e un destino cinico, che non si accontenta di farti invecchiare, soffrire e morire, prima della tua dipartita si porta via i tuoi amici, quelli che amavi, quelli che conoscevi, quelli che frequentavi, costringendoti all’ennesimo funerale.
Una cerimonia funebre quasi sempre artificiosa e balzana come quella che Georges racconta ad Anne, esorcizzando la morte e ingaggiando con l’oblio uno scontro penoso. Nei sogni ad occhi aperti, Anne e Georges vorrebbero ‘vivere’ di nuovo, riavere tutto daccapo, guardando foto in bianco e nero o suonando un pianoforte accordato alla maniera della loro relazione. Ma è un attimo, non si fanno certo illusioni i personaggi interpretati da Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, la cui bellezza il tempo ha oltraggiato. I loro corpi, che hanno condiviso e abitato i ‘colori’ di Kieslowski, si arrendono in Amour a ogni sofferenza e al più irrevocabile declino in un crescendo di convalescenze e (ri)cadute.
Non risparmia niente Haneke allo spettatore, accomodato in sala nell’incipit del film e risvegliato nel progredire dell’affezione dalle “cose ovvie, altrimenti indiscusse”. La vecchiaia è un massacro e la malattia si fa beffa dell’ansia di durare con una precisione assoluta, terrificante, invisibile ma visibile nei suoi effetti. Haneke procede e approfondisce la critica a una struttura sociale ipocrita, che non ha il senso della realtà e del coraggio e persevera nel contemplare la ‘senescenza’ come tempo della pace e stagione dei ricordi sereni. Il male, che nel villaggio dei dannati nella Germania de Il nastro bianco cresceva dentro il corpo della comunità, in Amour consuma adesso il corpo di Anne, ingolfandola fino a ‘spegnerla’. Impietosa e severa, la violenza della malattia è raddoppiata dalla geometrica prigione dei movimenti di macchina e da uno stile di inarrivabile crudeltà. Unica concessione per Haneke è l’amore, l’amore del titolo, consentito insieme alla disperazione, alla rabbia e alla ribellione.
Questa volta non c’è niente da nascondere e l’etica raggelante dell’autore austriaco prevede una via d’uscita dopo aver scavato con le unghie nel dramma sostanziale dell’essere umano, dopo aver centrato la corporeità dell’esperienza della vita. A riempire nell’epilogo il vuoto di Anne e Georges resta soltanto il pieno della Eva di Isabelle Huppert, ultima espressione nel film dell’essere in vita.


Vita di Campagna

In programmazione: 15/05/1997

Descrizione

Sembra ormai irefrenabile l’impulso di portare il teatro in cinema. Impulso magnifico del resto, se si rispettano teatro e cinema. Se si cerca la novità e l’artificio ecco che la caduta è verticale perché più ci si allontana dai testi originali, più si va nell’inutile e nel caos. Dopo Riccardo III di Loncrain e ben due Zii Vania di Malle e Hopkins ( August), ecco un altro Zio Vania di questo australiano velleitario che dispone inutilmente di buoni attori. Siamo nel 1915. Un anziano critico teatrale (interpretato dal regista stesso) torna in Australia dopo molto anni. La sua giovane moglie (Scacchi) si innamora del giovane medico (Neill). Eleganza e natura. Ma non basta. Prodotto nel ’94 e approdato nell’estate di due anni dopo.


Ritratto di signora

In programmazione: 10/04/1997

Descrizione

Dal romanzo di Henry James. Provincia inglese, 1870: Isabella Archer, giovane e splendida americana, riceve una cospicua eredità alla morte dello zio. Inutilmente corteggiata da nobili e ricchi, approda a Firenze dove cade nella rete di Osmond (Malkovich) raffinato finto gentiluomo, in realtà fasullo e prepotente. Complice l’infida Madame Merle (Hershey), Isabella sarebbe solo lo strumento per fornire una dote alla figlia del marito. Dopo anni di pessimo e infelice rapporto la donna torna in Inghilterra. Forse si libererà. Grande romanzo, stupendi attori, budget adeguato, la scenografia naturale (Roma, Firenze, i vecchi palazzi, i saloni, i giardini, l’antiquariato) più nobile possibile. Tutto servito abbastanza male da una regista che non resiste alla tentazione di mostrare, scena dopo scena, sistematicamente, i propri muscoli. Autocompiacimento a oltranza, ogni quadro studiato in eccesso, inquadrature oblique, sdoppiamenti di immagine, tutto sopra le righe e molti momenti di vuoto. Davvero un peccato. Campion non è certamente brava come Scorsese ( L’età dell’innocenza), ma nemmeno come Yvory ( Casa Haward) o Ang Lee ( Ragione e sentimento). Nicole bella da togliere il fiato, e anche abbastanza brava.


L’Ussaro sul tetto

In programmazione: 21/11/1996

Descrizione

Provenza 1832.
Un patriota italiano è rifugiato in un villaggio e sfugge agli agenti austriaci che vogliono ucciderlo.
Si accompagna a una bella sposata e con lei attraversa il nord della Francia cercando di rimpatriare attraverso le Alpi.
Nel frattempo diventa il cavalier servente della giovane e la salva da mille pericoli, peste compresa.
Alla fine lei riceve una lettera dall’Italia.
Chissà che un giorno non raggiunga il suo eroe.
Azione e paesaggi, duelli alla spada e competizione d’amore. Un film di buon successo di pubblico, con la solita Binoche intensa e il giovane Martinez, già idolo delle giovanissime francesi.


La Canzone di Carla

In programmazione: 14/11/1996

Descrizione

Glasgow 1987.
George Lennox, autista d’autobus di linea, incontra Carla, una profuga nicaraguense, e se ne innamora.
Progressivamente viene a conoscenza del suo doloroso passato in seguito a un tentativo di suicidio. Carla, sandinista, è stata torturata dai Contras e il suo compagno Carlos orrendamente mutilato. George decide di aiutarla a tornare in patria e la segue.
Ken Loach e Paul Laverty invertono il punto di osservazione rispetto al precedente Terra e libertà. Là il protagonista partiva dall’Inghilterra per seguire un ideale politico e in Spagna trovava l’amore e lo sconforto rispetto a quelli che considerava compagni.
Qui George molla tutto per amore di Carla (della realtà socio-politica del Nicaragua non sa praticamente nulla) e solo una volta giunto in loco con lei comprende la complessità della situazione compiendo poi una difficile scelta finale.
Perché Loach, al contrario di quanto molti suoi detrattori ritengono, non è un ideologo a cui interessa solo sostenere una tesi politica.
Ciò che più gli importa è leggere le vite di uomini e donne che si confrontano con la Storia e fa ciò senza pretendere che lo spettatore ne sappia più del protagonista.
Spetta infatti alla sorella di George, Eileen, informarlo e informarci.
Quando Lennox giunge in Nicaragua scopre un popolo sofferente ma che non ha piegato il capo dinanzi ai Contras finanziati dagli americani. Spetta a un intenso Scott Glenn rivelare all’attonito scozzese la strategia della CIA che addestra le forze paramilitari affinandone le pratiche più crudeli.
All’ ‘autista pazzo’ e alla ‘ballerina matta’ non resta che prendere atto di una realtà che reclama il ritorno alle radici di una lotta che è di popolo ma, proprio perché tale, si alimenta grazie alle singole esistenze, ognuna delle quali deve dare una risposta individuale.
Talvolta una canzone può indicare la giusta via.


Verso Sud

In programmazione: 02/06/1994

Descrizione

Opera d’esordio di Pozzessere, già collaboratore di Avati e Maselli, dopo un documentario che aveva destato molto interesse. Siamo a Roma e Paola è appena uscita di prigione per una piccola cosa. Non ha nessuno e il suo solo pensiero è per Chicco, il suo bimbo, quattordici mesi, che è in un istituto minorile. Conosce Eugenio, un piccolo ladro, e insieme cercano di fuggire con il bambino, dopo aver tentato di vivere tranquilli in una casa disabitata e aver cercato lavoro. Finale tragico. Abbastanza buona l’interpretazione, ma nella regia ci sono molte ingenuità e nella sceneggiatura alcuni vuoti.


Orlando

In programmazione: 28/04/1994

Descrizione

Vediamo Orlando nel 1600, giovane bellissimo e glabro che suscita l’interesse della regina d’Inghilterra, che gli lascia in eredità un titolo. Poco dopo Orlando si innamora di una bella, giovane e nobile russa, ma non è ricambiato. Diventa ambasciatore in Oriente. Passano i decenni e i secoli, e una mattina, dopo grande sofferenza e spossatezza, si sveglia donna. Si innamora di un bellissimo giovane romantico che le fa scoprire il sesso (quello maschile). Continua a passare il tempo ed eccoci ai giorni nostri. Orlando è stata privata dei suoi beni e delle sue eredità regali (perché non è identificabile come essere umano, non è uomo, non è donna, non è sposato o sposata). Ha un bambino e deve affrontare la vita da sola. Nell’ultima scena Orlando, che riposa sotto le fronde di un albero, chiama il figlio e gli dice di guardare il cielo. E dall’alto scende una sorta di angelo, naturalmente senza sesso, che canta la morale finale del film: non c’è differenza fra le cose, fra la vita e la morte, fra il tempo e il non tempo, fra i sessi. Un film importante, che prende spunto da un romanzo di Virginia Woolf. Le problematiche della scrittrice non sottointendono verità e messaggi universali, sono manifestazioni dolorose di impotenza, di ambiguità generali dal sesso al pensiero, e di sensazioni di inutilità di tutto, perchè nulla ha un’origine autentica e un autentico destino. Sostanzialmente non è cosa che riguardi molti. Ma Sally Potter costruisce intorno al dolore creativo e letterario un film ricco e colto, con una ricercatezza addirittura morbosa in alcune situazioni e con soluzioni impreviste e improvvise, che spesso danno la sensazione di qualcosa di nuovo nel cinema, dove tutto sembra esser già stato esplorato. La scena della festa sul ghiaccio, delle grandi stanze del castello abbandonate, del rapporto di Orlando coi fiori, i boschi e i fiumi, sono pressoché “inedite”. Il testo della Woolf è “ottimizzato” e il cinema porta il suo contributo nelle “sue” zone. La letteratura per l’introspezione e la fatica attiva della comunicazione, il cinema per l’occhio, lo stupore e il trasalimento.


Un’anima divisa in due

In programmazione: 21/04/1994

Descrizione

Addetto alla sorveglianza, Pietro Di Leo deve allontanare dal grande magazzino in cui lavora una giovane rom. Qualche giorno dopo, quando tornerà a rubare un profumo, Pabe, questo il suo nome, sarà inseguita per le strade da Pietro e poi lasciata scappare.
Di incontro in scontro, tra i due si viene ad instaurare un rapporto sempre più intenso che sfocerà in un’inaspettata fuga verso il mare dove tenteranno di condurre una vita insieme.
Come le anime dei due protagonisti, anche questo secondo lungometraggio di Silvio Soldini appare evidentemente diviso in due, con una parte milanese, dove eccelle la fotografia di Luca Bigazzi, e una anconetana, in cui l’unione sembra superare tutti gli ostacoli, in mezzo il viaggio, quasi una figura fissa del cinema italiano degli anni Novanta.
Vario negli scenari messi in gioco, aspro quanto reale, è il lavoro della maturità di un regista
affascinato dall’idea di costruire un melodramma su un amore impossibile che è anche uno studio sull’integrazione tra culture e etnie diverse.
Sofferente di disturbi psicosomatici, che gli portano perdita di sangue dal naso e visioni, Pietro è vittima delle insoddisfazioni così come erano tutti i personaggi del precedente L’aria serena dell’Ovest, un uomo che sembra essere tutt’uno con una Milano grigia e senza speranza; in Pabe trova, invece, la possibilità di un altrove, la spinta per andarsene realmente verso quel mare che, nei giochi con il figlioletto avuto dalla ex moglie, immagina soltanto dietro il grigiore di un palazzo. Anche la sceneggiatura di questo secondo lungometraggio, ancora opera di Silvio Soldini e Roberto Tiraboschi, lavora sulla ricerca di un’altra vita, sull’aspirazione ad un futuro diverso da quello che abbiamo costruito a discapito dei nostri desideri; in questo senso, la scelta di raccontare l’incontro di un uomo disilluso con una giovane rom, quasi un correlativo oggettivo della libertà, appare chiara di un’intera prospettiva filosofica: tra regolarità e irregolarità, Pietro e Pabe subiscono una metamorfosi alternata che porta l’uno ad assomigliare all’altra, senza mai avere la possibilità reale di essere la medesima cosa.
Eccellente la prova di Fabrizio Bentivoglio, giustamente premiato con la Coppa Volpi al Festival di Venezia e ancora lontano da qualsiasi eccesso recitativo. Rom di origine ungherese, Maria Bakò gli tiene testa con ferma autenticità.
In piccoli ruoli recitano Antonio Albanese, il portiere dell’albergo, Moni Ovadia, Giuseppe Cederna e Giuseppe Battiston.


Molto rumore per nulla

In programmazione: 14/04/1995

Descrizione

La sceneggiatura è offerta da William Shakespeare, i luoghi da una stupenda villa sulle colline toscane in cui si dice che Leonardo dipinse la Gioconda.
Gli attori provengono dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. Ognuno deve parlare secondo il proprio accento e, soprattutto, ci si deve divertire su un set che è un luogo di vacanza su cui intessere la trama di una festa dell’amore e della vitalità.
Branagh riesce a concertare abilmente il tutto inserendo anacronismi voluti in una messa in scena
rispettosa della fonte.


Un cuore in inverno

In programmazione: 24/03/1994

Descrizione

Per molti una sorpresa. Non per chi ama e segue il cinema francese, escluso dalla grande programmazione ma capace di suscitare rare emozioni, solo che lo voglia.
Claude Sautet ricama cinema da una ventina d’anni e sulla soglia dei 70 trova la tardiva affermazione.
Per meglio comprendere l’ingiustizia patita sarà opportuno non lasciarsi sfuggire il suo film precedente, Qualche giorno con me.
Sarà più facile comprendere il successo di Un Cuore in inverno, che narra le vicende di Maxime e Stéphane.
Legati da vincoli professionali, sono liutai apprezzati dalla raffinata clientela, hanno caratteri diversi. Maxime è l’amministratore, Stéphane un artista dalle mani d’oro sanno costruire strumenti musicali e automi dai complicati meccanismi.
Maxime ha una storia importante con Camille, una giovane e affascinante violinista. Stéphane, con il suo carattere schivo, sembra ignorare una vicenda che non gli appartiene.
Ma è proprio la sua sobrietà che attira l’attenzione di Camille. La donna non nasconde la sua attrazione. Stéphane sembra ricambiare. Infine ed inspiegabilmente si ritrae. Lascia che tutto finisca, compresa l’amicizia con Maxime.
Tutto qui. Eppure il triangolo Maxime, Camille e Stéphane è una delle geometrie più fragili e resistenti del cinema d’ogni tempo. Se Maxime è una figura necessaria al racconto, Camille è inesorabilmente donna. Appassionata, capace di compiere salite e discese che denotano il prodigarsi della sua anima.
Infine Stéphane, che lo straordinario Daniel Auteuil ci rende caro per la sua reticenza. Così chiaro il suo disegno, che ognuno di noi ha vissuto o desiderato di attuare. La reticenza di fronte alla possibilità di amare non è un atto di vigliaccheria, ma la sublimazione di un sentimento ibernato, affinché si conservi per sempre.
Questo progetto di non amore è narrato da Sautet con un ingrediente rivoluzionario e temerario: il sussurro dei sentimenti. E tutto nei terribili anni Novanta. Leone d’argento alla 49ª Mostra di Venezia.


Addio mia concubina

In programmazione: 17/02/1994

Descrizione

Il titolo è preso da un’opera cinese dei primi delNovecento, scritta da Mei Lanfang.
Il regista cinese Chen Kaige vive a New York, trapiantato da vero intellettuale.
E il film, un affresco politico nascosto sotto la patina del melodramma, media la cultura cinese con lo stile registico occidentale.
Non è certo una pecca, specialmente se il risultato, come in questo caso, è lusinghiero.
Due bambini diventano amici mentre apprendono la durissima arte dell’attore.
Infatti in Cina per calcare il palcoscenico si deve sottostare a regole durissime. Una volta scelti come attori per una famosa opera con protagonisti un re e la sua concubina le loro vite cambiano. L’attore che interpreta il personaggio femminile si immedesima a tal punto da diventare geloso e pericoloso quando l’amico si innamora di una prostituta.
Tra intrecci politici e sentimentali si giunge alla tragedia. Bravi tutti gli interpreti principali, soprattutto Leslie Cheung e Gong Li, e una lode al direttore della fotografia, Gu Changwei.


Lezioni di piano

In programmazione: 10/02/1994

Descrizione

Palma d’Oro, ex aequo, al Festival di Cannes.
L’originale regista di Sweetie e Un angelo alla mia tavola debutta nel grande cinema ufficiale. Ciò comporta co-produzioni, grandi nomi, capitali cospicui e una storia di buona presa per il pubblico. Ma la Campion mantiene intatta la sua personalità di autrice.
Purtroppo la bravura tecnica questa volta sfiora il manierismo. Ancora una volta la protagonista è
una donna con problemi di comunicazione con gli altri.
È muta, vedova con una figlia, e per convenienza familiare deve sposare uno sconosciuto. Si trasferisce con lui in un’isola sperduta in Nuova Zelanda.
Non le è concesso di suonare il piano, sua unica consolazione.
Ma con l’aiuto di un uomo all’apparenza rozzo, in realtà molto sensibile, il suo desiderio sarà esaudito.
Tra loro nasce un particolare idillio che farà uscire di senno il marito. Dopo colpi di scena degni di un melodramma, il lieto fine è d’obbligo.


Film rosso

In programmazione: 09/03/1995

Descrizione

Valentine è una modella che vive a Ginevra e ha un compagno che sta a Londra con cui la relazione non va benissimo. Una sera investe una cagna che appartiene a un uomo solitario che scoprirà essere un giudice in pensione il quale sembra indifferente a ogni rapporto umano.
L’uomo ha più di un segreto, uno dei quali riguarda un’attività illegale.
Kieslowski con questo film chiude la trilogia dedicata ai principi fondamentali della Rivoluzione francese (Libertà, Uguaglianza, Fraternità) e purtroppo, seppur inconsapevolmente, realizza la sua
ultima opera cinematografica.
Morirà infatti due anni dopo. Sarebbe facile leggerlo come un film testamento ma non sarebbe corretto perché il regista stava già lavorando a un progetto su Inferno/Purgatorio/Paradiso.
Si tratta invece di un’opera che chiude scientemente un percorso e che trova la propria conclusione in una collocazione geo-politica che è al contempo europea ed extra europea: la Svizzera.
Non dimenticando però la Polonia postcomunista con le sue luci (poche) e le sue ombre (inquietanti) a cui viene fatto riferimento parlando di un furto d’auto ai danni del compagno di Valentine.
La critica ha considerato questo film come una nuova salita ai vertici sia dell’intreccio narrativo sia del linguaggio visivo dopo la presunta cedevolezza di Film bianco. Si è puntato molto sul rapporto con la figura paterna andandola ad identificare nel ruolo affidato a un sempre perfetto Jean-Louis Trintignant.
C’è però qualcosa di più e di diverso perché non va dimenticato che Kieslowski è l’autore del tanto laico quanto profondamente spirituale Decalogo che lo fece conoscere al più vasto pubblico europeo. In quel giudice che si è ritirato dal mondo, che mostra indifferenza nei confronti di qualsiasi possibile coinvolgimento di sentimenti (a partire dalla cagna ferita e incinta), in quell’uomo anziano, di cui scopriremo le ragioni del prepensionamento, che ascolta (meglio: spia) le conversazioni telefoniche altrui venendo così a conoscenza di ciò che dovrebbe restare incognito si può leggere l’immagine di Dio secondo Kieslowski.
Un Dio che ha deciso di allontanarsi dal mondo e di guardarlo da lontano, continuando a giudicarlo ma senza intervenire.
Un Dio che ha bisogno dell’uomo per tornare a comprendere l’umanità e ad averne misericordia (nell’accezione non pietistica ma elevata del termine). Valentine si trova ad essere quella rappresentante dell’umanità che gli apre nuovamente lo sguardo e ne modifica la percezione: non più un isolato disincanto ma una partecipazione alle umane vicissitudini che comprendono anche la presenza fondamentale del Caso.
Non dimentichiamo che nel 1981 Kieslowski aveva girato “Przypadek” la cui traduzione letterale era “Il caso” e non l’insipiente Destino cieco con cui è stato titolato in Italia. Si trattava di uno Sliding Doors in anticipo sui tempi di cui il regista sembra non essersi dimenticato neanche successivamente.
E’ il Caso che porta Valentine da lui ma non sarà questa la sua sola manifestazione.
A fornire un suggello a questa lettura critica è la battuta che la giovane donna a un certo punto gli rivolge: “Che cos’altro sa? Chi è lei?” La risposta “Un giudice in pensione” è tanto apparentemente lapalissiana quanto aperta a un’interpretazione ‘altra’.
Perché siamo di fronte a un film in cui i raddoppiamenti si accompagnano alle aperture.
Se Julie in Film blu e Dominique in Film bianco si trovavano ancora dietro dei vetri ora la finestra attraverso cui guarda il giudice ha il vetro rotto, è aperta all’esterno.
Così come finalmente è aperto il gesto di Valentine verso la persona anziana che ripete un gesto visto nei due film precedenti chiudendo così uno dei tanti percorsi che questa trilogia propone allo spettatore che abbia il desiderio di guardare e non solo di vedere.


Quel che resta del giorno

In programmazione: 26/01/1995

Descrizione

Steven (Hopkins) è stato per trent’anni il maggiordomo di Lord Darlington (Fox), gentiluomo formale e ingenuo e molto influente, che prima della guerra stava dalla parte dei nazisti. Quando Darlington muore la tenuta viene acquistata da certo Lewis (Reeve), americano pragmatico, ma con un suo stile.
Stevens si mette così in viaggio per riassumere l’antica governante Sara Kenton (Thompson), che se n’era andata vent’anni prima, per (infelicemente) sposarsi. La ritrova, ma le cose rimangono come sono. Nel frattempo Stevens è stato maggiordomo impeccabile, mancando persino di assistere il padre
morente per non compromettere il perfetto servizio di una cena, e ignorando tutto il resto della vita, sentimenti compresi, incapace di giudicare gli errori enormi del suo padrone che, come tale, era sempre dalla parte del giusto.
Il maggiordomo sembra vacillare solo quando la governante gli dichiara il suo amore, anche se subito torna formale e non riesce a liberarsi dei lacci. Tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro, il film è indubbiamente seducente. Ambiente, interpretazione, storia, dialogo, tutto perfetto. Del resto il nostro tempo sembra fatto apposta per farsi incantare dall’eleganza, dall’onore, dal senso del dovere, dalla limpidezza dei sentimenti, dalla forma quando aderisce alla sostanza.
Efficaci anche le istantanee storiche che mostrano una società inglese snob, distaccata e ingenua e “politicamente dilettante”, capace di credere a un ministro tedesco che definisce Hitler un “uomo di pace”.


L’età dell’innocenza

In programmazione: 15/12/1994

Descrizione

Tratto dal romanzo premio Pulitzer di Edith Wharton. Nella New York del 1870 il giovane Newland Archer (Lewis), appartenente a una famiglia molto in vista, sta per sposare la dolce May (Ryder) a sua volta figlia di cospicua famiglia. La ragazza ha una cugina, Ellen Pfeiffer), bellissima e triste, fuggita da un nobile marito europeo, creando, di conseguenza, scandalo. È già evidente al primo incontro fra i futuri cugini che qualcosa succederà. Newland, perbene a oltranza, letteralmente ammanettato dalle severissime convenzioni di quella società, non si decide a fare il primo passo.
Protegge Ellen nei giusti termini, facendola accettare in società; oppresso dai sensi di colpa, anticipa il matrimonio con May, ma è sempre più innamorato dell’altra. Quando i due si decidono a dichiararsi e a “consumare”, ancora una volta le circostanze sono contro. Rimane loro un infinito amore platonico e in contumacia. Ormai vecchio e libero, a Parigi, Newland non avrà nemmeno il coraggio di rivedere la sua amata. Film decisamente importante.
Si potrebbe dire “esercizio multiplo” del grande regista americano, che si concede un cameo nel ruolo di un fotografo. Sono emersi i nomi del Visconti di Senso, di Frears e di altri, in realtà Scorsese non ha bisogno di imitare nessuno, se si applica a un genere lo conquista di puro talento, come aveva fatto con un altro film fuori dal suo… paniere, Cape Fear.
Non calligrafismo, ma arte applicata, la ricerca del lusso d’ambiente, fatto di composizioni di frutta, di salotti con dipinti d’autore, di pizzi, di servizi smaltati, di portate che farebbero impallidire Marchesi e toilettes di una società ricchissima che si ispirava a quella inglese. Da segnalare inoltre l’uso della voce fuori campo che sovrasta spesso la rappresentazione, ma che si vale della scrittura straordinaria della Wharton e della voce altrettanto straordinaria della nostra Maria Pia Di Meo.


Midnight in Paris

In programmazione: 05/04/2012

Descrizione

Gil (sceneggiatore hollywoodiano con aspirazioni da scrittore) e la sua futura sposa Inez sono in vacanza a Parigi con i piuttosto invadenti genitori di lei. Gil è già stato nella Ville Lumiêre e ne è da sempre affascinato. Lo sarà ancor di più quando una sera, a mezzanotte, si troverà catapultato nella Parigi degli Anni Venti con tutto il suo fervore culturale. Farà in modo di prolungare il piacere degli incontri con Hemingway, Scott Fitzgerald, Picasso e tutto il milieu culturale del tempo cercando di fare in modo che il ‘miracolo’ si ripeta ogni notte. Suscitando così i dubbi del futuro suocero.
Woody Allen ama Parigi sin dai tempi di Hello Pussycat e ce lo aveva ricordato anche con Tutti dicono I Love You. Nella sequenza di apertura fa alla città una dichiarazione d’amore visiva che ricorda
l-ouverture di Manhattan senza parole. Ma anche qui c’è uno sceneggiatore/aspirante scrittore in agguato pronto a riempire lo schermo con il suo male di vivere ben celato dietro lo sguardo a tratti vitreo di Owen Wilson.
Solo Woody poteva farci ‘sentire’ in modo quasi tangibile la profonda verità di un ‘classico’ francese che nella parata di personalità che il film ci presenta non compare: Antoine de Saint Exupery.
Il quale ne “Il piccolo principe” fa dire al casellante che nessuno è felice per dove si trova. Il personaggio letterario verbalizzava il bisogno di cercare sempre nuovi luoghi in cui ricominciare a vivere. Il Gil alleniano vuole sfuggire dalla banalità dei nostri giorni ma trova dinanzi a sé altre persone che esistono in epoche che ai posteri sembreranno fulgide d’arte e di creazione di senso ma non altrettanto a chi le vive come presente.
Se il Roy di L’uomo dei tuoi sogni era solamente uno scrittore avido di successo Gil è affamato di quella cultura europea di cui da buon americano si sente privo. Ma ha lo sguardo costantemente rivolto all’indietro. Forse, sembra dirci Woody, ha ragione ma è comunque indispensabile uno sforzo costante per cercare nel presente le ragioni del vivere e del creare.
A Gil Allen concede quella speranza che invece negava perentoriamente (e con ragione) a Roy. Ricordandoci (ancora una volta e con delle evidenti analogie con La rosa purpurea del Cairo) che nulla può consentirci di sfuggire a noi stessi e al nostro tempo e che forse (nonostante tutto) è bene così.


Cirkus Columbia

In programmazione: 19/01/2012

Descrizione

Jugoslavia, 1991. Divko Buntic è un farabutto. Torna nel paese d’origine dopo aver trascorso molti anni in Germania, seguito da un’attraente compagna e un gatto nero di nome Bonny. Con l’appoggio del sindaco, sfratta la ex moglie e il figlio Martin, occupa l’appartamento e comincia a tormentarli per tentare di mandarli via. Ma la guerra serbo-bosniaca-croata è alle porte e i rapporti tra compaesani stanno per cambiare. Così come Divko sta per dare una svolta alla sua vita.
Danis Tanovic torna a parlare dei conflitti in terra balcanica. Questa volta, sulla base del libro di Ivica Djikic, sceglie di approfondire il periodo storico che precede la guerra, concentrandosi sulle dinamiche umane di un piccolo paese bosniaco. In tempo di pace, Divko non va incontro alla sua vecchia famiglia, cerca di ricostruire il rapporto con il figlio, abbandonato da piccolo, in un modo del tutto inopportuno, e mostra l’affascinante amante come un trofeo per fare invidia ai coetanei. Quando il micio Bonny – l’unico che ama profondamente – si allontanerà dall’appartamento, anche l’equilibrio perverso che ha creato, si spezzerà definitivamente. E a quel punto i rapporti si mescoleranno creando un’inversione di ruoli atipica e umanamente distruttiva.
La caratteristica predominante del film è proprio la commistione di generi che diventa la metafora delle contraddizioni tipiche della guerra: gli amici diventano nemici nel corso di una sola notte. Come la violenza psicologica di Divko mette in subbuglio gli altri personaggi, così il terrore dell’esercito invade le coscienze, deturpandole di solidarietà e compassione. L’ironia con la quale Tanovic descrive la preparazione emotiva al conflitto segna il ritorno al cinema di No Man’s Land, dove il regista coglieva il senso tragicomico della violenza, senza renderla ridicola. L’universalità della questione in oggetto è un pregio assicurato dalla rarità di riferimenti espliciti alla politica locale, e da un’intelligente assemblaggio di immagini – come la straordinaria scena finale – che sono contestualizzate ma allo stesso tempo distanti da quella realtà. Non c’è nostalgia né rancore ma solo un grande racconto fatto di piccole persone che, messe alle strette dalla Storia, reagiscono con dignità. La difesa dell’amore gira come la giostra Cirkus Columbia, come un gioco dove il moto ritorna su se stesso ma è tragicamente bellissimo.


Lezione di tango

In programmazione: 15/01/1998

Descrizione

Dopo l’ottima prova di Orlando la Potter torna alla regia con un film meno impegnativo, ma non per questo meno interessante, nel quale interpreta se stessa. Il film è ambientato tra Parigi e Buenos Aires. Una regista in crisi creativa sta cercando di scrivere una sceneggiatura e decide di prendere lezioni di tango. Nasce un sentimento tra la donna e il suo maestro di ballo, ma entrambi sono abituati a guidare e non a lasciarsi guidare. La Potter, che è anche una bravissima ballerina, è riuscita a unire la meccanicità dei passi del tango argentino, con la passione che suscita in chi lo balla. Splendide musiche da Gardel a Piazzolla.

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Rien à faire

In programmazione: 06/04/2000

Descrizione

Un canovaccio sfruttato mille volte, ma reso avvincente grazie alla bravura degli interpreti e al ritmo della narrazione. La trama: un uomo e una donna si incontrano casualmente in un supermercato. Sono entrambi sposati ed entrambi disoccupati. Non avendo nulla da fare, cominciano a frequentarsi. Solo dopo mesi (e ad un’ora dall’inizio del film), arriva, quasi per caso, il primo bacio. L’amicizia si è trasformata in un amore clandestino, imprevedibile, spensierato. Poi, però, l’uomo ritrova un lavoro. E’ la fine: ad unire i due personaggi era stata proprio la loro condizione di disoccupati. Tutt’altro che una storia di corna, quindi. Valeria Bruni Tedeschi recita bene, come sempre e sempre nello stesso modo. Le sue espressioni, il suo modo di parlare, i suoi gesti sono sempre indovinati e sono sempre gli stessi, in tutti i film in cui ha recitato. Se lo può permettere e lo sa imporre. Mi viene in mente che questa caratteristica appartiene ad un altro grande del cinema francese: Jean-Pierre Léaud. Bravo anche Sergi Lopez, nel ruolo del marito ignaro e tradito, con il suo gradevole accento spagnolo. La regista è una donna e si nota.

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Anything else

In programmazione: 27/11/2003

Descrizione

Jerry Falk è un giovane aspirante scrittore di New York. Incontra Amanda, una ragazza libera e spregiudicata, e se ne innamora pazzamente. Amore e passione, però, non bastano a tenere in piedi la relazione e Jerry chiede aiuto al suo mentore. Questo film rappresenta una svolta nel cinema di Woody Allen per più motivi. Quello più esteriore è la sua presenza (per la prima volta dopo anni e anni di programmazione dei suoi film e anche dopo l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera che fece ritirare da Carlo Di Palma) alla Mostra del Cinema di Venezia. Quelli invece più sostanziali stanno, come è giusto che sia, sul piano dello stile e del contenuto del film. Sul piano stilistico colpisce il frequentissimo uso che Woody fa dello sguardo in macchina. Jerry non perde occasione per rivolgersi allo spettatore, coinvolgendolo quindi direttamente nelle sue vicende.
Woody poi utilizza per la seconda volta un alter ego cinematografico in compresenza sullo schermo. Lo aveva già fatto con il personaggio di Michael Caine in Hannah e le sue sorelle ma il rapporto tra i due non era comunque così diretto. Qui invece la relazione dei due è da maestro ad allievo nella difficile scuola della vita. Il primo insegna al secondo come comportarsi e nessuno dei due è in ottime relazioni con se stesso e il mondo. Ne nasce un interessante duetto con variazioni sui temi cari al regista.
Ma dove la sorpresa si fa veramente grande è quando Woody reagisce ai soprusi con la violenza. Il suo personaggio non subisce più in totale passività. Che sia cambiato qualcosa dopo l’11 settembre? Certo è che il suo cinema costituisce sempre un invito a riflettere sull’uomo e sulla sua condizione perché Woody è perfettamente consapevole, come afferma il suo personaggio, che “Se uno va alla Carnegie Hall e vomita sul palco troverà qualcun altro disposto ad affermare che si è trattato di un’opera d’arte”. Allen non ama questo tipo di esibizioni e di estimatori.

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Gabrielle

In programmazione: 24/11/2005

Descrizione

Basato sul racconto di Joseph Conrad, Il ritorno, il film di Chereau è ambientato nel 1912 a Parigi. Protagonisti sono Jean (Pascal Greggory) e Gabrielle (Isabelle Huppert), una coppia sposata da dieci anni, appartenente all’alta borghesia. La loro vita è fredda, dettata dagli eventi mondani a cui l’autoritario editore Jean non può mancare. Gabrielle, gioca così la parte della moglie repressa costretta in piccoli spazi, e a un’esistenza spersonalizzata alle spalle del marito. Almeno fino al momento in cui, improvvisamente, le regole vengono cambiate.
L’ottima interpretazione della Huppert non salva un film patinato e sontuoso nelle scenografie e nella cura dei costumi. Lo stile registico è spesso manieristico e poco omogeneo con un utilizzo non motivato di slow motion e di sequenze in bianco e nero. Dopo Son Frère Chereau non convince nel descrivere questo amore che si perde in una splendida camera vuota.

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Senso

In programmazione: 03/05/2007

Descrizione

La contessa Livia Serpieri, moglie di un aristocratico filoaustriaco, parteggia segretamente per i patrioti italiani. L’incontro con un giovane ufficiale austriaco, Franz Mahler, è fatale. La contessa si innamora perdutamente del giovane, che sembra ricambiarla. In realtà l’uomo cerca di ottenere del denaro per comprare il suo esonero. È la vigilia della battaglia di Custoza. Avuto il denaro il giovane scompare. Accecata dalla gelosia, Livia, dopo un drammatico confronto con l’ex amante, lo denuncia. L’uomo viene fucilato sotto gli occhi della donna, ormai preda di una follia senza speranza. Senso è un film che rasenta la perfezione. Frutto di tutte le belle qualità del regista, messe assieme, la pellicola ha una carica espressiva di inestinguibile bellezza. L’inizio nel teatro, davvero travolgente, sembra dire che la realtà di quel momento storico non poteva che essere rappresentata con enfasi lirica. In questo caso con una grande intuizione che unisce il melodramma rappresentato sul palcoscenico alle vicende vissute dai protagonisti, con la medesima apprensione romantica. L’impeto del tenore, che intona il celebre Di quella pira, le uniformi bianche degli ufficiali austriaci e la pioggia di volantini tricolori dipingono con rapidi e magistrali tocchi il momento storico. Sequenza da incorniciare. Come i rumori delle battaglie e lo slancio passionale di Alida Valli. Franz Mahler, autentico angelo del male, doveva in un primo tempo essere interpretato da Marlon Brando. Per quanto Farley Granger sia bravo non possiamo che rimpiangere questa assenza. Unico punto debole, facilmente individuabile, è la collaborazione ai dialoghi di Tennessee Williams e Paul Bowles. Così lontani dalla materia che compone il film. La loro influenza si evidenzia soprattutto nella sequenza nella quale la contessa Serpieri scova il suo amante con una giovane prostituta. La violenza dei dialoghi sembra condurre il film nelle paludi tenebrose del sud degli Stati Uniti. L’uso del colore è strepitoso. Sorprendente l’omogeneità, nonostante la collaborazione di tre diversi direttori della fotografia. Morto in un incidente durante le riprese G. R. Aldo, fu sostituito da Robert Krasker. Mentre la fulminante sequenza della fucilazione è opera del quasi esordiente Giuseppe Rotunno. Senso, tratto da un racconto breve di Camillo Boito, può essere considerato il film più viscontiano del suo autore e vanta una perfetta aderenza al clima storico che rappresenta. La chiacchierata maniacalità del regista per i dettagli ha in realtà tutta l’aria di essere una lezione per il cinema italiano tutto, così incline negli ultimi trent’anni a una sciatteria di stampo politico, che rinnega i valori espressivi e culturali a vantaggio di contenuti evaporati per mancanza di un contenitore.

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Cuori

In programmazione: 19/04/2007

Descrizione

Nicole sta cercando un appartamento per un futuro matrimonio con Dan, il quale è stato di recente radiato dall’esercito ed è senza lavoro. L’agente immobiliare è l’anziano Thierry il quale è segretamente innamorato della religiosissima collega Charlotte la quale gli presta cassette di programmi cattolici al cui termine compaiono lunghe riprese di lei che si spoglia. Charlotte di sera fa la badante al vecchio e satirico genitore di Lionel che fa il barista in un locale di cui Dan è un assiduo frequentatore e in cui dà un appuntamento al buio a Gaëlle, sorella di Thierry.
Ancora una volta il Maestro Resnais affronta con il tocco che gli è proprio un nuovo (per lui) modo di fare cinema. Si tratta di teatro di un grande autore come Alan Ayckbourn che gli dà un copione da grande teatro londinese su cui Resnais interviene da par suo. “Le relazioni tra i protagonisti mi fanno pensare alla tela di un ragno drappeggiata tra due cespugli di ginestra spinosa e ricoperta dalla rugiada della notte. Thierry, Charlotte, Gaëlle, Dan, Nicole, Lionel e Arthur sono come insetti, che lottano per sfuggire alla trappola. Ogni volta che uno di loro si muove, lo spostamento si fa sentire anche altrove sulla tela, su qualcuno che tuttavia può non avere nessun legame con chi si è mosso per primo” afferma il regista. Resnais riesce nel miracolo di intervenire su un testo altrui conservandone intatto il fil rouge narrativo ma innervandolo al contempo di tutte le tematiche che da sempre percorrono il suo cinema. A partire dal baluginio di una possibile neve che faceva da interpunzione con forte significanza in L’amour à mort che qui diventa la neve ‘vera’ che cade inarrestabile sulla Parigi che fa da sfondo – a partire da quella Tour Eiffel immersa nelle nubi – alla vicenda. Mentre ci consente di entrare, a poco a poco, nelle vite di uomini e donne alla ricerca di qualcuno che colmi un vuoto enorme dissimulato dalle convenzioni sociali, Resnais riesce ad affrontare temi ancora più alti come quello del rapporto dell’uomo con la fede e, soprattutto, con un aldilà la cui parte ‘infernale’ molto probabilmente (e sartrianamente) sta in un aldiquà che ci costruiamo quotidianamente con le nostre mani. La levità del narrare (anche concedendo ampio spazio a un sorriso quasi sempre venato di malessere) gli consente un progressivo approfondimento dei temi al punto di lasciarci con una ‘fine’ che sembra davvero ‘chiudere’ le vite dei protagonisti in un mondo in cui nevica su cuori che vorrebbero uscire da quell’inverno in cui Sautet aveva chiuso un altro personaggio indimenticabile del cinema francese. Non è un caso che il titolo che Resnais dà al film sia proprio Coeurs.

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Gli amori folli

In programmazione: 25/03/2010

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Marguerite esce da un negozio di scarpe e subisce il furto della borsa. Georges trova il suo portafoglio per terra, nel parcheggio di un centro commerciale e comincia a fantasticare su di lei, ancora prima di contattarla, senza conoscerla. Il desiderio di questa donna che fa la dentista e il pilota di aerei leggeri è così forte che riempie la sua vita di padre di famiglia e di marito di pensieri e azioni irrazionali. Marguerite resiste, ma per poco. È una corsa verso l’errore, piena di vita, inarrestabile.
A quasi novant’anni, Alain Resnais, con Les Herbes Folles, tratto dal libro di Christian Gailly “L’incident”, elabora un film che si può dire virtuoso, tanto nel senso di musicalmente inappuntabile, quanto in quello di visivamente e narrativamente acrobatico.
Storia di una passione irragionevole, spuntata come l’erba che esce dall’asfalto là dove non ce la si aspetta, rigogliosa e capricciosa in età matura, l’opera di Resnais vola in alto come il velivolo di Sabine Azéma, diverte con dialoghi-piroette, fa desiderare di non scendere mai a terra, di restare in sella al film, dove tutto è sorpresa e tutto è affrontabile e affascinante, anche il disarcionamento.
Esperto di costruzioni non lineari, di realtà binarie e sovrapposizioni temporali, Resnais -che con Mon Oncle d’Amérique riscrisse le accezioni del vocabolo “sceneggiatura”, influenzando tra gli altri anche Kaufman e Gondry- continua il suo viaggio tra determinismo e aleatorietà dell’esistenza, legandolo alla forma cinema, forma a sua volta aperta e costretta insieme.
Se i personaggi di Parole, parole, parole più che esprimersi, si ritrovavano dentro dei testi che parevano scritti per loro, quelli di Les Herbes Folles fanno della letteratura di Gailly, della costruzione della sua sintassi, un trampolino di lancio per la loro avventura di sognatori, di verificatori di qualcosa che potrebbe esistere, potrebbe non iniziare mai (lo dicono loro stessi), potrebbe suscitare il riso, il sorriso, l’emozione. E lo fa.
Cineasta moderno e cerebrale, qui Resnais si scuote di dosso la neve di Cuori e realizza uno dei suoi film più caldi, con punte di ghiaccio bollente, dove i personaggi assomigliano sempre meno a delle cavie e la più generale delle esperienze -quella amorosa- si fa in fine particolarissima. Un film conclusivo, che (ri)apre sulla speranza.

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Bright star

In programmazione: 18/03/2010

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1818. Il ventitreenne John Keats e la sua vicina di casa Fanny Brawne si conoscono, grazie all’interesse della ragazza per le sue poesie, si frequentano, si scrivono, si fidanzano, nonostante le condizioni economiche disperate del poeta. Minato dalla tubercolosi, Keats si vede costretto a partire per l’Italia, dove il clima è migliore e dove troverà la morte, nel febbraio del 1821.
Bright Star racconta l’inabissamento amoroso sottolineandone il parallelo con la dissoluzione fisica del poeta, ma sceglie il punto di vista di Fanny Brawne per narrare innanzitutto un nuovo personaggio femminile, la cui esuberanza intellettuale è mitigata da una crudele coscienza di ciò che le sta accadendo e si risolve in un’accettazione che è remotissimo eco di quella che fu di Isabel Archer, la stella più luminosa del firmamento di Jane Campion.
Lungi dall’essere un pretesto per evitare la formula più comune di biopic, perciò, l’adozione dello sguardo di Fanny, che incontra Keats subito dopo la pubblicazione di Endymion e lo perde dopo avergli ispirato le liriche che lo faranno amare dal mondo, è il modo in cui la regista, col sorrisetto sulle labbra, riflette sul potere creativo del sentimento amoroso. Instaurando un triangolo tra Keats, l’amico Brown, che lo vorrebbe al riparo dall’influenza femminile, protetto dai classici, e Fanny, che ad ogni apparizione distrae e confonde, la Campion racconta come l’infiltrarsi di una musa, con tutti i limiti del suo agire, nel mondo libero e ozioso degli uomini abbia strappato Keats all’accademia e permesso l’estensione del romanticismo al di là della pagina, nella vita, e dunque, per affinità di cose, nel cinema.
Tra gli interstizi di un rituale quotidiano allegramente rigido, fatto di lezioni di danza nel salotto di casa, di passeggiate e danze e ruoli precisi, tra le mura stesse della casa, dove regna l’ordine e la cura, irrompe la vertigine che il poeta domanda e suscita; il desiderio di un per sempre, che nella vicenda di Keats passa dal verbo alla carne e trova l’eternità.
Quando si àncora alla normalità dello scambio amoroso, quando si affida ad Abbie Cornish e alla credibilità della sua interpretazione, il film si toglie il costume e tocca i suoi vertici, ma la tentazione di obbedire alla richiesta di confezionare “a thing of beauty” è spesso irresistibile e talvolta lo affonda nella maniera.

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The last station

In programmazione: 25/11/2010

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Nel 1908 Lev Tolstoj è il romanziere più famoso di Russia e l’ispiratore di una dottrina etica di austerità e pacifismo. Promotore di questo culto è l’intellettuale Vladimir Chertkov, confidente personale del grande scrittore che, per vigilare su di lui e convincerlo a devolvere i diritti dei suoi illustri romanzi all’intero popolo russo, gli affida come segretario personale un suo giovane fidato, il casto e timorato Valentin Bulgakov. Questi, una volta giunto nella tenuta nobiliare dello scrittore, viene colpito dalla vitalità del suo assistito e dalla passione che lo coglie per la giovane ed emancipata Masha. Ma la sfida più grande è quella che viene a crearsi con la contessa Sofja, da più di cinquant’anni moglie, musa e assistente dello scrittore, in guerra contro Chertkov per le prodighe intenzioni del marito.
Da coloro che hanno raccontato le più tragiche e intense storie d’amore della storia della letteratura, il cinema si aspetta sempre biografie dense di grandi amori capaci di consumarli al pari dei loro personaggi. L’abbraccio di eros e thanatos non può risparmiare coloro che per primi hanno contribuito al loro inesorabile intreccio e non può quindi dimenticare una figura come Tolstoj, colui che nella vita ha professato l’amore come base per la serenità umana. In The Last Station, l’amore è dappertutto, non solo nel rapporto fra lo scrittore e il grande amore della sua vita, la contessa Sofja Andreyevna, ma anche nell’iniziazione sessuale del giovane adepto Valentin. Ed è sempre nel nome dell’amore che si affronta lo scontro fra la stessa contessa e l’epigono Chertkov. Hoffman, e prima di lui il libro di Jay Parini, si schiera con le ragioni della contessa, descrivendo Chertkov come un manipolatore goffo ed egoista, accecato dai presupposti della sua stessa filosofia. Una visione senza dubbio parziale, che vorrebbe trovare le ragioni del suo aperto schierarsi nell’amour fou di un personaggio femminile descritto come una vera eroina tolstojana. E che invece, per colpa di una regia tanto tradizionalista quanto fredda e di un accavallarsi di storie e personaggi non risolutivi (la storia d’amore fra Valentin e Masha; il “tradimento” della figlia Sasha nei confronti della madre), fa apparire la contessa come una nobile capricciosa che non vuol rinunciare al proprio benessere più che come una donna che agisce per amore disinteressato. Tanto più che quello per cui si batte non è un romantico confronto dei sentimenti ma uno scontro di diritti, di etica e di economia, dove può apparire contraddittorio schierarsi contro chi teoricamente agisce in nome della proprietà universale di un’opera culturale.
Michael Hoffman è un regista che ama particolarmente dare una patina vintage al proprio lavoro e che ha già dimostrato di avere più successo quando si confronta con una materia prettamente cinematografica (le screwball comedies in Un giorno per caso o le soap opera in Bolle di sapone ), piuttosto che con quella storica ( Restoration ) o letteraria ( Sogno di una notte di mezza estate ). Con The Last Station conferma il teorema, ritraendo un Tolstoj più vicino a quello muto delle vecchie prises de vue che chiudono il film che a uno dei grandi personaggi del romanzo russo ottocentesco.

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