William Blake è un giovane che va a cercare lavoro nel West.
Uccide accidentalmente un uomo e inizia un percorso che lo porterà alla morte in compagnia di un americano che ha studiato in Inghilterra e pensa di trovarsi al fianco del poeta omonimo. Jim Jarmusch ci racconta un West rabbuiato e cupo con forti allucinazioni visive in un film molto lontano dalle sue opere precedenti, ma fortemente personale.
Presentato alla mostra di Venezia questo film di Olmi non ha ottenuto il riscontro di critica che ci si aspettava.
Forse ci sono stonature qua e là , come ad esempio le voci degli animali e del vento doppiate con enfasi troppo teatrale e recitata.
Alcune cadute di ritmo. Ciononostante si tratta di un’opera suggestiva.
Pare che Olmi abbia filmato le stagioni in tempo reale e che quindi le riprese siano state lunghe e laboriose.
Il colonnello Procolo è diventato responsabile di una foresta vecchia di secoli.
Tutore del nipotino, che non potrà ereditare fino alla maggior età , il vecchio vuole vendere legname abbattendo gli alberi.
Uno di essi, travestito da guardia forestale, cerca di impedirglielo. Procolo, vedendo poi il bambino come una minaccia al suo potere, cerca in più riprese di
metterlo in pericolo.
Quando poi, schiavizzato il vento, sarà a un passo dal riuscirci, andrà alla sua ricerca morendo lui stesso in una tormenta.
Ascesa al potere economico di un piccolo impiegato che ha un’idea geniale e inventa l’hula-hoop.
La storia è solo un pretesto per i Coen. Ciò che a loro interessa è mettere inscena un grande cerchio narrativo della durata di 111 minuti sulla cui circonferenza possano comodamente trovare spazio citazioni e ammiccamenti cinefili.
Ovviamente non mancano equilibristiche riprese che si accompagnano a una scenografia in cui lo spazio si fa tempo.
A Berlino ci sono due angeli, Cassel e Raffaela (Sander e Kinski), pieni di buone intenzioni nei confronti degli umani. Vorrebbero aiutarli, alleviare le loro sofferenze. Gli altri personaggi sono: un pizzaiolo che canta Funiculì Funiculà (Ganz), il vecchio autista di un gerarca nazista, un gangster americano che vende armi e pornografia (Bucholz), due bambine molto sensibili, un gruppo di acrobati, un investigatore privato troppo contorto (Vogler), un altro angelo “nero” e cinico che forse rappresenta il destino (Dafoe), Peter Falk e Lou Reed che fanno se stessi. Cassel compie un’azione anomala e si trova a essere un umano, e da quel momento comincia a non capirsi. Gli piace bere, gli piacciono i soldi, insomma va alla deriva. Certo, gli uomini sono strani e hanno smarrito il senso di tutto, del bene e del male. Il senso generale della vita. Alla fine, grazie a un ultimo eroismo, Cassel ritorna angelo e ha molti elementi in più per fare il custode. È un film ingiudicabile. Se si ama Wenders l’unica scelta è un atto di fede. Per chi è indifferente ai temi del regista valgono certi episodi di straordinaria creatività , emozione e intelligenza. Intelligenza tutta tedesca. Wenders afferma continuamente la sua radice artistica che, non dimentichiamolo, è forse la più profonda, incidente e imponente del Novecento. Non può dunque mancare un richiamo al nazismo, all’espressionismo (suggestiva la citazione dell’ Urlo di Munch) e alla comunicazione diretta di una certa letteratura (e inoltre arte figurativa, teatro e cinema) che affrontava i temi per rappresentarli, ma soprattutto per risolverli. Con quell’inconfondibile chiave dolorosa e romantica. È una sorta di antropologico ritorno ingenuo. L’angelo dice: “Non siamo il messaggio, siamo i messaggeri”. La morale finale è che occorre essere buoni. Una dichiarazione di sentimento e di semplicità allarmante detta da Wenders, uno che pensa, soffre, e conosce, persino troppo. Una volta accettato il postulato si può anche pensare che sia buona la sua tesi: abbiamo dimenticato tutto, ricominciamo dal primo, naturale comandamento: non fare del male ai nostri simili.
Il medioevo delle fiabe. Tre storie liberamente tratte dalla raccolta postuma (1634 – 1636) di Giambattista Basile, sono intrecciate in un labirinto narrativo di potente suggestione visiva.
Il primo film di Matteo Garrone in lingua inglese, girato in splendidi monumenti e ambienti naturali di mezza Italia è un assalto ai sensi e spiazza provocando grande genuina emozione. In concorso al Festival di Cannes 2015.
Belgrado 1941. Due amici un po’ patrioti e un po’ delinquenti combattono i tedeschi. Per salvarsi uno di loro, ferito, si nasconde, con altri, in una cantina. L’altro diventa un eroe. Dopo la guerra è un favorito di Tito. Continua comunque a tener nascosti gli altri, dicendo che la guerra non è finita. Passano i decenni. Quando il “sepolto” esce alla luce trova un’altra guerra, una sola cosa è cambiata: il suo paese non esiste più. La guerra adesso riguarda i serbi e i bosniaci. Nel frattempo molti sono morti, qualcuno si è sposato, sono nati figli. I fatti si ripetono ciclicamente. C’è sempre una guerra da combattere. I tanti anni passati underground rappresentano l’inutilità di una certa era, quella di Tito, appunto, che non era niente, non era comunismo, non libertà , ma solo attesa di niente. Alla fine tutti sono tornati giovani e banchettano in riva a un fiume. Una striscia di terra si stacca dalla riva. È un altro pezzo che abbandona quella terra piena di dolore. Film travolgente, allegorico e potente. Pieno di simboli, di dolore e di voglia di vivere per reazione. Ci sono anche i caschi blu che trasportano sottoterra, underground, i profughi in Italia. Ci sono tante citazioni cinematografiche. Ricordiamo quella dei due sposi che si ritrovano sott’acqua, omaggio di Kusturika al Jean Vigo dell’ Atalante. Vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 1995.
Il produttore di Ciprì e Maresco ha prodotto un altro film provocatorio, ma gli è mancata l’eco che i due astuti registi sanno suscitare attorno alle loro opere. Così Rezza, che non ha nulla da invidiare loro, mette in scena corteggiatori che invecchiano all’improvviso, poeti tormentati dal rimorso per aver pestato un piede, cadaveri parlanti e via riprendendo. Lo stile surreale è supportato da un’indubbia professionalità .
Film diretto da Kusturika nel ’93. Presentato ai giornalisti al Mifed di Milano. Approda da noi solo nell’estate del ’98. L’America secondo un cineasta jugoslavo, dunque, davvero “nel paese delle meraviglie”. Axel (Depp) dovrebbe, per volontà dello zio (Lewis), fare il venditore di Cadillac, ma preferisce convivere con Faye Dunaway in una fattoria e costruire una rudimentale macchina volante. A complicare i rapporti c’è la figlia della signora, votata al suicidio. Nel frattempo conosciamo una famiglia di esquimesi coi suoi cani, e un pesce che ha entrambi gli occhi dalla stessa parte. La ragazza alla fine riesce a morire, così come il vecchio zio. Ma il pesce si libera allegro nell’aria. L’America è proprio complicata. E lui, Kusturica, la esorcizza con le sue invenzioni, le sue parabole fantastiche e grottesche, a scapito del rigore stilistico occidentale, ma a favore della fantasia per la fantasia, che non è mai cattiva cosa.